Un insolita clausola per il milionario: Harmony Collezione
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Sharon Kendrick
Autrice inglese, ama le giornate simili ai romanzi che scrive, cioè ricche di colpi di scena.
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Un insolita clausola per il milionario - Sharon Kendrick
successivo.
1
In carne e ossa pareva più pericolosa che bella. Conall serrò le labbra. Era splendida, d'accordo, ma spenta. Come una rosa che un uomo si era infilato all'occhiello prima di una serata eccitante e che ora gli ciondolava appassita sul petto.
Profondamente addormentata, giaceva su un divano di pelle bianca.
Indossava una maglietta sformata che cascava sul seno e sui fianchi, sfiorando appena un paio d'incredibili gambe abbronzate che pareva non finissero mai. Aveva accanto un bicchiere di champagne vuoto, il cristallo che risplendeva alla luce del sole primaverile. Una lieve brezza filtrava dalla finestra aperta che dava sulla balconata, ma non era sufficiente a disperdere l'acre odore di fumo di sigaretta misto a una traccia d'incenso. Conall abbozzò una smorfia di disgusto. Il classico cliché, incarnato nel corpo splendido di Amber Carter, coricata sul divano, la testa appoggiata a un braccio, i capelli neri sparsi come inchiostro sulla pelle dorata.
Se fosse stata un uomo le avrebbe dato uno strattone, ma non era un uomo.
Era una donna. Una ragazza incredibilmente bella e viziata, della quale al momento era responsabile, e per qualche strano motivo lui non voleva toccarla. Non osava.
Accidenti ad Ambrose Carter, pensò irritato, ricordando la supplica del vecchio. Devi salvarla da se stessa, Conall, qualcuno deve pur farle capire che non può andare avanti così. Accidenti alla sua stupida coscienza che l'aveva spinto ad assumersi questo compito.
Rimase in ascolto. La casa era silenziosa, ma forse era meglio controllare che fosse deserta, che non ci fosse qualcuno stravaccato su uno dei letti delle varie camere in grado di sentire ciò che le avrebbe detto.
Passò di stanza in stanza, ma oltre a rimasugli di pizza e bottiglie di champagne mezze vuote, non trovò nessuno. Solo una volta si soffermò quando, spalancando una porta di una delle varie camere da letto notò, oltre a vari libri sparsi, montagne di abiti, una cyclette impolverata e una catasta di quadri seminascosti dietro un divano. Spinto dal naturale istinto del collezionista, Conall si avvicinò e li osservò con interesse. I dipinti erano impulsivi e rabbiosi, con macchie di colore, alcune contornate da pennellate di inchiostro nero. Li studiò per qualche minuto finché non ricordò di trovarsi lì per un proposito ben preciso, e tornò in soggiorno, trovando Amber Carter esattamente come l'aveva lasciata.
«Sveglia!» la sollecitò. E poi, non ricevendo risposta, ribadì con tono più deciso: «Ho detto: sveglia!».
Lei si mosse. Alzò una mano per scostare i capelli, offrendogli una visione perfetta del viso. Il naso ben delineato, le labbra rosse. Quando lentamente si voltò verso di lui, si rese conto che gli occhi erano di un'incredibile tonalità di verde. Quegli occhi gli bloccarono il respiro in gola e per un attimo gli fecero dimenticare il motivo per cui si trovava lì.
«Cosa c'è?» chiese con voce impastata. «E chi diavolo sei?»
Si mise seduta, sbattendo le palpebre mentre si guardava intorno, ma senza spaventarsi come lui aveva immaginato. Come se fosse abituata a essere svegliata da un estraneo entrato in casa sua a mezzogiorno.
«Sono Conall Devlin» si presentò lui, fissandole il viso alla ricerca di un segno di riconoscimento, ma scorgendo soltanto un'aria annoiata sui tratti immobili.
«Ah sì?» Gli occhi splendidi lo percorsero per un attimo, poi lei sbadigliò. «E come sei entrato, Conall Devlin?»
Sotto diversi aspetti lui era un uomo all'antica... un'accusa che spesso gli era stata rivolta in passato da donne deluse, e in quel preciso momento la collera montò perché aveva la conferma di tutto ciò che aveva sentito dire di lei. Che era incauta, che non si preoccupava di nessuno se non di se stessa. E la collera era meno pericolosa del desiderio, quel desiderio che lo spingeva a focalizzare lo sguardo sul movimento del seno mentre lei si alzava... o sulla grazia con cui si muoveva mentre attraversava la stanza. Avrebbe voluto continuare a fissarla, mentre provava una fitta di desiderio del tutto non voluto.
«La porta era aperta» spiegò cercando di celare la disapprovazione.
«Ah, già... Qualcuno uscendo non deve averla richiusa.» Lo guardò, poi gli rivolse quel sorriso che probabilmente avrebbe messo in ginocchio la maggior parte degli uomini. «Ieri sera ho dato un party.»
Lui non le restituì il sorriso. «Non hai pensato che sarebbe potuto entrare qualcuno per derubarti... o peggio?»
Lei alzò le spalle. «Per la verità, no. Giù all'ingresso il controllo è molto efficiente. A proposito, come sei potuto entrare?»
«Perché ho la chiave» ribatté Conall mostrandogliela.
Lei camminava per la stanza, la maglietta che ondeggiava sulle natiche che attiravano la sua attenzione. Ma quelle parole fecero sì che alzasse il capo per la sorpresa. La fronte era aggrottata mentre estraeva un pacchetto di sigarette da una borsetta posata sul tavolino da caffè.
«Cosa vuol dire... che hai la chiave?» domandò, portandosi una sigaretta alle labbra.
«Preferirei che non lo facessi» ringhiò Conall.
Lei strizzò gli occhi.
«Davvero?»
«Sì. Davvero» ribatté lui sarcastico. «Oltre al danno del fumo passivo, si dà il caso che non sopporti l'odore della sigaretta.»
«Allora vattene. Nessuno te lo impedisce.» Premette l'accendino e la piccola fiamma prese vita, ma riuscì solo a tirare la prima boccata quando Conall attraversò a passo di marcia la stanza e le strappò la sigaretta dalle labbra, ignorando la sua occhiata scioccata.
«Cosa diavolo credi di fare?» esplose lei indignata. «Non te lo puoi permettere!»
«No?» chiese lui con voce suadente. «Guardami bene, ragazzina.» Uscì sul terrazzo, spense con due dita la sigaretta, poi la gettò in un bicchiere vuoto vicino a un vaso con una pianta.
Quando tornò si guadagnò un'occhiata di sfida mentre lei prendeva un'altra sigaretta.
«Ne ho diverse» lo sfidò.
«E sprecheresti solo il tuo tempo» ribatté lui con tono piatto, «perché prenderò ogni sigaretta e la spegnerò finché non te ne rimarranno più.»
«E se chiamassi la polizia accusandoti di violazione di domicilio e di molestie?»
Conall scosse il capo.
«Mi dispiace deluderti, ma queste accuse non reggerebbero, poiché la polizia scoprirebbe che sei tu quella colpevole di violazione di domicilio. Ricorda quello che ti ho detto: ho la chiave.»
Notò che l'aria di sfida vacillava. Scorse un'ombra che offuscava gli splendidi occhi verdi e provò qualcosa di simile a empatia senza capirne il motivo, finché non rammentò che tipo di donna fosse. Quel tipo di donna manipolatrice e viziata, proprio il genere che lui detestava.
«Sì, lo so, ma mi chiedo perché... e mi aspetto una spiegazione» ribatté lei con un tono che nessuno si permetteva di usare con lui da anni. «Chi sei, e per quale motivo sei qui, cercando di assumere il controllo?»
«Risponderò a tutte le tue domande, ma prima credo sia il caso che tu ti vesta.»
«Perché?» Un sorriso le apparve agli angoli della bocca mentre si posava una mano sul fianco, assumendo una posizione da indossatrice. «Il mio aspetto ti turba, signor Devlin?»
«Per la verità, no... almeno non nel modo in cui intendi. Non mi piacciono le donne che fumano ed esibiscono il corpo agli sconosciuti» ribatté, benché la seconda parte di quell'affermazione non fosse sincera, come testimoniava la tensione all'inguine che lo tormentava. Deglutì per alleviare l'improvvisa secchezza della gola. «E poiché non ho tutta la giornata da sprecare... perché non fai come ti ho detto, poi parliamo di affari?»
Per un attimo Amber esitò, tentata di dirgli di andare all'inferno, di mettere in atto la minaccia e telefonare alla polizia, anche se questo dramma inaspettato la stava divertendo non poco.
La divertiva perché era piacevole provare qualcosa, anche se si trattava solo di collera, quando per tanto tempo tutto ciò che aveva provato era una terrificante sensazione di vuoto. Come se non fosse più fatta di carne e ossa, ma trasparente e invisibile... come l'acqua.
Strizzò gli occhi mentre con la mente ripercorreva la serata precedente. Conall Devlin era forse stato un ospite imbucato al party improvvisato che si era svolto? No. Decisamente no. Aggrottò la fronte. Se lo sarebbe ricordato, perché era il tipo di uomo che non si dimenticava, per quanto discutibile lo si considerasse.
Senza volerlo, lo sguardo tornò a lui. I tratti decisi del volto sarebbero stati perfetti se non per il naso che doveva essere stato fratturato. I capelli erano scuri, anche se non scuri come i suoi, e gli occhi del colore della notte. La mascella era squadrata e ombreggiata dalla barba. E che fisico! Amber deglutì. Aveva l'aspetto di chi sarebbe stato a proprio agio a prendere a picconate un blocco di granito, anche se l'abito che indossava doveva essere costato una fortuna.
E con la bocca secca e l'alito che doveva essere disgustoso, in quanto si era addormentata senza lavarsi i denti, si portò le mani al viso. Il mascara del giorno precedente le impastava gli occhi, e sotto la maglietta la pelle era sudata.
Non aveva certo l'aspetto di chi voleva essere presentabile di fronte a un uomo spettacolare come lui.
«D'accordo» borbottò. «Vado a vestirmi.»
Le fece piacere il suo sguardo sorpreso, come se non si fosse aspettato una capitolazione così rapida.
La cosa le fece molto piacere perché lei si divertiva a sorprendere la gente.
Mentre usciva dalla stanza sentì il suo sguardo su di sé.
Entrò in camera da letto, che aveva una vista spettacolare sul London Eye, e cercò di mettere insieme i pensieri. Alcune donne si sarebbero spaventate a morte nell'essere svegliate così bruscamente da un estraneo, ma Amber lo considerò invece un piacevole inizio di giornata, quando negli ultimi tempi le giornate parevano dissolversi in una nebbia insignificante. Si domandò se Conall Devlin non fosse abituato a ottenere tutto ciò che voleva. Probabilmente sì. Aveva un'indiscutibile aria arrogante. Pensava forse che lei fosse intimidita da quel suo atteggiamento da macho? Ben presto si sarebbe reso conto che niente la intimidiva.
Niente.
Non si affrettò a prepararsi, benché avesse preso la precauzione di chiudersi a chiave in bagno. Una doccia bollente la riportò alla vita e dopo essersi vestita si truccò con cura. Si asciugò i capelli e fu pronta. Venti minuti dopo emerse dal bagno con un paio di jeans aderenti e una maglietta bianca. Lui era ancora lì, ma non dove l'aveva lasciato, a dominare la stanza con quello sguardo ostile. Era seduto su uno dei divani, impegnato con il computer, quasi che avesse il diritto di comportarsi come se fosse a casa propria. Quando lei entrò, alzò lo sguardo rivolgendole un'occhiata che la mise a disagio, prima di chiudere il computer e studiarla apertamente con freddezza.
«Siediti» le ordinò.
«Questa è casa mia, e non hai il diritto di dirmi cosa devo fare. Non ho voglia di sedermi.»
«Sarebbe meglio se lo facessi.»
«Non m'interessano le tue opinioni.»
Lui strizzò gli occhi.
«Non t'importa mai di niente, vero, Amber?»
Lei s'irrigidì. Aveva pronunciato il suo nome come se avesse il diritto di farlo. Come se fosse qualcosa che avesse meditato a lungo. E adesso lei riconosceva il lieve accento irlandese nella sua voce profonda. Il cuore diede un balzo perché, all'improvviso, quella non pareva più un'alternativa a una normale domenica mattina, per quanto normale potesse essere, e cominciava invece a essere qualcosa di... allarmante.
Tuttavia si sedette sul divano di fronte a lui, perché restare in piedi al suo cospetto la faceva sentire una scolaretta disobbediente convocata dalla direttrice. E qualcosa nel modo in cui lui la fissava le faceva tremare le ginocchia in un modo che non aveva niente a che fare con il risentimento.
Lo fissò negli occhi. «Allora chi sei, realmente?»
«Te l'ho detto. Conall Devlin.» Le sorrise. «Il