La figlia del colonnello: Harmony History
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Quando l'affascinante Conte di Blakehurst incontra Verity, crede che sia soltanto una domestica nella ricca dimora di Lord Faringdon. Non sa che la giovane è stata obbligata dalla famiglia a cambiare identità né che è la figlia del colonnello Scott, l'uomo che gli aveva salvato la vita durante la battaglia di Waterloo. Max propone alla bella servetta, insidiata dal padrone e costretta a subire mille soprusi, di diventare la sua amante e di seguirlo a Londra. Soltanto dopo una notte d'amore scopre chi è in realtà la fanciulla. A quel punto gli resta un unico modo per rimediare a quanto è successo: compiere il proprio dovere di gentiluomo e chiederle di sposarlo. Peccato che lei sia di tutt'altro parere.
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La figlia del colonnello - Elizabeth Rolls
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
His Lady Mistress
Harlequin Mills & Boon Historical Romance
© 2004 Pamela Eldridge
Traduzione di Daniela Mento
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
Harmony è un marchio registrato di proprietà
HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.
© 2006 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-3051-364-8
Prologo
Autunno 1817
Verity, rannicchiata nell’oscurità, spiava attraverso il velo di pioggia battente i due uomini che portavano la bara fuori dal casolare, per caricarla sul carretto fermo davanti alla porta.
Il cavallo, quando la rozza bara di legno venne deposta sul carretto dietro di lui, nitrì e scalpitò come se avesse percepito il brivido gelido della morte. Il ragazzo che teneva alta la lanterna per fare luce ai due uomini cercò di calmarlo, ma si vedeva che anche lui era molto nervoso.
Per favore, non trattatelo male, pregò Verity con una stretta al cuore, mentre i due sistemavano la bara sul carro con brusche spinte e strattoni.
«Tutto a posto, Jake?» chiese uno di loro.
«Sì, Bill. Possiamo andare. Prima ce ne liberiamo e meglio è.»
«Dammi la lanterna, ragazzo, e vai a dormire. Ci pensiamo noi» disse Bill.
Il ragazzo obbedì. Non vedeva l’ora di andarsene, quindi sparì nell’oscurità facendo schizzare l’acqua delle pozzanghere mentre si allontanava più in fretta che poteva. I due uomini salirono sul carro, che si mosse lento per uscire dal villaggio.
Le strade erano deserte, per l’ora tarda e per il temporale. Nessuno notò la piccola ombra che seguiva il carro a distanza, camminando rasente i muri e cercando di non perdere di vista la luce tremula della lanterna.
Quando il carro raggiunse il limite del villaggio, un uomo a cavallo gli sbarrò la strada. Verity vide che era alto, avvolto in un pesante mantello scuro, con un cappello in testa. Nascosta nell’androne di una chiesa, non riuscì a capire che cosa stesse dicendo ai due uomini sul carro, ma quando loro si rimisero in marcia, il cavaliere li seguì.
Cosa voleva quello sconosciuto? Chi era? Le avevano detto che un gentiluomo era arrivato alla locanda del villaggio nel pomeriggio. Che cosa gli importava di quello che stava accadendo? Non erano affari suoi. Forse voleva solo una storia da raccontare agli amici, al suo ritorno in città.
Trattenendo a stento i singhiozzi e stringendosi nel mantello vecchio e liso, inzuppato di pioggia, Verity continuò a seguire il carro fino a quando lo vide fermarsi a un crocevia. Quello era il punto dov’era stata scavata la fossa, lontano dal centro abitato e soprattutto dal cimitero consacrato, così come aveva ordinato il parroco.
Verity si nascose dietro un cespuglio. I capelli bagnati le ricadevano sul viso.
«Maledizione!» imprecò quello che si chiamava Jake. «Questa maledetta fossa si è riempita d’acqua!»
«Che cosa te ne importa? Dobbiamo solo metterlo lì dentro e andarcene. Per fortuna l’abbiamo scavata questo pomeriggio, quando ancora non pioveva» rispose l’altro.
«Un momento!» li fermò il gentiluomo scendendo di sella. «Tenete le redini del mio cavallo. Ci penserò io a mettere la bara nella fossa.»
Mentre lo sconosciuto si avvicinava al carro, si sentì un gemito nell’oscurità. Verity non era riuscita a soffocarlo.
«Che cosa è stato?» chiese Bill, guardandosi intorno.
«Qualche animale selvatico» fu il parere del gentiluomo.
«Forse è il diavolo che è venuto a prendersi l’anima del morto» suggerì Jake, ridacchiando in modo sinistro.
«Non dirlo nemmeno per scherzo!» lo zittì l’amico. «Presto, liberiamocene e andiamo via di qui.»
Verity, che per poco non era stata scoperta, si tappò la bocca con la mano per non lasciarsi sfuggire neppure un lamento mentre il cavaliere alzava la bara con sorprendente facilità e la portava fino alla fossa. Vide che la calava dentro con rispetto, quasi con gentilezza, e il suo cuore gliene fu grato.
Poi lo sconosciuto cominciò a recitare la preghiera per i morti. «Affidiamo questo corpo alla terra...»
«No!» lo interruppe scandalizzato Jake. «Il parroco ha detto che non si deve pregare per un uomo che si è tolto la vita con le proprie mani...»
«Che vada all’inferno!» replicò il cavaliere senza scomporsi, e continuò. «Polvere alla polvere, cenere alla cenere...»
Le lacrime si mescolarono alla pioggia sulle guance di Verity. Chiunque fosse lo straniero che pregava per l’anima di suo padre, gli sarebbe stata grata per il resto della vita. Era la sola persona che dimostrava pietà per un uomo disperato che non aveva più trovato il coraggio di vivere.
«Spostatevi, adesso» ordinò Bill allo sconosciuto, quando ebbe finito la sua preghiera per il defunto. «Dobbiamo piantare il piolo, o la sua anima tornerà a tormentarci. Sono gli ordini del parroco.»
Il cavaliere imprecò di nuovo contro il curato. «Ditegli che avete eseguito gli ordini e andatevene. Che cosa vi ha fatto di male questo pover’uomo?»
«Sono gli ordini del parroco» ripeté irremovibile l’altro. «Noi dobbiamo obbedire.»
Verity si nascose il viso tra le mani. Bill si calò nella fossa con il piolo e il martello, poi spostò il coperchio della bara. Il martello si alzò e colpì il piolo una, due, tre volte. Le sembrava che ogni volta lo piantassero nel suo cuore. Poi, finalmente, sentì che stavano riempiendo di terra la fossa.
Non ci volle molto. I due uomini risalirono sul carro e se ne andarono. Anche il cavaliere si rimise in sella e si allontanò. Verity attese che fossero spariti nell’oscurità e uscì dal suo nascondiglio.
«Papà... oh, papà...» singhiozzò, gettandosi sulla fossa appena coperta.
Pianse per qualche minuto, poi ricordò quello che aveva portato con sé. Cercò sotto il mantello, nelle tasche del vestito bagnato, ma prima che potesse trovare quello che cercava due robuste mani l’afferrarono per le spalle.
«Che cosa credi di trovare qui, furfantello?» la apostrofò la voce del cavaliere. «Non c’è nulla da rubare a questo povero morto. Vattene prima che io ti...»
Verity si sentì alzare con forza.
Il cavaliere la stava fissando. «Buon Dio! Non siete un ragazzo... Che cosa ci fate qui?»
Verity tremava da capo a piedi. Lo spavento aveva dato il colpo di grazia al suo stato emotivo. «Io... io sono...» trovò la forza di balbettare, «Verity Scott.»
«Verity Scott? Ma allora siete sua figlia!» La voce del gentiluomo si fece più gentile, piena di compassione. «Non sareste mai dovuta venire. Quanti anni avete, per l’amor di Dio?»
Una mano amorevole le tolse i capelli bagnati dal viso.
«Qui... quindici.»
«Via, andiamo via di qui» le ordinò lui, avvolgendola nel suo mantello, ma Verity puntò i piedi e si oppose.
«No, no. Devo rimanere. Devo piantare i fiori...»
«I fiori?» Il cavaliere non capiva.
«Se mettessi una croce o qualche altra cosa, il parroco la farebbe togliere. Invece pianterò dei bulbi e a primavera fioriranno. Così potrò ritrovare la tomba di mio padre.»
Li cercò ancora nelle tasche del vestito e li trovò. Glieli mostrò con gli occhi pieni di lacrime.
«Date qui, Miss Scott. Vi aiuterò» le disse lui.
Si inginocchiarono nel fango e piantarono i bulbi. Nessuno se ne sarebbe accorto, la fanciulla aveva ragione, pensò il cavaliere. Poi la aiutò a rialzarsi e insieme recitarono un salmo. Il mantello del cavaliere copriva entrambi, il suo braccio forte le cingeva le spalle.
«Posso sapere il vostro nome?» gli domandò Verity alla fine della preghiera.
«Mi chiamo Max» fu la risposta.
L’uomo salì sul suo cavallo, poi le cinse la vita e la sollevò per farla sedere davanti a sé.
«Vostro padre era il mio colonnello. Un uomo coraggioso e generoso, è così che io lo ricordo e che anche voi dovete ricordarlo, Verity.»
Tornarono al villaggio. Verity, protetta dal suo mantello e dal suo abbraccio, riuscì finalmente a smettere di piangere. Quando arrivarono alla locanda si era quasi addormentata.
«Chi si occuperà di voi, adesso?» le domandò Max.
«Mio zio. Arriverà domani.»
«Dove vivete adesso?»
«Dove dovrei vivere? Al casolare.»
«Vi ci accompagnerò.»
Una finestra della locanda si aprì.
«Harding, sei tu? Vieni giù a prendere il cavallo e dagli una bella strigliata» gli ordinò Max.
Il servitore arrivò in fretta, con la lanterna in mano, e si stupì di trovare una giovinetta con il suo padrone.
«È Miss Scott» gli spiegò Max.
«Miss Scott? Bontà divina! Vostro padre era un galantuomo, credetemi. Che Dio lo benedica e che benedica anche voi.»
«Non aspettarmi sveglio, Harding» gli ordinò il padrone.
«Come volete.»
«Posso tornare da sola al casolare» si permise di obiettare Verity.
«Non lo dite nemmeno per scherzo. Andiamo.»
Quando giunsero al casolare dove abitava, Max le chiese la chiave.
«Quale chiave? Non c’è nulla da rubare qui dentro.»
Bastò spingere la porta per entrare. Verity cercò al buio l’acciarino e una candela, ma anche quando li trovò le sue mani tremavano tanto che non riuscì ad accendere il fuoco.
«Datelo a me» le ordinò Max, prendendole di mano l’acciarino.
In un attimo una scintilla accese la candela, che illuminò la più povera e triste cucina che lui avesse mai visto. C’era ancora della legna nel caminetto, quindi si avvicinò con la candela e accese il fuoco.
«Dovete cambiarvi» disse a Verity. «Andate a prendere dei vestiti asciutti e portateli qui.»
Verity, che fissava affascinata il fuoco, si riscosse.
«Perché mai dovrei portarli qui?»
«Per cambiarvi, vi ho detto.»
«Dovrei cambiarmi qui, davanti a voi?»
«Qui fa caldo. Mi volterò, non dubitate.»
«Mi cambierò di sopra.»
«Qui c’è il fuoco.»
Verity fu irremovibile. «Andrò a cambiarmi di sopra.»
«Vostro padre diceva che eravate ostinata come vostra madre, e aveva ragione» si rassegnò Max. «Andate pure di sopra a cambiarvi, ma fate in fretta.»
Max aveva frugato nella credenza e in tutti i mobili della cucina, ma non aveva trovato altro che un pezzo di formaggio, una fetta di pane nero e due mele. Una ben misera cena, pensò prendendo un piatto.
Quando Verity tornò li trovò nel piatto, sul tavolo.
«Non c’era altro» disse lui.
«Mi dispiace. Se avessi saputo della vostra visita...»
«È per voi, accidenti! Mangiate» le ordinò lui brusco.
A dire la verità quella avrebbe dovuto essere la colazione del mattino dopo, ma il tono di Max era così imperioso che Verity gli obbedì senza discutere. I vestiti asciutti, il fuoco acceso nel caminetto e soprattutto la sua presenza le diedero la forza di mangiare.
«Brava» approvò lui, togliendo il piatto vuoto. «Ho messo un mattone vicino al fuoco, dovrebbe essere ben caldo. Lo porterete di sopra e lo infilerete nel letto. Una bella dormita vi farà bene.»
«E voi?»
«Resterò ancora un po’ qui, se permettete, per riscaldarmi. Poi ritornerò alla locanda. Andate a dormire.»
Max prese il mattone con due pinze e lo avvolse in uno spesso canovaccio da cucina. «Ecco, prendete» le disse, mettendoglielo fra le braccia.
«Vi rivedrò?»
«È meglio di no. Non credo che vostro zio approverebbe, se domani mi trovasse qui al suo arrivo. Addio, cara» aggiunse abbracciandola forte. «E buonanotte.»
Verity esitò sulla porta, prima di andare al piano di sopra. Guardò un’ultima volta l’unico essere umano che aveva avuto compassione di lei e suo padre. Cercò di fissare nella propria mente quel viso dai lineamenti duri, il suo sorriso affettuoso. Poi gli augurò la buonanotte e andò a dormire.
Max rimase seduto davanti al caminetto, fissando il fuoco e odiando se stesso. Se solo avesse saputo prima della situazione in cui si trovava William Scott, avrebbe potuto fare qualcosa per lui. Per fortuna sua figlia non sarebbe rimasta sola al mondo, lo zio si sarebbe occupato di lei.
La perdita del braccio era stata un trauma terribile per il suo colonnello. E l’incidente era avvenuto per proteggere lui dalla baionetta di un soldato francese. Gli aveva salvato la vita, ma era rimasto invalido. Una morte da eroe sul campo di battaglia di Waterloo non sarebbe stata un gran male per Max Blakehurst, pensò. Ma non si era trattato soltanto del braccio. Quando era ritornato dalla guerra Scott aveva scoperto che la moglie era morta di parto, aveva cominciato a prendere il laudano tutti i giorni ed era caduto nella depressione e nello sconforto. Max l’aveva saputo tardi, troppo tardi. Se soltanto non avesse ceduto alle insistenze della sua famiglia, si disse, se non avesse accettato quel posto all’ambasciata di Vienna e fosse rientrato subito in patria... Adesso quello che poteva fare per l’uomo che gli aveva salvato la vita era di piangere la sua tragica morte.
Verity scese in cucina subito dopo l’alba, rimpiangendo di aver mangiato tutto quello che c’era in casa la sera prima. Il suo stomaco brontolava per la fame, ma non c’era più nulla per riempirlo.
Quando entrò in cucina vide sul tavolo quattro uova, una pagnotta appena sfornata, della pancetta, burro, formaggio, sei mele e del latte.
Max, il suo angelo custode, doveva essere tornato quel mattino per portarle la colazione, pensò con le lacrime agli occhi. E non solo quella, perché accanto al caminetto c’erano alcune fascine nuove, per alimentare il fuoco che scoppiettava allegro. Davanti al fuoco c’era una seggiola, su cui erano disposti ad asciugare gli indumenti bagnati che lei si era tolta la sera prima. Non solo il mantello che aveva lasciato appeso all’attaccapanni, quando era rientrata insieme a Max, ma anche il vestito che si era levata quando era salita al piano di sopra e che aveva appeso vicino al mantello ritornando in cucina, con il proposito di metterlo ad asciugare più tardi.
Verity si avvicinò al caminetto, gli indumenti erano ormai asciutti. C’era di più, erano anche puliti perché qualcuno, ed era facile immaginare chi, aveva spazzolato via con cura le macchie di fango.
La grigia alba di uno dei giorni più tristi della sua vita sembrò illuminarsi. Non era più sola al mondo, aveva un amico.
Qualcuno da poter amare.
1
Estate inoltrata, 1822
«Che cosa ci fai nella tua stanza? Perché perdi tempo a leggere quando il vestito di Celia deve essere rammendato?»
Selina Dering trasalì e ripose in fretta il libro nel vecchio baule militare ai piedi del letto.
«Scusatemi, zia» rispose a Lady Caroline Faringdon. «Non sapevo che il vestito di Celia dovesse essere rammendato.»
«Come potevi saperlo, se te ne stai qui a perdere tempo, invece di darti da fare? E nessuna signora si siede in quel modo su un letto. Quando imparerai a comportarti come si deve?»
«Voi e Celia mi avevate detto di non stare sempre fra i piedi...» osò rispondere Selina, senza far notare alla zia che non avrebbe potuto sedersi altrove che sul letto, dato che in quel buco che chiamava stanza non c’era nemmeno una sedia.
«Come ti permetti di rispondere? Non ti è bastata la lezione che hai avuto ieri? Vai subito a rammendare l’abito di Celia, prima che arrivino Sua Signoria e gli altri invitati.»
«Sì, zia» rispose Selina, ma Lady Faringdon se n’era già andata.
Selina chiuse il baule che conteneva tutti i suoi averi con la chiave che portava sempre al collo, prese il cestino da cucito e uscì dalla stanza per andare a rammendare l’abito della cugina. In quella casa era soltanto