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The returned (Edizione italiana)
The returned (Edizione italiana)
The returned (Edizione italiana)
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The returned (Edizione italiana)

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IL ROMANZO, TRADOTTO IN 13 PAESI, CHE HA ISPIRATO LA SERIE TV RESURRECTION
Alcune persone chiudono le porte del loro cuore quando perdono qualcuno. Altre tengono porte e finestre aperte, lasciando che i ricordi e l'amore vi passino liberamente. E forse era così che doveva succedere. Stava succedendo lo stesso in tutto il mondo.

Per Harold e Lucille Hargrave la vita è stata felice e amara allo stesso tempo, da quando hanno perso il figlio Jacob il giorno del suo ottavo compleanno, nel 1966. In tutti questi anni, si sono adattati a una vita tranquilla, senza di lui, lasciando che il tempo alleviasse il dolore... Finchè un giorno Jacob, il loro dolce, prezioso bambino, misteriosamente, ricompare alla loro porta, in carne e ossa. E ha ancora otto anni.

In tutto il mondo i morti stanno tornando dall'aldilà.

Mentre il caos rischia di travolgere il mondo intero, la famiglia Hargrave di nuovo riunita si ritrova al centro di una comunità sull'orlo del collasso, costretta a fare i conti con una realtà nuova quanto misteriosa e con un conflitto che minaccia di sovvertire il significato stesso di genere umano.

LanguageItaliano
Release dateNov 21, 2013
ISBN9788858917312
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    The returned (Edizione italiana) - Jason Mott

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    The Returned

    Mira Books

    © 2013 Jason Mott

    Traduzione di Elisabetta Lavarello

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Enterprises II B.V. / S.à.r.l Luxembourg.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2013 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5891-731-2

    www.eHarmony.it

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

    Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    1

    Quel giorno Harold aprì la porta e si trovò davanti un uomo dalla pelle scura vestito con un abito formale. Per un attimo pensò di prendere lo schioppo, poi ricordò che Lucille glielo aveva fatto vendere anni prima, dopo una discussione avvenuta con un predicatore itinerante in merito a dei cani da caccia.

    «Desidera?» chiese Harold, strizzando gli occhi. La pelle dell’uomo sembrava ancora più nera in controluce.

    «Signor Hargrave?»

    «Può darsi» rispose Harold.

    «Chi è, Harold?» chiamò Lucille. Era in salotto, davanti al televisore. Al telegiornale, stavano parlando di Edmund Blithe, il primo dei Redivivi, e di come fosse cambiata la sua esistenza adesso che era di nuovo vivo.

    «Sarà meglio, la seconda volta?» chiese il giornalista, guardando dritto nella telecamera e lasciando l’onere della risposta agli ascoltatori.

    Il cortile davanti a casa Hargrave era ombreggiato da una quercia, ma il sole era tanto basso che filtrava in orizzontale sotto i rami, dritto negli occhi. Harold si teneva una mano sulla fronte come una visiera, eppure l’uomo dalla pelle scura e il bambino erano poco più che due sagome stagliate contro uno sfondo verde e azzurro di foglie e cielo. L’uomo era magro, ma aveva le spalle squadrate nella giacca dal taglio impeccabile. Il bimbo era piccolo, sugli otto o nove anni.

    Harold batté le palpebre. I suoi occhi si adattarono un po’ alla luce.

    «Chi è, Harold?» chiamò Lucille una seconda volta, quando si rese conto che il marito non le aveva risposto.

    Harold restò immobile sulla soglia, gli occhi che battevano come luci di pericolo, lo sguardo fisso sul bambino che catalizzava sempre più la sua attenzione. Qualcosa scattò nei recessi del suo cervello e a un tratto capì chi era quel bimbo fermo accanto allo sconosciuto dalla pelle scura. Non era possibile. Provò a ragionare, ma si ritrovò con la stessa risposta.

    In salotto, sullo schermo era apparsa una bolgia di pugni agitati e di bocche urlanti. C’erano dimostranti che alzavano cartelli e soldati armati fermi in quella posizione statuaria che solo uomini dotati di autorità e munizioni sanno assumere. Sullo sfondo si vedeva la villetta bifamiliare di Edmund Blithe, con le tende tirate. Tutto ciò che si sapeva era che lui era dentro.

    Lucille scosse la testa. «Riesci a immaginartelo?» chiese. Poi: «Ma chi è alla porta, Harold?».

    Fermo sulla soglia, Harold scrutava il bambino: piccolo, pallido, lentigginoso, coi capelli castani. Indossava una maglietta un po’ datata, un paio di jeans, e aveva un’espressione di infinito sollievo negli occhi. Occhi che non erano più immoti e sbarrati, ma vibranti di vita e orlati di lacrime.

    «Qual è l’animale che ha quattro zampe e fa Buuuu?» chiese il bambino con un tremito nella voce.

    Harold si schiarì la gola. Non credeva ancora ai suoi occhi. «Non lo so» rispose.

    «Una mucca col raffreddore!»

    Poi il bambino abbracciò il vecchio per la vita, singhiozzando: «Papà, papà!», prima che Harold potesse confermare o negare. Harold si accasciò contro lo stipite e accarezzò la testa del bambino con un istinto paterno da troppo tempo sopito. «Ssh» bisbigliò. «Ssh.»

    «Harold?» chiamò Lucille, staccando finalmente gli occhi dal televisore. Aveva uno strano senso di premonizione. «Harold, cosa succede? Chi è?»

    Lui si inumidì le labbra. «È... è...»

    Joseph, stava per dire.

    «È Jacob» rispose alla fine.

    Per fortuna di Lucille, il divano era lì a fermare la sua caduta quando svenne.

    Jacob William Hargrave morì il 15 agosto del 1966. Il giorno del suo ottavo compleanno. Negli anni a seguire, i suoi concittadini avrebbero parlato di quella morte nel cuore della notte, quando non riuscivano a dormire. Si sarebbero girati su un fianco per svegliare il coniuge e avrebbero bisbigliato osservazioni sull’incertezza del mondo e su come bisognasse apprezzare i doni del cielo. Si sarebbero alzati insieme dal letto e si sarebbero affacciati alla porta della camera da letto dei figli per guardarli dormire e per riflettere in silenzio sulla natura di un Dio che toglie un bambino tanto presto da questo mondo. Vivevano in una piccola città del Sud, dopotutto. Come poteva una tragedia come quella non indurli a pensare a Dio?

    Dopo la morte di Jacob, sua madre, Lucille, aveva ammesso che si aspettava che quel giorno sarebbe successa una cosa terribile a causa di un incubo che aveva fatto proprio la notte prima.

    Quella notte Lucille aveva sognato che le cadevano i denti. Un presagio di morte, le aveva detto sua madre molto tempo prima.

    Durante tutta la festa di compleanno di Jacob, Lucille aveva tenuto d’occhio non solo il figlio e gli altri bambini, ma anche gli altri invitati. Aveva svolazzato qua e là come un passero nervoso, chiedendo a tutti come stavano, se avevano abbastanza da mangiare, facendo commenti su quanto fossero dimagriti dall’ultima volta che si erano visti, su quanto fossero cresciuti i loro figli e, perfino, su quanto fosse bello il tempo. Il sole splendeva e la campagna era di un verde intenso.

    Quel disagio fece di lei una meravigliosa padrona di casa. Nessun bimbo restò senza cibo. Nessun ospite si trovò escluso dalla conversazione. Riuscì perfino a convincere Mary Green a cantare per loro più tardi, quella sera. La donna aveva una voce più dolce dello zucchero e Jacob, se fosse stato abbastanza grande da avere una cotta per qualcuno, avrebbe avuto un debole per lei. Per questo Fred, il marito di Mary, spesso lo prendeva in giro.

    Fu proprio una bella giornata. Una bella giornata, almeno, finché Jacob non sparì.

    Si allontanò alla chetichella come solo i bambini e altre piccole creature sanno fare. Accadde fra le tre e le tre e mezzo, come in seguito Harold e Lucille avrebbero detto alla polizia. Per ragioni note solo al bambino e, forse, alla natura, Jacob attraversò il lato sud del giardino, superò i pini, si inoltrò nel bosco e scese fino al fiume dove, senza chiedere il permesso o scusarsi, annegò.

    Solo qualche giorno prima che l’uomo del Bureau si presentasse alla loro porta, Harold e Lucille avevano discusso su cosa avrebbero fatto se mai Jacob fosse tornato Redivivo.

    «Non sono persone» dichiarò Lucille, torcendosi le mani. Erano sul portico. Tutte le cose importanti, in casa loro, avvenivano sul portico.

    «Non potremmo mandarlo via» fece notare Harold. Pestò un piede. La discussione era degenerata in fretta.

    «Però non sono persone» insistette lei.

    «Bene. Se non sono persone, allora cosa sono? Vegetali? Minerali?» Harold si sentiva prudere le labbra per la voglia di una sigaretta. Fumare lo aveva sempre aiutato ad avere la meglio nelle discussioni con la moglie. E questo, sospettava, era il vero motivo per cui lei disapprovava tanto quell’abitudine.

    «Non fare il saccente con me, Harold Nathaniel Hargrave. È una questione seria.»

    «Saccente?»

    «Sì, saccente! Sei sempre incline alla supponenza!»

    «Accidenti. Ieri cos’ero? Loquace? Oggi sono saccente, eh?»

    «Non prenderti gioco di me se cerco di parlare bene. La mia mente è lucida com’era un tempo, forse anche di più. E non cambiare discorso.»

    «Saccente.» Harold scandì la parola, calcando sul te finale al punto che una gocciolina di saliva piovve oltre il parapetto. «Hmph.»

    Lucille lasciò perdere. «Io non so cosa siano» riprese. Si alzò. Poi tornò a sedersi. «So solo che non sono come te e me. Sono... sono...» Una pausa. Si preparò la parola in bocca, costruendola con cura, lettera dopo lettera. «Sono diavoli» disse alla fine. Poi si ritrasse, come se quella parola potesse rivoltarsi contro di lei e morderla. «Sono tornati qui per ucciderci. O per tentarci! Siamo vicini alla fine del mondo. Quando i morti cammineranno sulla terra. Lo dice la Bibbia!»

    Harold grugnì, ancora offeso per quel saccente. Si mise una mano in tasca. «Diavoli?» chiese, seguendo il filo dei propri pensieri mentre le sue dita trovavano l’accendino. «I diavoli sono superstizioni. Il prodotto di menti piccine e di immaginazioni ancora più piccole. Se c’è una parola che dovrebbe essere cancellata dal dizionario è proprio diavolo. Ah! Ecco una parola saccente. Non ha niente a che fare con la realtà, niente a che fare con i... Redivivi. Non commettere questo errore, Lucille Abigail Daniels Hargrave. Sono persone vere. Possono camminare e baciarti. Non ho mai incontrato un diavolo che fosse in grado di farlo... anche se, prima che ci sposassimo, ci fu questa biondina a Tulsa un sabato sera... sì, quella avrebbe potuto essere una diavolessa.»

    «Zitto!» abbaiò Lucille, tanto forte che fu la prima a trasalire. «Non resterò qui a sentirti parlare così.»

    «Così come?»

    «Non sarebbe il nostro bambino» insistette lei, ma in modo assente, come se si fosse resa conto solo in quel momento della gravità della situazione, o forse fosse emerso il ricordo del figlio perduto. «Jacob è salito in cielo» dichiarò. Le sue mani erano diventate esili pugni bianchi stretti in grembo.

    Il silenzio si protrasse.

    Poi venne rotto.

    «Dov’è?» chiese Harold.

    «Cosa?»

    «Nella Bibbia, dove?»

    «Dove cosa?»

    «Dov’è che si dice quando i morti cammineranno sulla terra

    «Rivelazione!» Lucille allargò le braccia, come se fosse una domanda assurda, come se lui le avesse chiesto della rotta di volo dei pini. «È proprio lì, nel libro della Rivelazione! I morti cammineranno sulla terra!» Fu lieta di vedere che le sue mani erano ancora strette a pugno. Li agitò, contro nessuno in particolare, come a volte facevano nei film.

    Harold rise. «Quale parte della Rivelazione? Quale capitolo? Quale versetto?»

    «Oh, smettila!» sbuffò lei. «C’è, e solo questo conta. E ora, chiudi il becco!»

    «Sissignora. Non vorrei mai essere saccente.»

    Ma quando il diavolo davvero si presentò alla porta, il loro particolare diavolo, piccolo e meraviglioso come era stato tanti anni prima, con gli occhi castani lucidi di lacrime di gioia e del sollievo di un bambino che è stato troppo a lungo lontano dai genitori... ebbene... Lucille, dopo essersi ripresa dallo svenimento, si sciolse come cera di candela davanti all’elegante, ben rasato uomo del Bureau. Da parte sua, l’uomo del Bureau la prese abbastanza bene. Aveva sulle labbra un sorriso consapevole, avendo senza dubbio assistito a quella stessa scena altre volte in quelle ultime settimane.

    «Esistono gruppi di supporto. Gruppi di supporto per i Redivivi. E gruppi di supporto per le famiglie dei Redivivi.» L’uomo del Bureau sorrise.

    Si era presentato, ma Harold e Lucille avevano difficoltà a ricordare i nomi anche in circostanze normali e trovarsi davanti il loro figliolo morto non li aiutava a concentrarsi. Così, pensavano a lui semplicemente come all’Uomo del Bureau.

    «È stato trovato in un villaggio di pescatori nei pressi di Pechino, in Cina» spiegò lui ora. «Era inginocchiato sulla riva di un fiume e cercava di prendere dei pesci, o così pareva. Gli abitanti del luogo, nessuno dei quali parlava inglese abbastanza bene da farsi capire, gli chiesero in mandarino come si chiamasse, come fosse arrivato lì, da dove venisse. Insomma, tutte le domande che si fanno a un bambino che si è smarrito.» Una pausa. «Quando fu chiaro che la lingua era un ostacolo, alcune donne riuscirono a calmarlo. Si era messo a piangere... e perché non avrebbe dovuto?» L’uomo sorrise di nuovo. «Dopotutto, come si suol dire, non era più in Kansas. Trovarono un funzionario locale che parlava inglese e, insomma...» Alzò le spalle sotto l’abito scuro, come a indicare che il resto della storia era irrilevante. Poi aggiunse: «Sta succedendo la stessa cosa in tutto il mondo».

    Esitò ancora. Con un sorriso che non era insincero, guardò Lucille accogliere il figlio tornato in vita dopo decenni. La donna se lo strinse al petto e lo baciò sui capelli, poi si prese il suo viso tra le mani e lo tempestò di baci sorridenti e lacrimosi.

    Jacob reagì ridacchiando, ma non si sottrasse alle effusioni della madre, anche se si trovava in quella particolare fase della crescita in cui un bambino non ama essere sbaciucchiato.

    «Sono tempi singolari per tutti» disse l’uomo del Bureau.

    ina Bianca

    Kamui Yamamoto

    Il campanellino d’ottone tintinnò quando lui aprì la porta del piccolo market. Fuori, qualcuno aveva fatto benzina alla pompa e ripartì senza vederlo. Dietro il banco, un uomo dalla faccia rubizza smise di parlare con un tizio alto e allampanato. I due lo fissarono. L’unico suono che si udiva nel negozio era il ronzio dei freezer. Kamui fece un profondo inchino, e il campanellino d’ottone tintinnò una seconda volta quando la porta si richiuse alle sue spalle.

    Gli uomini dietro il banco restarono in silenzio.

    Lui si inchinò ancora, sorridendo. «Perdonatemi» disse, e gli uomini trasalirono. «Mi arrendo.» Alzò le mani.

    Il tizio dalla faccia rubizza disse qualcosa che Kamui non capì. Guardò l’altro, e i due confabularono a lungo, sbirciandolo di traverso. L’uomo rubizzo indicò la porta. Kamui si girò, ma vide solo la strada deserta e il sole che si stava alzando nel cielo. «Mi arrendo» ripeté.

    Aveva seppellito la pistola accanto a un albero al limitare del bosco in cui si era risvegliato poche ore prima, proprio come gli altri soldati. Si era tolto la giacca dell’uniforme, il cappello, e aveva lasciato nel bosco anche quelli, per cui ora si trovava in quella piccola stazione di servizio all’alba vestito solo con la maglietta, i pantaloni e gli scarponi ben lucidati. Tutto per evitare di essere ucciso dagli americani. «Yamamoto desu» disse. Poi: «Mi arrendo».

    L’uomo dalla faccia rubizza parlò di nuovo, più forte questa volta. L’altro lo affiancò, ed entrambi si misero a urlare e a indicare la porta. «Mi arrendo» ripeté Kamui, preoccupato dal modo in cui le loro voci si erano alzate. Il tizio allampanato afferrò una bibita in lattina dal banco e gliela tirò addosso. Lo mancò, così lanciò un urlo e tornò a indicare la porta, cercando con gli occhi qualcos’altro da lanciare.

    «Grazie» riuscì a dire Kamui, anche se non era ciò che avrebbe voluto dire. Il suo vocabolario di inglese si limitava a pochissime parole. Arretrò verso la porta. L’uomo rubizzo cercò sotto il banco e trovò un’altra lattina. La scagliò con un grugnito. La bibita colpì Kamui sopra la tempia sinistra. Cadde all’indietro contro la porta. Il campanellino tintinnò.

    L’uomo rubizzo tirò altre due lattine. Mentre quello allampanato urlava e cercava corpi contundenti, Kamui fuggì dalla stazione di servizio, inciampando, le mani in alto per dimostrare che non era armato e non aveva altre intenzioni se non quella di consegnarsi. Il cuore gli martellava nelle orecchie.

    Fuori, il sole era sorto e la città si era tinta di una luce aranciata. Sembrava pacifica.

    Con un rivoletto di sangue che gli colava sulla guancia, si incamminò lungo la strada con le braccia alzate. «Mi arrendo!» urlava, svegliando la città. Sperava che le persone che avrebbe incontrato lo lasciassero vivere.

    2

    Ovviamente, anche per le persone tornate dall’aldilà c’era burocrazia. Il Bureau Internazionale dei Redivivi stava ricevendo più fondi di quelli che riusciva a spendere. Non c’era una sola nazione al mondo che non fosse disposta a ricorrere alle riserve auree o a indebitarsi per assicurarsi un’entratura nel Bureau, dato che era l’unica organizzazione del pianeta che fosse in grado di coordinare la situazione.

    L’ironia della sorte era che nessuno, all’interno del Bureau, ne sapeva più degli altri. In realtà, non facevano altro che censire le persone e aiutarle a trovare la via di casa. Niente di più.

    Quando, sulla porta della villetta degli Hargrave, la prima ondata d’emotività si attenuò, Jacob venne portato in cucina dove si sedette a tavola e poté recuperare tutto il cibo che si era perso durante la sua assenza. L’uomo del Bureau si accomodò in salotto con Harold e Lucille, tolse un fascio di carte da una ventiquattrore di pelle marrone e si mise al lavoro.

    «Quando morì originariamente il Redivivo?» chiese l’uomo del Bureau che, per la seconda volta, si era presentato come agente Martin Bellamy.

    «Dobbiamo proprio dire così?» chiese Lucille. Inspirò e si sedette più eretta. Si era sistemata i lunghi capelli grigi che si erano sciolti mentre abbracciava il figlio, e aveva un’aria regale e autorevole.

    «Dire cosa?» Harold non capiva.

    «Si riferisce al termine morire» spiegò l’agente Bellamy.

    Lucille confermò con un cenno della testa.

    «Cosa c’è di male nel dire che morì?» chiese Harold, la voce più forte del dovuto. Vedevano Jacob dalla porta, anche se era troppo lontano per sentirli.

    «Ssh!»

    «È morto» ribadì Harold. «Non ha senso fingere che non lo sia.» Non lo aveva fatto intenzionalmente, ma la sua voce si era abbassata.

    «Martin Bellamy ha capito cosa intendo» disse Lucille. Si torceva le mani in grembo, cercando costantemente Jacob con gli occhi, come se fosse una candela in una casa piena di spifferi.

    L’agente Bellamy sorrise. «È tutto okay. È un atteggiamento piuttosto comune, anzi. Avrei dovuto essere più delicato. Ricominciamo da capo, d’accordo?» Abbassò gli occhi sul questionario. «Quando il Redivivo...»

    «Da dove viene?»

    «Prego?»

    «Lei da dove viene?» Harold era in piedi accanto alla finestra e guardava il cielo azzurro. «Sembra un newyorchese.»

    «È un bene o un male?» si informò l’agente Bellamy, come se non gli fosse già stato fatto notare il suo accento una dozzina di volte da quando era stato assegnato ai Redivivi della parte meridionale del North Carolina.

    «Una cosa pessima» rispose Harold. «Ma io sono un uomo indulgente.»

    «Jacob» li interruppe Lucille. «Lo chiami Jacob, per favore. Il suo nome è Jacob.»

    «Sì, signora» annuì l’agente Bellamy. «Mi scusi. Dovrei saperlo, ormai.»

    «Grazie, Martin Bellamy» disse Lucille. Per qualche motivo, le sue mani si erano strette a pugno. Inspirò a fondo e, concentrandosi, le sciolse. «Grazie, Martin Bellamy» ripeté.

    «Quando se ne andò Jacob?» chiese l’agente Bellamy dolcemente.

    «Il 15 agosto del 1966» rispose Harold. Si spostò sulla porta, con l’aria turbata. Inumidì le labbra. Passò le mani dalle tasche dei vecchi pantaloni consumati alle vecchie, consumate labbra, senza trovare pace, o una sigaretta, a nessuna delle due estremità del viaggio.

    L’agente Bellamy prendeva appunti.

    «Come successe?»

    La parola Jacob era diventata un mantra quel giorno, durante le ricerche. A intervalli regolari, il richiamo si alzava. «Jacob! Jacob Hargrave!» Poi un’altra voce ripeteva il nome e lo passava al volontario successivo, lungo la linea. «Jacob! Jacob!»

    All’inizio i richiami si erano sovrapposti in una cacofonia di paura e disperazione. Ma il bambino non venne trovato subito e, per risparmiare la voce, gli uomini e le donne della squadra di ricerca fecero a turno a urlare mentre il sole scendeva verso l’orizzonte per essere ingoiato prima dagli alberi, poi dai cespugli.

    Procedevano tutti con passo incerto, sfiniti dalla camminata attraverso il fitto sottobosco, stremati dall’ansia. Fred Green era al fianco di Harold. «Lo troveremo» continuava a ripetere. «Hai visto che espressione aveva negli occhi quando ha scartato il piccolo fucile ad aria compressa che gli ho regalato? Hai mai visto un bambino più eccitato?» Fred sbuffava. Si sentiva bruciare i muscoli delle gambe. «Lo troveremo.» Annuì. «Lo troveremo.»

    Poi scese la notte e nelle pinete di Arcadia cominciarono a guizzare i fasci di luce delle torce.

    Quando si avvicinarono al fiume, Harold fu lieto di aver convinto Lucille a restare a casa. «Potrebbe tornare» le aveva detto. «E cercherà la sua mamma...» Perché sapeva, come si possono sapere certe cose, che avrebbe trovato suo figlio nel fiume.

    Harold sguazzava con l’acqua fino al ginocchio lungo la riva. Faceva un passo lento, chiamava il figlio, si fermava ad ascoltare, chiamava di nuovo, faceva un altro passo, e ancora e ancora.

    Quando alla fine trovò il corpo, il chiaro di luna e l’acqua avevano tinto il bambino di un’inquietante, bellissima sfumatura argentea, lo stesso colore del fiume.

    «Buon Dio» disse Harold. E non l’avrebbe più detto in vita sua.

    Mentre Harold raccontava la storia, sentiva tutto il peso degli anni nella propria voce. Sembrava logorato dalla vita. Di tanto in tanto, mentre parlava, alzava la mano rugosa a lisciare i radi capelli grigi che ancora restavano attaccati al suo scalpo. Le sue mani erano deturpate da macchie scure e le sue nocche erano gonfie per l’artrite che a volte lo infastidiva. Non quanto capitava ad altre persone della sua età, ma abbastanza da rammentargli che la gioventù era lontana. Anche adesso, mentre parlava, sentì una piccola fitta ai lombi.

    Pochi capelli. Pelle chiazzata di scuro. Grandi orecchie grinzose. Vestiti che sembravano cadergli di dosso, a dispetto di tutti gli sforzi di Lucille per adattarglieli. Non c’erano dubbi in merito: era vecchio.

    Per qualche motivo, riavere con sé Jacob, piccolo e vitale, rendeva Harold Hargrave ancora più consapevole della propria età.

    Lucille, grigia e anziana quanto il marito, si limitava a guardare il figlio di otto anni (seduto al tavolo in cucina a mangiare una fetta di torta di noci), come se fossero di nuovo nel 1966 e non ci fosse niente che non andava e niente di brutto potesse più succedere. A volte si scostava una ciocca grigia dal viso, ma se scorgeva le proprie mani esili e macchiate, la vista non sembrava disturbarla.

    Erano due scriccioli, Harold e Lucille. Lei era diventata più grande di lui in quegli ultimi anni. O, piuttosto, era lui che si era rimpicciolito, al punto che adesso doveva alzare il viso per guardarla quando litigavano. Lucille aveva anche il vantaggio di essersi conservata meglio, cosa che forse dipendeva dal fatto che, a differenza di lui, non aveva mai fumato. I vestiti le andavano ancora bene. Le lunghe braccia sottili erano sempre agili e forti mentre quelle di lui, nascoste sotto le maniche troppo larghe delle camicie, lo facevano apparire vulnerabile. Cosa che ultimamente metteva lei in una posizione di vantaggio.

    Lucille ne andava fiera, e non si sentiva in colpa per questo, anche se a volte pensava che avrebbe dovuto.

    L’agente Bellamy scrisse finché non gli venne un crampo alla mano. Stava registrando il colloquio, ma preferiva prendere anche appunti. Le persone sembravano offendersi se durante un incontro con un funzionario governativo non veniva scritto nulla. Per l’agente Bellamy non era un problema. Aveva uno di quei cervelli che preferivano vedere le parole piuttosto che ascoltarle. Se non si scriveva tutto ora, avrebbe dovuto farlo ascoltando la registrazione in seguito.

    Bellamy prese nota di tutto, dal momento in cui era iniziata la festa di compleanno, quel giorno del 1966. Scrisse dei pianti e del senso di colpa di Lucille. Era stata l’ultima a vedere Jacob vivo; ricordava solo la fugace immagine di un braccino pallido che sfrecciava dietro un angolo, all’inseguimento di uno degli altri bambini. Bellamy scrisse che al funerale erano venute più persone di quante la chiesa potesse contenere.

    Ma ci furono parti del colloquio che non scrisse. Dettagli che, per una forma di rispetto, memorizzò piuttosto che registrare in un documento ufficiale.

    Harold e Lucille erano sopravvissuti alla morte del loro figlio, ma a mala pena. Gli oltre cinquant’anni che erano passati da allora erano stati contaminati da un singolare tipo di solitudine, una solitudine priva di tatto che si presentava non invitata e iniziava conversazioni poco appropriate al pranzo domenicale. Una solitudine a cui loro raramente accennavano. Ci giravano attorno trattenendo il fiato, giorno dopo giorno, come se fosse un fungo atomico, in scala ridotta ma minaccioso e terrificante quanto l’originale, levatosi all’improvviso al centro del loro salotto.

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