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Il patto
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Ebook608 pages8 hours

Il patto

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About this ebook

Fino a quella telefonata alle tre del mattino di una giornata di novembre, i Gold e i loro vicini di casa, gli Harte, sono sempre stati inseparabili. Per ben diciotto anni. Non è stata una sorpresa per nessuno, dunque, quando i loro figli adolescenti, Chris ed Emily, da semplici amici sono diventati qualcosa di più.

Ma adesso la diciassettenne Emily è morta uccisa da un colpo di pistola alla testa sparatole da Chris, in un apparente patto suicida lasciando le due famiglie devastate e alla disperata ricerca di risposte su un gesto inimmaginabile, di due figli che forse non conoscevano bene come credevano.

È rimasta una sola pallottola nella pistola che Chris ha preso dall'armadio del padre, una pallottola che secondo la sua versione era destinata a se stesso. Cos'è successo veramente?

Un detective della polizia del luogo nutre più di un dubbio sul patto suicida descritto dal ragazzo e inizia un'indagine che terrà il lettore col fiato sospeso fino all'ultima pagina.

LanguageItaliano
Release dateJan 19, 2016
ISBN9788858944653
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    Il patto - Jodi Picoult

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    The Pact

    William Morrow & Co.,

    a division of HarperCollinf US

    © 1998 Jodi Picoult

    Traduzione di Isabella Polli

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2016 HarperCollins Italia S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5894-465-3

    www.harlequinmondadori.it

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

    Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    PARTE PRIMA

    IL RAGAZZO DELLA PORTA ACCANTO

    Chi mai amò, che non abbia amato a prima vista?

    Christopher Marlowe - Ero e Leandro

    Stringiamoci in un abbraccio, e giuriamoci

    da questo istante un’eterna infelicità insieme.

    Thomas Otway - L’orfana

    1

    ADESSO: novembre 1997

    Non c’era più niente da dire.

    Lui la coprì con il suo corpo, e abbracciandolo lei lo rivide in tutti i momenti della sua vita: a cinque anni, ancora biondo; a undici, nell’età della crescita; a tredici, con le mani da uomo. La luna rotolava nel cielo, uno spicchio luminoso nel buio, e lei respirava il profumo della sua pelle. «Ti amo» gli disse.

    Lui la baciò così lievemente che lei si chiese se lo avesse immaginato. Si tirò indietro lentamente, per guardarlo negli occhi.

    Poi, lo sparo.

    Anche se non c’era mai stata una prenotazione formale, il tavolo d’angolo in fondo al ristorante cinese Happy Family il venerdì sera era riservato agli Harte e ai Gold, che ci venivano da sempre. Negli anni precedenti portavano i bambini, ingombrando lo spazio con seggioloni e borse per il cambio dei pannolini, tanto che per i camerieri era quasi impossibile riuscire a sistemare sul tavolo i piatti fumanti. Adesso invece c’erano solo loro quattro: alle sei di sera si precipitavano dentro uno alla volta, come attirati da una specie di campo magnetico creato da loro stessi.

    James Harte era stato il primo ad arrivare. Quel pomeriggio aveva operato, e aveva finito sorprendentemente presto. Prese le bacchette che aveva davanti, le tirò fuori dalla bustina di carta e le tenne fra le dita come strumenti chirurgici.

    «Ciao» disse Melanie Gold, comparendo all’improvviso di fronte a lui. «Suppongo di essere in anticipo.»

    «No» rispose James. «Sono gli altri a essere in ritardo.»

    «Davvero?» Lei si scrollò di dosso la giacca e la appallottolò accanto a sé. «Speravo di essere in anticipo. Non mi capita mai.»

    «In effetti» disse James con aria meditabonda, «non mi pare che tu sia mai arrivata presto.»

    Avevano in comune una sola cosa: Augusta Harte, ma Gus non era ancora arrivata. Quindi rimasero lì seduti, nell’amichevole imbarazzo che derivava dal sapere ciascuno cose molto private dell’altro: cose che non erano mai state confidate direttamente, bensì sfuggite a Gus Harte quando era a letto col marito, oppure a bere un caffè con Melanie. James si schiarì la gola e si rigirò abilmente le bacchette fra le dita. «Che cosa dici» chiese a Melanie sorridendo, «dovrei lasciare tutto per diventare batterista?»

    Melanie arrossì, come faceva sempre quando era al centro dell’attenzione. Dopo anni vissuti con il banco informazioni della biblioteca legato in vita come una specie di crinolina, poteva rispondere a qualsiasi domanda precisa, ma con le battute perdeva tutta la sua disinvoltura. Se James le avesse chiesto: «Quanti abitanti ha attualmente Addis Abeba?», oppure: «Puoi elencarmi quali agenti chimici sono contenuti nei bagni di sviluppo fotografico?», non sarebbe certo arrossita, perché la sua risposta non avrebbe rischiato di offenderlo. Ma questa domanda sul batterista? Che cosa si aspettava da lei esattamente?

    «Lo odieresti» disse Melanie, cercando di imitare un tono frivolo. «Dovresti farti crescere i capelli lunghi e avere almeno un piercing al capezzolo o roba del genere.»

    «Voglio sapere perché state parlando di piercing al capezzolo» chiese Michael Gold, raggiungendoli al tavolo. Si chinò e toccò la spalla della moglie, gesto che dopo tanti anni di matrimonio equivaleva a un abbraccio.

    «Non ci sperare» rispose Melanie. «È James che ne vuole uno, non io.»

    Michael si mise a ridere. «Penso che perderesti l’abilitazione in automatico.»

    «E perché?» James si accigliò. «Ti ricordi quel premio Nobel che abbiamo conosciuto l’estate scorsa durante la crociera in Alaska? Aveva un anello nel sopracciglio.»

    «Appunto» disse Michael. «Non hai bisogno dell’abilitazione per comporre una poesia fatta tutta di parolacce.» Scosse il tovagliolo e se lo mise in grembo. «Dov’è Gus?»

    James controllò l’orologio. Lui non se ne separava mai, Gus invece non lo metteva neanche. Era una cosa che lo faceva diventare matto. «Penso che dovesse accompagnare Kate a dormire da un’amica.»

    «Avete già ordinato?» chiese Michael.

    «È Gus che fa le ordinazioni» disse James in tono di scusa. Di solito era Gus ad arrivare per prima, ed era lei che teneva le fila della cena, come di tutto il resto delle loro vite.

    Come se il marito l’avesse evocata, Augusta Harte entrò di corsa dalla porta del ristorante. «Cielo, sono in ritardo» disse, slacciandosi la giacca con una mano. «Non potete immaginarvi che giornata infernale ho avuto.» Gli altri tre si sporsero verso di lei, in attesa di una delle sue famose storielle, ma invece Gus fece segno a un cameriere. «Il solito» ordinò con un sorriso smagliante.

    Il solito? Melanie, Michael e James si guardarono fra loro. Era davvero così facile?

    Gus era una aspettatrice professionista: una persona che sacrificava il proprio tempo per evitare agli altri di perdere il proprio. Gli impegnatissimi abitanti del New England si rivolgevano alla sua società, chiamata Il Tempo degli Altri, quando non volevano stare in coda alla Motorizzazione o restare bloccati in casa ad aspettare il tecnico della TV. Cominciò a sistemarsi i riccioli rossi ribelli. «Per prima cosa» disse con un elastico fra i denti, «ho passato la mattinata alla Motorizzazione, il che è tremendo anche nei momenti migliori.» Cercò coraggiosamente di ottenere una coda di cavallo, impresa analoga a quella di imbrigliare una corrente elettrica, e guardò in su. «Insomma, arrivo in fondo alla fila – sapete, proprio di fronte alla finestrella – e l’impiegato, vi giuro, ha un attacco di cuore e stramazza sul pavimento dell’archivio.»

    «Ma è spaventoso» esalò Melanie.

    «Mmh. Soprattutto perché hanno chiuso lo sportello, e ho dovuto ricominciare tutto da capo.»

    «Più tempo da fatturare al cliente» disse Michael.

    «Non in questo caso» rispose Gus. «Avevo già preso un appuntamento alle due a Exeter.»

    «Alla scuola?»

    «Sì. Con un certo signor J. Foxhill. Si è scoperto che era uno studente con un sacco di soldi da buttare, che voleva che lo sostituissi nelle ore di studio aggiuntive che aveva preso per punizione.»

    James rise. «Molto ingegnoso.»

    «Ovviamente, il preside non era d’accordo, e mi ha fatto perdere altro tempo facendomi una ramanzina sulla responsabilità degli adulti, anche se gli avevo già spiegato che non avevo idea di quali fossero le intenzioni del ragazzo. E poi, mentre stavo andando a prendere Kate all’allenamento di calcio, ho bucato una gomma e quando, dopo averla cambiata, sono arrivata al campo, lei aveva già trovato un passaggio per andare da Susan.»

    «Gus» disse Melanie. «Che cosa ne è stato dell’impiegato della Motorizzazione?»

    «Hai cambiato una gomma?» chiese James, come se Melanie non avesse parlato. «Sono molto colpito.»

    «Anch’io lo ero. Ma nel caso l’abbia montata al contrario, vorrei usare la tua macchina per andare in centro stasera.»

    «Ancora lavoro?»

    Gus annuì, sorridendo al cameriere che aveva portato i loro piatti. «Devo andare alla biglietteria del concerto dei Metallica.»

    «Che cosa ne è stato dell’impiegato della Motorizzazione?» domandò di nuovo Melanie con più enfasi.

    Tutti e tre la fissarono. «Ehi, Mel» la riprese Gus. «Non c’è bisogno di urlare.» Melanie arrossì, e subito Gus addolcì il tono di voce. «In realtà non so come sia finita» ammise. «L’hanno portato via in ambulanza.» Si servì di lo mein. «A proposito, oggi ho visto il dipinto di Em in municipio.»

    «Che cosa ci facevi in municipio?» chiese James.

    Lei scrollò le spalle. «Cercavo il dipinto di Em» rispose. «Sembrava così... be’, professionale, con la cornice dorata e quel grande fiocco blu appeso sotto. E voi che mi prendevate in giro quando conservavo i disegni a pennarello che faceva con Chris a casa nostra.»

    Michael sorrise. «Ridevamo perché tu dicevi che ti ci saresti pagata la pensione, un giorno.»

    «Aspetta e vedrai» disse Gus. «Vincitrice di un concorso nazionale a diciassette anni, una mostra in galleria a ventuno... sarà esposta al MoMA di New York prima dei trent’anni.» Prese il braccio di James e girò verso di sé il quadrante dell’orologio. «Ho ancora cinque minuti.»

    James si lasciò ricadere la mano in grembo. «La biglietteria apre alle sette di sera?»

    «Alle sette di mattina» rispose Gus. «Ho il sacco a pelo in macchina.» Fece uno sbadiglio. «Credo che dovrei cambiare lavoro. Qualcosa di meno stressante... come operatore di una torre di controllo o Primo Ministro di Israele.» Si sporse verso un piatto di pollo mu shu, cominciò ad arrotolare le tortillas e a passarle agli altri. «Come vanno le cataratte della signora Greenblatt?» chiese distrattamente.

    «Sparite» disse James. «C’è la possibilità che recuperi i dieci decimi.»

    Melanie sospirò. «Anch’io voglio farmi operare di cataratta. Non riesco neanche a immaginare di svegliarmi e vederci bene.»

    «No che non vuoi farti operare di cataratta» disse Michael.

    «Perché no? Potrei liberarmi delle lenti a contatto e ho già il nome di un buon chirurgo.»

    «James non potrebbe operarti» disse Gus sorridendo. «Non c’è qualche regolamento etico che lo vieta?»

    «Non vale per i parenti virtuali» ribatté Melanie.

    «Mi piace» disse Gus. «Parenti virtuali. Dovrebbe esistere una legge... sapete, come per le convivenze. Se vivi in simbiosi con qualcuno per un tempo abbastanza lungo, diventi suo parente.» Inghiottì l’ultimo morso di tortilla e si alzò. «Bene» disse. «È stata una cena sontuosa e rilassante.»

    «Non puoi ancora andartene» disse Melanie, voltandosi per chiedere i biscotti della fortuna a un aiuto cameriere. Quando l’uomo ritornò, ne infilò qualcuno in tasca a Gus. «Ecco qua. Alla biglietteria non ci sono rinfreschi.»

    Michael prese un biscotto e lo ruppe. «Un dono d’amore non va preso alla leggera» lesse ad alta voce.

    «Tu sei giovane come ti senti» disse James, leggendo il suo biglietto. «Adesso come adesso non mi dice niente.»

    Tutti guardarono Melanie, ma lei lesse la strisciolina di carta e se la mise in tasca. Era convinta che parlandone con gli altri la buona fortuna si annullasse.

    Gus prese uno dei biscotti rimasti nel piatto di portata e lo aprì. «Pensate un po’» disse ridendo. «Ne ho preso uno difettoso.»

    «Vuoi dire che non c’è?» chiese Michael. «Dovrebbero offrirti un pasto gratis per questo.»

    «Controlla sul pavimento, Gus. Devi averlo fatto cadere. Chi ha mai visto un biscotto della fortuna senza fortuna?» disse Melanie.

    Ma il biglietto non era per terra, o sotto il piatto, o impigliato fra le pieghe della giacca di Gus. Lei scosse la testa tristemente e alzò la sua tazza di tè. «Al mio futuro» brindò. Si scolò il tè e poi se ne andò di corsa.

    Bainbridge, nel New Hampshire, era una città satellite abitata soprattutto da professori del Darthmouth College e da medici dell’ospedale locale. Era abbastanza vicina all’università da essere considerata interessante dal punto di vista immobiliare, e abbastanza lontana da poter essere definita rurale.

    Fra vecchi e irriducibili allevamenti di mucche da latte erano sparpagliate alcune stradine che portavano agli appezzamenti da cinque acri in cui era stato suddiviso il territorio cittadino alla fine degli anni Settanta. Una di queste era Wood Hollow Road, dove abitavano gli Harte e i Gold.

    I loro terreni insieme formavano un quadrato: due triangoli rettangoli con l’ipotenusa in comune.

    Il terreno degli Harte era stretto all’ingresso e poi si apriva, quello dei Gold era l’inverso; in questo modo le due case si trovavano a un solo acro di distanza. Erano divise da un boschetto, che però non nascondeva del tutto la visuale sull’abitazione di fronte.

    Michael e Melanie, ciascuno con la sua macchina, seguirono la Volvo grigia di James che svoltava in Wood Hollow Road. Dopo una salita in collina di circa ottocento metri, al pilastro di granito che indicava il numero 34, James girò a destra. Michael svoltò nel vialetto successivo. Spense il motore del furgone e uscì nel quadrato di luce proiettato dalle luci interne, lasciando che Grady e Beau gli saltassero ai fianchi e al petto. I setter irlandesi cominciarono a corrergli intorno, mentre lui aspettava che Melanie uscisse dalla sua macchina.

    «Sembra che Em non sia ancora tornata» disse lui.

    Melanie uscì dalla macchina e chiuse la porta con un unico movimento fluido ed efficiente. «Sono le otto» rispose. «Probabilmente è appena uscita.»

    James seguì Melanie che entrava in cucina dalla porta laterale. Lei mise una pila di libri sul tavolo. «Chi è di guardia stanotte?» gli chiese.

    Michael stirò le braccia sopra la testa. «Non lo so. Non io. Forse Richards, del Weston Animal Hospital.» Andò alla porta e chiamò i setter, che lo guardarono senza però dare segno di voler smettere di inseguire le foglie mosse dal vento.

    «Questo è il colmo» disse Melanie. «Un veterinario che non riesce a farsi ubbidire dai suoi stessi cani.»

    Michael si fece da parte mentre Melanie si avvicinava alla porta e faceva un fischio. I cani si precipitarono dentro, superandolo, portando con sé il profumo frizzante della notte. «Sono i cani di Emily» disse lui. «Fa differenza.»

    Quando il telefono suonò alle tre del mattino, James Harte si svegliò all’istante. Cercò di immaginare che cosa potesse essere andato storto con la signora Greenblatt, perché era il suo unico caso che potesse causare un’emergenza. Cercò il telefono a tentoni dall’altra parte del letto, dove avrebbe dovuto esserci sua moglie. «Sì?»

    «È lei il signor Harte?»

    «Sono il dottor Harte» corresse James.

    «Dottor Harte, sono l’agente Stanley della polizia di Bainbridge. Suo figlio è ferito, lo stanno portando al Bainbridge Memorial Hospital.»

    James cercò di far uscire le frasi che gli si aggrovigliavano in gola. «Che cosa... c’è stato un incidente d’auto?»

    Una breve pausa. «No, signore» disse l’agente.

    James sentì una stretta al cuore. «Grazie» disse chiudendo la comunicazione, anche se non sapeva perché stava ringraziando una persona che gli aveva appena dato una notizia così terribile. Non appena il ricevitore fu riagganciato, gli vennero mille domande da fare. Dove era ferito Christopher? Erano lesioni gravi o superficiali? Emily era ancora con lui? Che cosa era successo? James si rivestì con gli indumenti che aveva già buttato nel cesto della biancheria sporca e scese al piano di sotto in pochi minuti. Per arrivare all’ospedale, lo sapeva, gli ci sarebbero voluti diciassette minuti. Stava già sfrecciando per la Wood Hollow Road quando prese il telefono della macchina e compose il numero di Gus.

    «Che cosa hanno detto?» chiese Melanie per la decima volta. «Che cosa hanno detto esattamente?»

    Michael si allacciò i jeans e infilò i piedi nelle scarpe da tennis. Si ricordò troppo tardi che non aveva i calzini. Al diavolo i calzini.

    «Michael.»

    Lui alzò lo sguardo. «Che Emily è ferita, e che la stanno portando all’ospedale.» Gli tremavano le mani, eppure si stupì di riuscire a fare ciò che era necessario: spingere Mel verso la porta, trovare le chiavi della macchina, individuare la strada più rapida per il Bainbridge Memorial.

    A volte si era chiesto, per ipotesi, che cosa sarebbe successo se avesse ricevuto una chiamata a notte fonda, una telefonata con il potere di lasciarti incredulo, senza parole. Sotto sotto, pensava che avrebbe perso la testa. E invece eccolo lì, a fare retromarcia con attenzione nel vialetto, a mantenere il controllo, unico segnale di panico un piccolo tic alla guancia.

    «James lavora lì» stava dicendo Melanie, in una debole cantilena confusa. «Saprà chi dobbiamo chiamare, che cosa dobbiamo fare.»

    «Tesoro» disse Michael, cercando la sua mano nel buio. «Non sappiamo ancora niente.» Ma passando accanto alla casa degli Harte e vedendo l’assoluta tranquillità della scena, l’assenza di luci alle finestre che denotava un riposo sereno, non riuscì a evitare di provare una fitta di invidia di fronte a quella normalità. Perché a noi?, pensava, e non si accorse delle luci posteriori di una macchina che stava già svoltando in direzione della città, in fondo alla Wood Hollow Road.

    Gus era sdraiata sul marciapiede, fra un trio di adolescenti con la cresta verde e una coppia che stava arrivando quanto più vicino al sesso era possibile in un luogo pubblico. Se Chris si facesse mai una pettinatura del genere, pensò, noi... Che cosa? Quello non era mai stato un problema perché, da che poteva ricordare, Chris aveva sempre avuto lo stesso taglio un po’ a spazzola. E per quanto riguardava Romeo e Giulietta dall’altra parte, alla sua destra, be’ anche quello era un’assurdità. Appena avevano raggiunto l’età giusta, Emily e Chris si erano messi insieme, proprio come tutti avevano sempre sperato ardentemente.

    Fra quattro ore e mezza, i figli del suo cliente avrebbero avuto dei posti favolosi per il concerto dei Metallica, e lei sarebbe andata a casa a dormire. A quel punto James sarebbe già stato di ritorno dalla sua battuta di caccia – supponeva che la stagione fosse aperta per qualche tipo di selvaggina – Kate sarebbe stata quasi pronta per una partita di calcio e Chris probabilmente sarebbe appena sceso dal letto. Allora Gus avrebbe fatto ciò che faceva sempre a sabati alterni, quando non aveva programmi o invasioni di parenti: sarebbe andata da Melanie, o l’avrebbe invitata a casa per parlare di lavoro, di adolescenti e di mariti. Aveva molte amiche, ma Melanie era l’unica per cui non doveva pulire la casa e truccarsi, e a cui poteva dire qualsiasi cosa senza doversi preoccupare delle conseguenze, o di fare la figura della stupida.

    «Signora, ha da accendere?» chiese uno dei ragazzi dai capelli verdi, sventolandole davanti quella che sperava fosse una semplice sigaretta.

    Gus si stupì della sua disinvoltura. No, avrebbe voluto rispondere, non ho da accendere, e neanche tu dovresti. «Mi dispiace» disse, scuotendo la testa.

    Era impossibile credere all’esistenza di adolescenti di quel tipo, non quando lei ne aveva uno come Chris, che sembrava appartenere a una specie completamente diversa. Magari quei ragazzi, con i loro capelli da stegosauro e le giacche di pelle, avevano un aspetto simile solo nel tempo libero, e quando erano coi genitori si trasformavano in adolescenti ordinati e beneducati. Ridicolo, si disse. Il solo pensiero che Chris potesse avere una doppia vita era fuori questione. Non si può partorire qualcuno e poi non accorgersi se succede qualcosa di così drastico.

    Sentì un mormorio contro il fianco e si spostò, pensando che la coppietta di innamorati si fosse avvicinata un po’ troppo. Ma il ronzio non si fermò, e quando allungò una mano per capire da dove veniva si ricordò il cercapersone che teneva sempre in borsa fin da quando aveva fondato Il Tempo degli Altri. Era stato James a insistere, nel caso che lui fosse stato chiamato d’urgenza in ospedale e uno dei ragazzi avesse avuto bisogno di qualcosa.

    Ovviamente, secondo il principio della medicina preventiva, il solo fatto di avere un cercapersone aveva evitato il verificarsi di emergenze. Aveva suonato solo due volte in cinque anni: una quando Kate l’aveva chiamata per sapere dove teneva i prodotti per pulire i tappeti, e una quando le batterie si erano scaricate. Lo ripescò dal fondo della borsa e premette il pulsante per identificare il numero del chiamante. Era quello della sua macchina. Ma chi poteva esserci nella sua macchina a quell’ora di notte?

    James l’aveva riportata a casa dopo la cena al ristorante. Gus strisciò fuori dal suo sacco a pelo e attraversò la strada fino alla più vicina cabina telefonica, tutta imbrattata di graffiti e sigle a forma di salsiccia. Appena James le rispose, sentì il rombo della strada sotto gli pneumatici.

    «Gus» disse James, con la voce spezzata. «Devi venire.»

    Un attimo dopo, abbandonato il sacco a pelo, Gus cominciò a correre.

    Non volevano togliergli la luce dalla faccia. C’erano dei grandi dischi argentati appesi sopra di lui, che gli facevano strizzare gli occhi con la loro luce violenta. Sentiva addosso le mani di almeno tre persone diverse: lo toccavano, gridavano istruzioni, gli tagliavano i vestiti. Non riusciva a muovere le braccia e le gambe, e quando ci provò sentì che c’erano dei lacci a bloccarle, e un collare che gli teneva ferma la testa.

    «La pressione sta scendendo» disse una donna. «Adesso è a settanta.»

    «Pupille dilatate ma non reattive. Christopher? Christopher? Puoi sentirmi?»

    «È tachicardico. Datemi due flebo di calibro grande, da quattordici o sedici, subito. Cominciamo con della fisiologica al 5 per cento di glucosio, aperta al massimo per un litro, per favore. E voglio un campione di sangue... fate gli esami completi con emocromo, piastrine, fattori di coagulazione, acido urico e tossicologico, e mandate la tipizzazione alla banca del sangue.»

    Poi sentì un dolore lancinante nell’incavo del braccio e il suono secco del nastro adesivo strappato. «Che cosa abbiamo?» chiese una voce nuova.

    E la donna di prima parlò ancora. «Un bel casino.» Chris sentì una forte puntura vicino alla fronte, che lo fece inarcare contro le cinghie di contenimento per poi riafflosciarsi sulle mani morbide e calde di un’infermiera. «Va tutto bene, Chris» gli disse dolcemente. Come facevano a sapere il suo nome?

    «C’è un trauma visibile al cranio. Chiamate radiologia, abbiamo bisogno che controllino la colonna.»

    Tutti si muovevano frenetici, urlando. Chris allungò lo sguardo verso l’apertura nella tenda alla sua destra e vide suo padre. Era in ospedale, suo padre ci lavorava. Ma non aveva il camice bianco. Aveva dei vestiti normali, una camicia che non era neanche allacciata bene. Era in piedi con i genitori di Emily e cercava di superare delle infermiere che non volevano lasciarlo passare.

    Chris si agitò all’improvviso e riuscì a strapparsi la flebo dal braccio. Guardò Michael Gold dritto in faccia e urlò, ma non gli uscì alcun suono, nessun rumore, solo ondate successive di terrore.

    «Me ne frego altamente delle procedure» disse James Harte, e poi si sentì uno schianto di strumenti che cadevano e un trapestio di passi che distrasse le infermiere, permettendogli di infilarsi dietro le tende macchiate. Suo figlio si stava divincolando dall’immobilizzatore dorsale di sicurezza e dal collare philadelphia. C’era sangue dappertutto, sul suo viso, sul collo e sulla maglietta. «Sono il dottor Harte» disse al medico del pronto soccorso che si stava precipitando verso di loro. «Faccio parte del personale esterno» spiegò. Allungò una mano per stringere quella di Chris. «Che cosa succede?»

    «L’ambulanza l’ha portato qui con una ragazza» disse a bassa voce il dottore. «Da quanto possiamo vedere, ha una lacerazione al cranio. Stavamo per mandarlo in radiologia per escludere fratture craniali o vertebrali, e in caso negativo gli faremo una TAC.»

    Chris gli stringeva la mano talmente forte che James sentì la fede nuziale penetrargli nella pelle. Deve stare bene se ha tutta questa forza, si disse.

    «Emily» sussurrò Chris con voce rauca. «Dove hanno portato Em?»

    «James?» chiese una voce incerta. Si voltò e vide Melanie e Michael esitare al di là della tenda, senza dubbio inorriditi da tutto quel sangue. Dio solo sapeva come avevano fatto a superare i dragoni di guardia all’accettazione. «Chris sta bene?»

    «Sì» rispose James, più per se stesso che per chiunque altro nella stanza. «Starà benissimo.»

    Un’infermiera riappese il ricevitore del telefono interno. «Lo aspettano in radiologia.»

    Il medico del pronto soccorso fece un cenno a James. «Può andare con lui» gli disse. «Lo tenga calmo.»

    James camminò accanto alla lettiga senza lasciare la mano di suo figlio. Cominciò a trotterellare quando il personale del pronto soccorso accelerò, superando i Gold. «Come sta Emily?» si ricordò di chiedere, ma sparì prima di poter sentire la risposta.

    Il medico che si era occupato di Chris si voltò. «Voi siete il signore e la signora Gold?» chiese.

    Fecero un passo avanti simultaneamente.

    «Potete venire qui fuori un momento?»

    Il dottore li portò fino a una piccola nicchia dietro i distributori automatici, arredata con ruvidi divani blu e brutti tavolinetti di formica, e Melanie subito si rilassò. Era ormai una professionista nella lettura dei segnali verbali e non verbali. Se non li stavano portando difilato in uno studio medico, il pericolo doveva essere passato. Forse Emily era già ricoverata in corsia, o in radiologia come Chris. Magari la stavano portando da loro.

    «Vi prego, sedetevi» disse il medico.

    Melanie avrebbe voluto rimanere in piedi, ma le cedettero le ginocchia. Michael rimase dritto, impietrito.

    «Mi dispiace moltissimo» cominciò il medico, le uniche parole che Melanie non poteva reinterpretare in modo diverso dal loro reale significato. Si accasciò ancora di più, ripiegando il corpo su se stesso, finché la sua testa fu completamente coperta dalle braccia tremanti e non riuscì più a sentire che cosa stava dicendo quell’uomo.

    «Quando vostra figlia è arrivata qui era già deceduta. Aveva una ferita d’arma da fuoco in testa. La morte è stata istantanea, non ha sofferto.» Fece una pausa. «Avrò bisogno di uno di voi due per identificare il corpo.»

    Michael cercò di ricordarsi di battere le palpebre. Prima, era sempre stato un atto involontario, ma in quel momento ogni singola cosa, il respiro, la postura, l’esistenza, dipendeva strettamente dal suo autocontrollo. «Non capisco» disse, con una voce troppo acuta per appartenergli. «Era con Chris Harte.»

    «Sì» rispose il medico. «Li hanno portati al pronto soccorso insieme.»

    «Non capisco» ripeté Michael, anche se ciò che voleva dire in realtà era: Come può essere morta se lui è vivo?

    «Chi è stato?» sputò fuori Melanie, stringendo i denti sulla domanda come un osso che non doveva farsi sfuggire. «Chi le ha sparato?»

    Il medico scosse la testa. «Non lo so, signora Gold. Sono certo che i poliziotti presenti sulla scena saranno presto qui per parlarvi.»

    Poliziotti?

    «Siete pronti ad andare?»

    Michael fissò il dottore, chiedendosi perché diavolo quell’uomo pensasse che doveva muoversi. Poi si ricordò: Emily. L’identificazione.

    Seguì il dottore nel reparto del pronto soccorso. Era la sua immaginazione o adesso le infermiere lo guardavano in modo diverso? Passò accanto a cubicoli con dentro persone gementi, sofferenti, ma vive, e alla fine si fermò davanti a una tenda da cui non proveniva alcun rumore: dietro non c’era nessuna attività, nessun movimento. Il medico attese che Michael inclinasse la testa, poi tirò indietro la tenda.

    Emily era distesa supina su un tavolo. Michael fece un passo avanti, appoggiandole la mano sui capelli. Aveva la fronte liscia, ancora tiepida. Semplice: il dottore si sbagliava. Non era morta, non poteva essere morta, lei... Spostò la mano, e la testa di Emily ciondolò verso di lui, svelandogli la ferita sopra l’orecchio destro, grande come un dollaro d’argento, lacerata ai bordi e impiastricciata di sangue secco. Non ne usciva sangue fresco.

    «Signor Gold?» disse il medico.

    Michael annuì a corse fuori dal cubicolo. Superò l’uomo in barella con le mani premute sul cuore, quattro volte più vecchio di quanto Emily sarebbe mai stata. Superò l’inserviente con in mano una tazza di caffè. Superò Gus Harte, senza fiato, che allungava una mano verso di lui. Correva sempre più veloce. Poi girò un angolo, cadde in ginocchio e vomitò.

    Gus aveva fatto tutta la strada di corsa fino al Bainbridge Memorial aggrappandosi alla speranza, un carico che diventava più gravoso e ingombrante a ogni passo. Ma James non era nella sala d’attesa del pronto soccorso, e tutte le sue ipotesi di una ferita gestibile, come un braccio rotto o una lieve commozione cerebrale, si erano infrante quando aveva trovato Michael in accettazione. «Controlli di nuovo» stava chiedendo all’infermiera. «Christopher Harte. È il figlio del dottor James Harte.»

    L’infermiera annuì. «Era qui poco fa» disse. «Solo che non so dove l’hanno portato.» Alzò gli occhi con espressione comprensiva. «Vuole che provi a chiedere se qualcun altro ne sa qualcosa?»

    «Sì» disse Gus con tutta l’autorità che riuscì a racimolare, per poi crollare non appena la donna girò le spalle.

    Fece vagare lo sguardo sull’ingresso del pronto soccorso, dalle sedie a rotelle vuote, allineate contro il muro come ragazze timide ai margini di un ballo, alla televisione fissata al soffitto. In un angolo Gus vide uno scampolo di tessuto rosso. Si avvicinò, riconoscendo il soprabito che lei e Melanie avevano scovato da Filene, scontato dell’ottanta per cento.

    «Mel?» sussurrò Gus. Melanie alzò la testa, la sua espressione devastata come quella che aveva visto a Michael. «Anche Emily è ferita?»

    Melanie la fissò per un lungo momento. «No» disse con circospezione. «Emily non è ferita.»

    «Oh, grazie a Dio...»

    «Em» la interruppe Melanie, «è morta.»

    «Perché ci mettono tanto?» chiese Gus per la terza volta, camminando avanti e indietro davanti alla finestrella della camera singola assegnata a Christopher. «Se è vero che sta bene, perché non l’hanno ancora riportato indietro?»

    James sedeva sull’unica sedia, con la testa fra le mani. Aveva guardato lui stesso la TAC, e non ne aveva mai esaminata una con tanto terrore di trovarci una contusione intracranica o un’emorragia epidurale. Ma il cervello di Chris era intatto: le sue ferite erano superficiali. L’avevano rimandato al pronto soccorso per essere suturato da un chirurgo, sarebbe rimasto sotto osservazione per tutta la notte e poi l’avrebbero sottoposto ad altri esami il giorno seguente.

    «Ti ha detto qualcosa? Di quello che è successo?»

    James scosse la testa. «Era terrorizzato, Gus. Soffriva. Non volevo forzarlo.» Si alzò e si appoggiò allo stipite della porta. «Mi ha chiesto dove avevano portato Emily.»

    Gus si voltò lentamente. «Tu non gliel’hai detto.»

    «No.» James inghiottì faticosamente. «In quel momento non mi è neanche venuto in mente che erano insieme quando è successo.»

    Gus attraversò la stanza e circondò James con le braccia. Perfino allora, lui si irrigidì: era stato educato a non mostrare affetto nei luoghi pubblici, e anche un incontro con la morte non faceva eccezione. «Non voglio pensarci» mormorò, appoggiando la guancia contro la sua schiena. «Ho visto Melanie, e continuo a immaginarmi che avrei potuto facilmente esserci io al suo posto.»

    James la spinse via e andò verso il calorifero, che riversava nella stanza ondate di calore. «Che cosa diavolo gli è venuto in mente di passare in macchina di sera in un quartiere pericoloso?»

    «Quale quartiere?» chiese Gus, buttandosi sulla nuova informazione. «Da dove veniva l’ambulanza?»

    James si girò verso di lei. «Non lo so» rispose. «Era solo una supposizione.»

    All’improvviso, Gus trovò uno scopo a cui dedicarsi. «Mentre aspettiamo potrei tornare giù al pronto soccorso» disse. «Sono sicura che registrano questo genere di informazioni.» Si diresse con passo deciso verso la porta, ma proprio mentre stava per aprirla fu spinta dall’esterno. Un inserviente portò dentro Chris su una sedia a rotelle, con la testa avvolta in una spessa fasciatura bianca.

    Lei rimase bloccata, incapace di collegare quel ragazzo accasciato al figlio alto e forte che fino a quella stessa mattina torreggiava su di lei. L’infermiera spiegò qualcosa che Gus non si curò di ascoltare, e poi se ne andò con l’inserviente.

    Gus sentiva il suono del suo stesso respiro accompagnarsi al lieve sgocciolio della flebo di Chris. Il suo sguardo era annebbiato dai sedativi, confuso dal terrore. Gus si sedette sul bordo del letto e lo prese fra le braccia, cullandolo. «Ssh» gli disse, quando lui cominciò a piangere sulla sua felpa, prima lacrime sparse e poi singhiozzi violenti e inarrestabili. «Va tutto bene.»

    Pochi minuti dopo i singhiozzi di Chris si calmarono, e i suoi occhi si chiusero. Gus cercò di tenerlo ancora stretto a sé, anche quando il suo corpo ingombrante si abbandonò fra le sue braccia. Guardò verso James, che stava seduto sulla sedia accanto al letto come una sentinella rigida e impassibile. Avrebbe voluto piangere, ma non ci riusciva. James non aveva più pianto dall’età di sette anni.

    Neanche a Gus piaceva piangere in sua presenza. Non che lui glielo avesse mai detto chiaramente, ma il semplice fatto che adesso lui sembrasse visibilmente meno sconvolto di lei la faceva sentire stupida, invece che sensibile. Si morse le labbra e aprì la porta della stanza, per poter crollare senza testimoni. In corridoio, appoggiò le mani contro il muro di mattoni e cercò di pensare al giorno prima, quando aveva fatto la spesa e pulito il bagno al piano di sotto e aveva sgridato Chris per aver lasciato il latte sul ripiano della cucina per tutto il giorno, facendolo andare a male. Solo ieri, quando il mondo aveva ancora senso.

    «Mi scusi.»

    Gus si voltò e vide una donna alta, dai capelli scuri. «Sono il sergente investigativo Marone della polizia di Bainbridge. Lei è per caso la signora Harte?»

    Lei annuì e strinse la mano della poliziotta. «È stata lei a trovarli?»

    «No, ma ho visto la scena del crimine. Avrei bisogno di farvi qualche domanda.»

    «Oh» disse Gus, sorpresa. «Pensavo che mi avrebbe invece dato qualche risposta.»

    L’investigatrice Marone sorrise, e Gus per un momento rimase ammaliata dalla bellezza che quel semplice gesto aveva risvegliato sul suo viso. «Se lei mi dà una mano, io darò una mano a lei» le disse.

    «Non riesco a immaginare come potrei esserle d’aiuto» rispose Gus. «Che cosa voleva sapere?»

    Lei tirò fuori un blocchetto e una penna. «Suo figlio le aveva detto che voleva uscire questa sera?»

    «Sì.»

    «Le ha detto dove andava?»

    «No» disse Gus. «Ma ha diciassette anni, ed è sempre stato molto responsabile.» Il suo sguardo andò alla porta della stanza d’ospedale. «Fino a stasera» aggiunse.

    «Mmh. Conosceva Emily Gold, signora Harte?»

    Gus sentì subito le lacrime riempirle gli occhi. Imbarazzata, se li asciugò con il dorso delle mani. «Sì» rispose. «Em è... era come una figlia per me.»

    «E che cos’era per suo figlio?»

    «Era la sua ragazza.» Gus era ancora più confusa di prima. Emily era coinvolta in qualcosa di pericoloso o illegale? Era per questo che Chris stava guidando in un quartiere malfamato?

    Non si rese conto di averlo detto ad alta voce finché non vide l’investigatrice accigliarsi. «Un quartiere malfamato?»

    «Be’» disse Gus, arrossendo. «Sappiamo che c’era una pistola.»

    La poliziotta chiuse il blocchetto di colpo e si diresse verso la porta. «Adesso vorrei parlare con Chris.»

    «Non può» insistette Gus, sbarrandole la strada. «Sta dormendo. Ha bisogno di riposo. E poi, non ha ancora saputo di Emily. Non potevamo dirglielo, non subito. Lui la amava.»

    L’investigatrice Marone guardò Gus negli occhi. «Può essere» commentò. «Ma potrebbe anche averle sparato lui.»

    2

    ALLORA: autunno 1979

    Dal modo in cui Melanie teneva il plumcake alla banana sul palmo della mano, suo marito non capiva se pensava di mangiarlo o di buttarlo via. Lei chiuse la porta d’ingresso, appena ridipinta e ancora lucida, e portò la torta verso i due scatoloni che usavano come tavolo da cucina. Sfiorò con reverenza il nastro di organza animata e aprì un bigliettino decorato con il disegno di un cavallo. «Benvenuti nella vostra nuova scuderia» lesse.

    «La tua fama di veterinario ti ha preceduto» disse passando il biglietto a Michael.

    Michael scorse il breve messaggio, sorrise e strappò la pellicola trasparente. «Mmh... buono» disse. «Ne vuoi un po’?»

    Melanie impallidì. Il solo pensiero del plumcake alla banana – in realtà di qualsiasi cibo – prima di mezzogiorno le faceva venire la nausea, in quei giorni. Il che era strano, perché tutti i libri sulla gravidanza che aveva letto, ed erano molti, dicevano che ormai, al quarto mese, avrebbe dovuto sentirsi meglio. «Li chiamerò per ringraziare» disse riprendendo il biglietto. «Oh. Cielo.» Lanciò un’occhiata a Michael. «Gus e James. E ci hanno mandato una torta. Pensi che siano... hai capito?»

    «Gay?»

    «Avrei detto piuttosto persone che seguono uno stile di vita alternativo

    «Però non l’hai detto» rispose Michael ridacchiando. Prese uno scatolone e cominciò a salire le scale.

    «Be’» annunciò Melanie diplomaticamente, «qualunque sia il loro... orientamento, sono sicura che sono persone deliziose.» Però mentre componeva il numero di telefono si stava ancora chiedendo in che razza di posto si fossero trasferiti.

    Lei non voleva venire a Bainbridge: stava benissimo a Boston, e già quello era un azzardo rispetto all’Ohio, dove era nata. Questa città era praticamente ai confini del nulla, e lei non era mai stata brava a farsi degli amici, e Michael non poteva trovarsi degli animali di grossa taglia da curare un po’ più a sud?

    Al terzo squillo rispose una voce femminile. «Grand Central Station» disse, e Melanie buttò giù la cornetta. Digitò di nuovo il numero facendo più attenzione, e stavolta sentì la stessa voce di prima, con un sorriso nascosto dentro, che diceva nitidamente: «Casa Harte».

    «Sì» disse Melanie. «Chiamo dalla casa accanto. Sono Melanie Gold. Volevo ringraziare i signori Harte per la torta.»

    «Ah, benissimo. L’avete ricevuta. Vi siete già sistemati?»

    Seguì un momento di silenzio durante il quale Melanie si chiese chi fosse questa donna e che cosa prevedeva l’etichetta in quella zona, se era normale raccontare tutti i fatti propri a una governante o a una tata. «Cercavo James o Gus» disse con calma. «Io, ehm, volevo presentarmi.»

    «Sono io Gus» disse la donna.

    «Ma lei non è un uomo» scappò detto a Melanie.

    Gus Harte si mise a ridere. «Vuoi dire che pensavi... wow! No, mi spiace deluderti, ma l’ultima volta che ho controllato ero una femmina. Gus è il diminutivo di Augusta, ma nessuno mi ha più chiamato così da quando mia nonna è morta nel tentativo. Ehi, avete bisogno di una mano? James è fuori e io ho già ripulito il mio soggiorno in modo impeccabile. Non ho niente da fare.» Prima che Melanie potesse obiettare, Gus decise per lei. «Lasciami la porta aperta» le disse. «Arrivo fra cinque minuti.»

    Melanie stava ancora fissando la cornetta quando Michael tornò in cucina con un grosso scatolone pieno di porcellane.

    «Hai parlato con Gus Harte?» sbuffò. «Che tipo è?»

    Lei aveva appena aperto bocca per rispondere quando la porta d’ingresso si spalancò, sbattendo contro il muro per un colpo di vento e facendo apparire una donna in avanzato stato di gravidanza, con una massa di capelli scarmigliati e l’incongruo sorriso di una madonna.

    «Lei» rispose Melanie, «è un uragano.»

    Il nuovo lavoro di Melanie era alla biblioteca pubblica di Bainbridge.

    Si era innamorata di quel piccolo edificio di mattoni il giorno stesso del primo colloquio, affascinata dalla vetrata dietro il banco informazioni, dalla pila ordinata di foglietti gialli appoggiata sopra gli schedari, dai gradini di pietra levigati da decenni di passi, che li avevano incurvati come tanti sorrisi. Era una bella biblioteca, ma aveva comunque bisogno di lei. I libri erano ammassati alla rinfusa negli scaffali, senza spazio vitale per poterli scorrere con calma. I dorsi di alcune copertine erano piegati a metà, le cartelline con le informazioni aggiuntive erano piene di roba inutile. Per Melanie, le bibliotecarie erano in qualche modo allo stesso livello di Dio: a chi altro potevano importare tutte quelle migliaia di domande diverse? E meglio ancora, chi altro poteva sapere tutte le risposte? Sapere è potere, ma la brava bibliotecaria non era gelosa del suo dono: insegnava agli altri come cercare, dove guardare, come scoprire qualsiasi informazione.

    Si era innamorata di Michael perché era riuscito a lasciarla senza parole. Quando era approdato al suo banco informazioni, era uno studente alla Tuft Veterinary School e aveva due domande: dove poteva trovare degli studi sui danni al fegato dei gatti diabetici, e se le sarebbe piaciuto uscire a cena con lui. Alla prima domanda avrebbe potuto rispondere a occhi chiusi. La seconda la fece ammutolire. I suoi capelli ben pettinati, tagliati corti, di un prematuro color argento, la facevano pensare a un tesoro prezioso. Le sue mani gentili, che potevano nutrire un uccellino appena uscito dall’uovo con un contagocce, la rendevano consapevole del suo stesso corpo in modi del tutto nuovi.

    Anche dopo il matrimonio, e durante i primi anni dell’ambulatorio per animali di piccola taglia, Melanie aveva continuato a lavorare alla biblioteca del college. Aveva fatto carriera, dicendosi che se Michael un giorno si fosse svegliato e avesse deciso di non amare più quello scricciolo pigolante di ragazza, avrebbe almeno potuto apprezzarla per il suo cervello. Ma Michael era andato alla scuola di specializzazione per occuparsi delle mucche, delle pecore e dell’allevamento dei cavalli, e dopo diversi anni di sterilizzazioni di cuccioli di razza e vaccinazioni antirabbiche, aveva detto a Melanie che aveva bisogno di un cambiamento. Il problema era che non c’erano molti animali da fattoria in una grande città.

    Con le credenziali che aveva, non era stato difficile per Melanie trovarsi un lavoro alla biblioteca pubblica di Bainbridge. Però lei era abituata a una clientela giovane e appassionata, agli accademici piegati a punto di domanda sui loro testi, a cacciare via i ritardatari all’ora di chiusura. Alla biblioteca di Bainbridge, il momento di maggior richiamo era l’ora della favola per i bambini, perché c’era il caffè gratis per le mamme. Melanie a volte rimaneva per giornate intere al suo banco informazioni senza vedere altri che il postino.

    Desiderava ardentemente trovare un lettore, un vero lettore, qualcuno come lei. E lo trovò sotto le improbabili spoglie di Gus Harte.

    Gus andava in biblioteca ogni martedì e venerdì, senza mai sgarrare. Entrava col suo passo dondolante dalla stretta porta ad arco e mollava i libri che aveva preso in prestito pochi giorni prima. Melanie allora li apriva con attenzione, li registrava e li metteva sul carrello per essere riposti sugli scaffali.

    Gus Harte leggeva Dostoevskij, Kundera e Pope. Leggeva George Eliot, Thackeray e libri sulla storia mondiale, a volte nel giro di pochi giorni. Melanie era ammirata, e quasi terrorizzata. Come bibliotecaria era abituata a essere un’esperta nel suo campo, ma aveva dovuto lavorare sodo per imparare tutto ciò che sapeva. A Gus Harte assorbire ogni conoscenza come una spugna veniva troppo naturale, come ogni altra cosa.

    «Devo dire» confidò a Gus un martedì, «che sei probabilmente l’unica persona in questa città che apprezza i classici.»

    «Lo so» rispose Gus solennemente. «È vero.»

    «Ti è piaciuto Le Morte d’Arthur

    Gus scosse la testa. «Non ci ho trovato quello che cercavo.»

    E che cos’era?, si chiedeva Melanie. Un’assoluzione? Divertimento? Un bel pianto?

    Come se Melanie avesse parlato ad alta voce, Gus alzò lo sguardo timidamente. «Un nome.»

    Dentro di sé Melanie sentì qualcosa che scattava, con un senso di sollievo. Si era forse sentita sfidata da una persona come Gus, che divorava intricati testi storici come romanzetti da quattro soldi? Scoprire che li stava soltanto scorrendo, alla ricerca di un nome classico e importante da dare al proprio bambino... be’, avrebbe dovuto deprimerla. Invece no.

    «Tu come lo chiamerai?» le chiese Gus.

    Melanie trasalì. Nessuno sapeva che era incinta: ancora non si vedeva, ed era abbastanza superstiziosa da voler mantenere il segreto il più a lungo possibile. «Non lo so» disse lentamente.

    «E allora» annunciò allegramente Gus, «siamo nella stessa barca.»

    Melanie, che quando andava a scuola era troppo studiosa per avere una gran vita sociale, si ritrovò all’improvviso con una migliore amica, come alle medie. In qualche modo, l’esuberanza di Gus non metteva in ombra la riservatezza di Melanie, anzi le due si completavano a vicenda. Era un po’ come per olio e aceto: da soli non andavano bene per condire l’insalata, ma insieme sembravano un’accoppiata così perfetta da poter credere che fossero stati creati per abbinarsi.

    Gus la chiamava per prima cosa ogni mattina: «Com’è il tempo fuori?», le chiedeva, anche se era lo stesso che poteva vedere dalla sua finestra. «Che cosa mi metto?»

    Si ritrovava sul grande divano di pelle, seduta accanto a Gus a guardare il suo album di nozze e a ridere delle pettinature a caschetto dei suoi parenti. Quando litigava con Michael, telefonava a Gus e invariabilmente si sentiva dire che aveva ragione lei.

    Gus era così in confidenza da poter entrare in casa dei Gold senza bussare; Melanie prendeva a prestito libri sui nomi dalle altre biblioteche e li lasciava nella cassetta della posta di Gus. Melanie cominciò a portare i vestiti premaman di Gus; Gus comperò la marca preferita di Melanie di decaffeinato da tenere a disposizione; impararono a finire le frasi l’una dell’altra.

    «Allora» disse

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