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Falsi eroi (eLit): eLit
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Ebook367 pages5 hours

Falsi eroi (eLit): eLit

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About this ebook

Marisa Joubert ha accettato un lavoro presso il Rifugio Wainscott, un ente benefico che accoglie le ragazze madri, aiutandole a partorire e a dare i neonati in adozione. Figlia di un trafficante d'armi, sposata al braccio destro del padre, ora, dopo la morte di entrambi, si gode una sorta di rinascita, felice si aiutare le donne in difficoltà. Ma un giorno, per caso, Marisa intravede un dossier che parla di ben altre attività del rifugio. Jimmy fa il custode al rifugio, sembra innocuo, a causa del suo ritardo mentale. Ma in realtà Jimmy osserva e prende nota. Il suo vero nome infatti, è James Griffin e si è fatto assumere sotto mentite spoglie per indagare sulla morte della sorella. La nuova arrivata, Marisa, sembra la persona giusta per trasformarsi in un'alleata preziosa.
LanguageItaliano
Release dateAug 31, 2016
ISBN9788858958902
Falsi eroi (eLit): eLit
Author

Jasmine Cresswell

Tra le autrici più amate e lette dal pubblico italiano.

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    Falsi eroi (eLit) - Jasmine Cresswell

    successivo.

    Prologo

    Giugno 1999, campo rifugiati di Stankovec, Macedonia

    Il campo era torrido e polveroso e puzzava terribilmente. Di lì a pochi mesi sarebbero arrivati freddo e neve, ma l'odore acre di troppa gente concentrata in uno spazio troppo angusto non sarebbe cambiato.

    Molti visitatori, specialmente quelli che venivano dal comfort asettico delle Nazioni Unite, reagivano sgomenti di fronte agli odori e ai suoni di tanta miseria umana; ma Stuart Frieze no. Lui aveva già visto scene come quella decine di volte, e camminava tra le tende senza scomporsi.

    Nonostante il passo svelto e il distacco con cui attraversava il campo, notava ogni dettaglio. Le poche, preziose pentole, i panni stesi ad asciugare su corde tese tra due pali, gli scatoloni di cartone usati come culle, e i catini di plastica con due dita di acqua tiepida in cui le madri lavavano faticosamente i propri bambini. Non aveva bisogno di guardare la scena per capire la disperazione e la povertà di quella gente. Aveva visto molti altri campi di rifugiati, e aveva accumulato ricordi ed esperienze atroci, bastanti a fornirgli degli incubi per il resto della vita. Per dieci anni era stato direttore dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, e in quegli anni lui si era dovuto confrontare con ogni sorta di disgrazia umanamente immaginabile.

    Il campo di Stankovec era il tipico esempio dei dolorosi strascichi di una guerra insensata, combattuta per il possesso di una terra che i più consideravano del tutto priva di valore. La guerra era ufficialmente finita, ma le vittime erano destinate a soffrire ancora per lungo tempo, dopo che i governi avevano siglato la fine delle ostilità. E per Stuart, il risultato del conflitto serbo con la NATO era stato assolutamente prevedibile. Entrambe le parti avevano annunciato di aver conseguito la vittoria perché nell'era delle comunicazioni globali non c'erano più perdenti, anche se gran parte della Serbia e del Kossovo era ridotta a un ammasso di macerie. Le troupe televisive avevano raccolto le loro attrezzature ed erano tornate a casa. Il pubblico americano sospirava di sollievo all'idea che le atroci immagini di orfani e mutilati potevano finalmente lasciare il posto alle partite di baseball e agli ultimi succosi pettegolezzi locali.

    E dal loro punto di vista si erano ampiamente guadagnati il diritto all'indifferenza: dopotutto erano stati i dollari delle loro tasse che avevano permesso alla democrazia di trionfare, facendo sì che gli albanesi fossero di nuovo al sicuro nel natio Kossovo.

    C'era solo il piccolo particolare che il Kossovo non era affatto sicuro, e che migliaia di rifugiati erano in miseria, orfani o vedovi. I kossovari avevano raso al suolo le case, distrutto i campi, svuotato i negozi. E i pochi osservatori esterni che tentavano di sottolineare l'amara verità venivano ignorati.

    Stuart aveva imparato a tenere per sé le riflessioni di questo genere e, una volta tornato in America, non aveva la benché minima intenzione di disturbare l'opinione pubblica con resoconti raccapriccianti. Ci aveva già provato, e aveva imparato a proprie spese il significato del termine frustrazione.

    Oltrepassò un gruppetto di ragazzini che giocava a football con un pallone sdrucito e alcuni pali a fare da porta. Sapeva bene quanto fosse inopportuno creare il caos distribuendo dolci o caramelle, ma cedette alla tentazione ed estrasse dalla tasca dei pantaloni di cotone alcune barrette di gomma da masticare. Com'era prevedibile, in un attimo fu circondato da un centinaio di mani protese, e dovette chiamare il servizio di sicurezza per disperdere la folla di bambini delusi.

    Poi continuò a camminare con la fronte aggrottata. Che orribile mondo era quello, in cui i bambini perdevano anni e anni di vita imprigionati in una terra desolata, senza niente da fare se non sognare di procurarsi un'arma, unirsi all'esercito di liberazione e vendicarsi dei nemici?

    Ma era inutile porsi delle domande oziose di cui sapeva già le risposte, pensò ancora. Mise da parte le considerazioni filosofiche, trovò finalmente la tenda-ospedale e mostrò il distintivo delle Nazioni Unite per poter entrare. In effetti, non lavorava più per le Nazioni Unite da più di tre anni, ma le norme di sicurezza erano ridicolmente facili da aggirare per qualcuno con la sua esperienza. I controlli sui documenti che i responsabili avevano eseguito al suo ingresso nel campo erano stati talmente superficiali che qualsiasi falsificazione, anche la più grossolana, sarebbe passata inosservata. E la sua falsificazione era stata fatta molto, molto bene.

    Una volta all'interno del perimetro, poi, le norme erano praticamente inesistenti e i pochi check-point potevano essere aggirati facilmente perfino da un ragazzino di dodici anni.

    «Ho un appuntamento con il dottor Mark Yarfield» disse Stuart al soldato di guardia. «Può dirgli che Stuart Frieze è arrivato?»

    Meno di cinque minuti dopo, una donna sulla quarantina uscì dalla tenda, sfilandosi un paio di guanti da chirurgo. Si asciugò la fronte sudata con la mascherina di garza, poi la gettò in un bidone accanto all'ingresso e domandò: «Il signor Frieze?».

    «Sì, sono Stuart Frieze.»

    «Io sono la dottoressa Carole Riven» si presentò la donna, stringendogli la mano. Lui ricambiò la stretta e il sorriso, ma nel suo cervello già risuonava un campanello d'allarme. La donna sembrava decisa e molto intelligente, tutte qualità che dal suo punto di vista non erano affatto desiderabili.

    «Mi dispiace, ma Mark Yarfield è dovuto partire la settimana scorsa» disse la donna. «Un'emergenza. Non l'hanno avvertita?»

    Stuart soffocò un piccolo sospiro di sollievo. Dunque, le sue informazioni riguardo alla partenza improvvisa di Yarfield erano corrette, il che era incoraggiante.

    «Sono molto dispiaciuto per il dottor Yarfield» mentì Stuart in tono convincente. «Spero che non abbia niente di grave.»

    La dottoressa Riven abbozzò una piccola smorfia. «Gli hanno diagnosticato la TBC, ma, una volta tornato negli Stati Uniti, non dovrebbe avere problemi. C'è qualcosa che posso fare per lei?»

    «Be', Mark e io eravamo in contatto perché l'ente benefico che dirigo, la Fondazione Wainscott, mi ha incaricato di fare una donazione al vostro ospedale. Seguendo le disposizioni testamentarie del signor Wainscott, la fondazione ha deciso di fornire delle attrezzature sanitarie di ausilio alle donne kossovare incinte e ai loro bambini. Il dottor Yarfield aveva suggerito una incubatrice per i prematuri, ed è giusto quello che ho fatto spedire qui. Per ottenere che l'incubatrice venisse aggiunta a una delle spedizioni aeree, ci sono volute centinaia di telefonate e innumerevoli preghiere ai burocrati, ma ce l'abbiamo fatta...» Stuart sorrise modestamente e lasciò che la sua voce si spegnesse.

    Finalmente Carole Riven annuì. «Oh, certo, la Fondazione Wainscott! C'è una targa con il nome sull'incubatrice, che in effetti è già servita a salvare parecchi bambini.» Soffocò un sospiro di stanchezza e aggiunse: «Abbiamo apprezzato molto il dono, e io sarò lieta di farle visitare il nostro reparto maternità, visto che Mark non è qui. Le farà piacere sapere che ho dato disposizioni perché la sua incubatrice sia spedita a Pristina appena il nostro ospedale da campo chiuderà».

    «Lei non è affatto brava a dir bugie, e non è affatto lieta di dover perdere il suo tempo a farmi da cicerone» ribatté Stuart con un sorriso. «Sta maledicendo la sorte che mi ha portato a Stankovec e non vede l'ora di tornare al lavoro. E si domanda anche perché diavolo i ricchi benefattori non si limitano a mandare dei soldi, invece di presentarsi sul posto per farsi ringraziare di persona.»

    Carole lo guardò stupita, poi scoppiò in una risata genuina. «A sentirla parlare, si direbbe che le sia toccato di scortare in giro un bel po' di visitatori ufficiali.»

    «Infatti» fece lui con una smorfia. «E mi creda, la capisco benissimo. Durante il mio ultimo incarico con le Nazioni Unite, mi veniva letteralmente l'orticaria ogni volta che una delegazione del Congresso veniva in visita in uno dei campi di rifugiati di cui ero responsabile.»

    «Oh, sì, so bene che cosa significa... eppure abbiamo bisogno di pubblicità, altrimenti questa gente verrebbe abbandonata a se stessa. E naturalmente, i rifugiati che rimangono qui sono i casi più disperati.»

    «Certo» annuì lui. «Quelli che non hanno più una casa, o quelli a cui è stato rubato tutto. Anche se non pochi rifugiati sono potuti tornare a casa, restano almeno trecentomila diseredati di cui occuparsi.»

    «Ha ragione» sospirò Carole con un sorriso. Tra loro si stava creando un legame di fiducia e di complicità, il che era esattamente quello che Stuart aveva in mente. «Al momento abbiamo un'epidemia di varicella piuttosto seria, ma l'idea di prendermi cinque minuti di pausa non mi dispiace affatto. E poiché lei ci ha fornito l'unica attrezzatura veramente funzionante in tutta la regione, il minimo che si merita è un po' di attenzione. Non vuole vedere il reparto maternità? Le assicuro che l'offerta è sincera, e per un ospedale da campo devo dire che siamo organizzati piuttosto bene.»

    «Mi piacerebbe, ma temo di non avere tempo» rispose Stuart. «Ho un pullman pieno di orfani da imbarcare su un aereo per gli Stati Uniti e devo essere all'aeroporto tra un'ora. Ma il fatto è che Mark Yarfield mi aveva promesso il suo aiuto per un'altra faccenda alquanto urgente...»

    «Se posso esserle utile, lo farò volentieri.»

    «Sì, credo che sia possibile. Vede, ho fatto ricorso a tutti gli agganci che avevo con il Dipartimento di Stato e il servizio di immigrazione, e sono riuscito a ottenere dei visti temporanei per altri due rifugiati adulti oltre alla quota regolare.»

    Carole Riven lo guardò, ammirata. «Ma è magnifico! A questo punto, visto com'è distrutto il paese, poter portare qualcun altro in salvo prima dell'inverno è una vera benedizione. Come ha fatto a ottenere due visti in più?»

    «Non me lo chieda. Ho leccato tante di quelle suole che ho ancora la lingua indolenzita... Comunque i due visti hanno validità immediata e io ho la facoltà di sbrigare le pratiche burocratiche direttamente sull'aereo. Il dottor Yarfield pensava che, se avessi portato con me due giovani donne incinte, avrei portato in salvo anche i loro bambini, quattro persone con due visti, insomma. Il problema è che devo portarle via con me immediatamente, perciò non ci sarà il tempo di fare una selezione accurata. E loro non avranno modo di fare lunghi addii alle loro famiglie.»

    Carole aggrottò la fronte. «Non so quante donne kossovare sarebbero disposte a lasciare la famiglia, anche con la prospettiva di iniziare una nuova vita negli Stati Uniti.»

    «Be', Yarfield mi ha parlato di alcune ragazze violentate da un gruppo di soldati ubriachi che sarebbero dovuti essere di guardia al campo...» In realtà, Mark Yarfield non gli aveva detto niente del genere. I loro contatti si erano limitati ad alcune e-mail riguardanti l'incubatrice, ma Stuart aveva letto su un giornale inglese un articolo sulle violenze subite da alcune ragazze albanesi, e il suo interesse si era subito risvegliato. L'articolo parlava di sei giovani donne sfuggite ai soldati serbi solo per cadere vittime dei macedoni che in teoria avrebbero dovuto proteggerle. A seguito della violenza, due delle ragazze erano rimaste incinte.

    «Sì, conosco le ragazze in questione» disse Carole. «Sono io che le ho curate dopo la violenza. Se fossero venute subito da me, avrei potuto fare qualcosa per impedire la gravidanza, ma erano così piene di vergogna per quel che era accaduto che si sono nascoste nelle tende, e noi le abbiamo identificate solo dopo alcune settimane. Ho proposto loro di abortire, ma naturalmente hanno rifiutato.»

    Stuart si sforzò di nascondere l'eccitazione. «Sarebbero delle candidate ideali, non crede? E probabilmente sarebbero ben felici di far nascere i loro bambini negli Stati Uniti.»

    «Sì, lo credo anch'io» annuì Carole. «Questa è proprio una bella notizia, un lieto fine dopo tante disgrazie. Vedo se posso trovare le due ragazze e...»

    «Senta, il tempo è davvero ridotto al minimo» la interruppe Stuart. «Quanto pensa che le ci vorrà per localizzarle? Dovrei farle salire sull'autobus al massimo entro mezz'ora, capisce...» E le scoccò un altro dei suoi sorrisi.

    Non posso permettere che tu scavi più a fondo nella mia storia, pensava intanto.

    Una volta partite le ragazze, il sollievo sarebbe stato tale che la dottoressa Riven non ci avrebbe più pensato; e il ricordo della sua visita si sarebbe cancellato rapidamente nelle giornate frenetiche di diciotto ore lavorative.

    Carole guardò l'orologio. «È mezzogiorno, quindi è probabile che stiano preparando il pranzo. Se non le dispiace di aspettarmi qui, vado a controllare sulla pianta del campo dove si trovano le loro tende.»

    «Oh, non si preoccupi per me» replicò lui sorridendo. Sapeva di avere esattamente l'aspetto che si era prefisso, vale a dire quello del benefattore disinteressato, del burocrate dal cuore d'oro che si impegnava a fondo per aiutare gli altri. «Cercherò di non intralciare il lavoro di nessuno.»

    La dottoressa sparì all'interno dell'ospedale, e si dimostrò ancora più efficiente di quanto Stuart sperava. Nel giro di mezz'ora, localizzò le due ragazze, che si presentarono con gli occhi bassi stringendo buste di plastica che contenevano verosimilmente tutti i loro averi.

    Stuart le controllò rapidamente. Capelli castani, occhi azzurri, pelle liscia e sana... Erano praticamente perfette.

    «Grazie di cuore per il suo aiuto, dottoressa Riven» disse, sorridendo alle due giovani donne che arrossirono e distolsero lo sguardo. Le poverette avevano passato tali e tante traversie che la loro autostima doveva essere ridotta a zero, pensò lui. «Adesso dobbiamo proprio andare» riprese, «ma voglio che lei sappia che oggi ha contribuito a ridare speranza a parecchie persone. Queste donne potranno costruirsi una nuova vita, e i loro bambini cresceranno sani e sicuri in un grande paese. Grazie, dal profondo del cuore.»

    E per una volta, Stuart era assolutamente sincero.

    1

    Maggio 2000, Wainscott, Colorado

    Dopo soli cinque minuti dall'inizio del colloquio, Marisa aveva già capito che non avrebbe ottenuto il posto. Forse aveva mirato troppo in alto, sperando di diventare l'assistente del direttore generale dell'albergo Alpine Lakes, ma, dopo sei mesi di un lavoro temporaneo e mal pagato, era quasi alla disperazione. Al momento, lei e Spencer erano a un passo dalla miseria assoluta e, visto che la sua fonte di guadagno si stava esaurendo, Marisa cominciava a passare le notti in bianco. Ormai la disoccupazione non era più un evento remoto che si sarebbe potuto verificare in futuro, era una scadenza ben precisa. Di lì a tre giorni, venerdì, lei sarebbe rimasta senza lavoro e senza un centesimo.

    Nonostante lo svantaggio di trattare ogni giorno con una clientela in lutto, Marisa era stata ben contenta di avere un lavoro presso l'agenzia di pompe funebri Vincent. Ci lavorava da Natale come segretaria e centralinista, e aveva un buon rapporto con i colleghi che, nonostante la loro triste professione, erano tipi allegri e gioviali. Purtroppo gli anziani proprietari dell'impresa l'avevano appena venduta a una grande catena nazionale, che aveva provveduto immediatamente a licenziare metà dei dipendenti.

    E così Marisa aveva dovuto ricominciare a cercarsi un lavoro, cosa non facile per una madre di ventotto anni che aveva interrotto gli studi al liceo e non aveva alcuna specializzazione.

    Due minuti dopo, il direttore dell'albergo decise di non perdere altro tempo e troncò a metà frase la spiegazione di Marisa sui motivi per cui aveva lasciato il liceo per diventare una modella, senza curarsi di nascondere il sospetto che il termine modella fosse un eufemismo per qualcosa di assai meno rispettabile.

    «Grazie per essere venuta fin qui da Denver, signora Joubert» disse, alzandosi in piedi con un sorriso gentile ma definitivo. «Però, vede, temo che lei non abbia i requisiti necessari. Abbiamo bisogno di qualcuno che gestisca una banca dati finanziaria, che sappia organizzare il flusso previsto dei clienti e...»

    «Ma qualche esperienza di computer ce l'ho» lo interruppe lei. «Mio padre...» Poi tacque di colpo, ricordando troppo tardi che, nominando il padre, rischiava di aprire un altro capitolo spiacevole. «Sono molto brava con i numeri» terminò in fretta.

    «Mi dispiace, signora Joubert, ma qui all'Alpine Lakes siamo troppo occupati per addestrare i nostri dipendenti ai rudimenti dell'uso del computer. I nuovi assunti devono essere in grado di mettersi subito al lavoro, specie adesso che stiamo programmando le nostre offerte speciali per l'estate. Mi permetta di mostrarle la strada per l'ingresso... sa, questa parte dell'albergo è una specie di labirinto.»

    E così Marisa si ritrovò nel parcheggio dell'Alpine Lakes. Annunciata dal cielo grigio del mattino, adesso la neve stava cadendo sul serio, e lei cercò di attraversare l'asfalto scivoloso senza rovinare le sue uniche scarpe decenti. Abbinate al tailleur grigio, dovevano durarle per chissà quanti altri colloqui di lavoro, e perciò lei doveva cercare di mantenerle in condizioni perfette. Il ricordo delle centinaia di scarpe costose, che in passato aveva regalato agli enti di beneficenza senza pensarci due volte, la faceva rabbrividire. In realtà, non aveva ben capito se i brividi erano dovuti alla vergogna per la passata prodigalità o al rimpianto per la ricchezza svanita.

    La sua macchina aveva le gomme da neve e l'avrebbe riportata a Denver senza problemi: ma lei era così abbattuta dopo quel colloquio umiliante che non se la sentiva di affrontare subito il viaggio di ritorno. Quando notò un locale dall'aria simpatica sulla via principale, decise di prendersi mezz'ora di pausa. Forse, nel frattempo, gli spazzaneve avrebbero ripulito la strada statale, e poiché l'asilo di Spencer chiudeva alle sei ed era solo mezzogiorno, lei aveva tutto il tempo di annegare i dispiaceri in una tazza di cappuccino.

    Spinse la porta de La Cafetière, che era ombreggiata da una tenda a strisce bianche e rosse. Sul marciapiede alcune cassette ospitavano dei coraggiosi tulipani, che cercavano di non apparire troppo infreddoliti. I proprietari avevano tentato di dare al loro locale l'aspetto di un café parigino, anche se il vicino negozio di ferramenta rovinava un po' l'effetto.

    Il caffè non era affollato benché fosse ora di pranzo, e la cameriera condusse Marisa a un tavolo accanto alla finestra. Era sulla trentina, portava un paio di jeans con un grembiulino orlato di pizzo, e non si capiva se l'incongruità dei due capi di abbigliamento era voluta o no.

    «Mi chiamo Kathleen» si presentò la giovane donna, «e mio marito è lo chef. Cambiamo menu ogni giorno, ma i panini sono la nostra specialità.»

    Marisa prese il menu. Erano passati secoli dall'ultima volta che aveva mangiato in un posto diverso da qualche Burger King, dove Spencer poteva abbandonarsi alla sua passione per le patatine fritte intinte nel succo d'arancia. Esaminò la lista e finalmente ordinò un panino farcito di prosciutto, cuori di carciofo e olive nere. E per risparmiare decise di bere acqua semplice, anziché qualcosa di più sofisticato.

    «Da dove viene?» domandò la cameriera, riempiendole il bicchiere di acqua ghiacciata. Sembrava più amichevole che curiosa, e Marisa le rispose di buon grado.

    «Sono nata e cresciuta in Florida, ma adesso vivo a Denver. Come sapeva che vengo da fuori?»

    Kathleen sorrise. «La gente del posto non mangia niente senza innaffiarlo di ketchup e, a dire la verità, lo facevo anch'io prima di conoscere mio marito. André è cajun, e ritiene che la vera civiltà consista nel mangiare una cena eccellente e poi passare la notte a ballare. Inoltre ha giurato di trasformare le abitudini alimentari di Wainscott, anche se dovesse costargli la totale rovina economica.»

    In quel momento entrarono tre uomini dai capelli brizzolati in tuta da operaio, e la cameriera si scusò e andò ad accoglierli e a mostrar loro un tavolo. I tre conoscevano tutti i presenti e, dopo uno scambio di saluti, guardarono Marisa con educata curiosità, poi le fecero un cenno e si dedicarono ai loro menu. A quanto pareva, pensò lei, in quella cittadina gli estranei venivano immediatamente riconosciuti come tali.

    «Quale stranezza ci ha preparato tuo marito, oggi?» domandò uno degli uomini, inforcando gli occhiali.

    «Abbiamo una magnifica insalata di rucola e indivia belga condita con olio di noce» annunciò Kathleen, imperterrita. «Oppure del chili con scaglie di provolone gratinato. Ma se proprio insisti, André può prepararti un hamburger con le patate fritte.»

    I tre ordinarono il chili come se le facessero un favore personale, e Marisa soffocò una risatina. Il suo panino arrivò poco dopo, grigliato e saporito, e lei lo attaccò con grande soddisfazione.

    «Tutto bene?» domandò la cameriera più tardi, passandole accanto con un bricco di caffè e alcune tazze.

    «Magnifico. Lei e suo marito avrete un grande successo, una volta che la gente vi avrà scoperti.»

    «Già, contiamo sul passaparola» sospirò la donna. «Abbiamo avuto una buona stagione con i turisti che venivano qui per sciare, e adesso speriamo che anche la gente del posto si convinca a mangiare da noi.»

    Kathleen servì ai tre uomini grandi porzioni di torta di mele con gelato di vaniglia, poi tornò al tavolo di Marisa. «Vuole un dessert? André fa un meraviglioso budino caramellato, ma se vuole le porto il menu, così sceglie lei il peccato calorico che preferisce.»

    Marisa sorrise e fece segno di no. «La ringrazio, ma per oggi ho già peccato abbastanza. Prenderò solo un caffè.»

    «Normale, espresso, decaffeinato? Abbiamo anche un caffè aromatizzato alla nocciola.»

    Marisa ordinò un cappuccino per terminare in bellezza un pasto che non avrebbe comunque potuto permettersi. Era deprimente che tutti i suoi pensieri tornassero sempre lì, alla mancanza di denaro. Sei mesi prima, rifiutare i sette milioni di dollari ereditati dal padre le era sembrata l'unica cosa giusta da fare, e così pure mettere il denaro lasciatole dal marito in un fondo vincolato destinato all'università di Spencer. Ma qualche settimana a Denver era stata sufficiente per farle capire come guadagnare di che mantenere se stessa e Spencer fosse tutt'altro che semplice.

    Sua sorella Belle aveva raggiunto l'indipendenza economica con tale facilità che lei si era illusa di poter fare altrettanto, senza considerare che Belle aveva un titolo di studio e una specializzazione e che, quando si era allontanata dagli affari illegali della famiglia Joubert, non aveva a carico nessun altro tranne se stessa. E poi, Marisa aveva lo scoraggiante sospetto che Belle fosse molto più in gamba di lei.

    Come risultato, aveva cominciato una nuova vita in uno stato di totale ignoranza economica, che era comico o patetico a seconda dei punti di vista. Chi aveva avuto come lei un padre multimilionario molto generoso, che guarda caso era anche un criminale, non veniva certo incoraggiata a domandarsi in che modo il denaro affluiva nelle casseforti di famiglia. E avendo un ricco marito che voleva fare di lei un misto tra una schiava e una moglie-trofeo, certo Marisa non aveva mai dovuto o potuto imparare come far fruttare al meglio ogni singolo centesimo. Le capacità che aveva dovuto affinare erano state quelle di non turbare mai l'incerto equilibrio familiare, non provocare mai uno dei feroci scoppi d'ira di Evan, accettare con cieca obbedienza ogni nuova pretesa del marito. In queste tecniche di sopravvivenza, Marisa era diventata abilissima, e invece non aveva mai imparato come sopravvivere con uno stipendio da fame. E ogni volta che faticava come una matta per pagare le bollette, si domandava se, sapendo in anticipo a che cosa condannava se stessa e Spencer, avrebbe avuto la forza di gettar via la sua fortuna.

    Bella dirittura morale, pensò adesso, rimescolando il cappuccino. La sua etica era così dubbia che quasi rimpiangeva di aver dato via del denaro accumulato con le truffe e le imprese criminali.

    «Sembra che stia cessando di nevicare» annunciò Kathleen, tornando accanto al suo tavolo. «È questa la cosa peggiore, quando si vive in montagna. La primavera ci mette secoli ad arrivare, e poi in un batter d'occhio è già piena estate. Non che sia male, anzi. Il sole splende, non c'è umidità, le notti sono fresche. E io passo ore e ore a lavorare in giardino, in modo che le mie petunie siano belle robuste... e che i daini se le mangino con più gusto.» Rise divertita, poi aggiunse: «Non so perché mi do tanta pena, ma mi sono scoperta appassionata di giardinaggio quand'ero a New Orleans e adesso non voglio ammettere che i daini mi hanno sconfitta».

    «Dev'essere bello qui, in estate. Ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto vivere in montagna.» Marisa doveva aver parlato in tono più nostalgico di quanto pensasse, perché la donna la guardò con attenzione.

    «Le piacerebbe davvero trasferirsi qui, e magari cercarsi un lavoro? Mia sorella sta per sposarsi e ha appena lasciato il suo lavoro di assistente del direttore generale, qui all'Alpine Lakes. Il direttore è così disperato che, secondo me, l'assumerebbe in un attimo. Ci sono molti vantaggi, sa. Tre settimane di vacanza fin dal primo anno, e un extra come ricompensa per il lavoro in più che c'è durante la stagione sciistica.»

    Marisa sentì che le sue guance diventavano di fiamma. Il direttore poteva essere disperato, ma non tanto da assumere una poveretta priva di qualifiche come lei. «Al momento non ho intenzione di lasciare Denver» mentì.

    Kathleen sospirò. «È un vero peccato. Qui il lavoro non manca, però, a quanto pare, non interessa a nessuno. Questo posto è affollato di pensionati o ragazzini del liceo che passano da un impianto sciistico all'altro, e invece avrebbe bisogno di gente giovane disposta a fermarsi. Specialmente donne.»

    «E ci sono molti posti di lavoro, diceva?» Marisa cercava di apparire casuale, ma in realtà l'idea di trasferirsi con Spencer in quella cittadina le piaceva sempre di più. Forse, aver perso la possibilità di lavorare all'Alpine Lakes non significava la fine di tutti i suoi progetti.

    «Ci sono moltissimi lavori part-time o stagionali» spiegò Kathleen, «e questa è una delle ragioni per cui tanti ragazzini passano qui le vacanze, lavorando per mantenersi. Un tempo, Wainscott era solo un centro agricolo, poi la Colorado Properties comprò il vecchio albergo e lo trasformò in un grand hotel di lusso per le vacanze invernali. E quando il vecchio Grover Wainscott morì...»

    «Vuol dire che la città ha preso il nome da una persona?» la interruppe Marisa.

    «Sì. La famiglia Wainscott possedeva tutta l'area su cui sorge la città, ma il vecchio Grover viveva così semplicemente che nessuno di noi aveva mai immaginato la verità. E cioè che, dietro la Colorado Properties e l'Alpine Lakes, in realtà c'era lui, e che inoltre possedeva milioni di dollari che aveva intenzione di lasciare a una fondazione caritatevole.»

    «Non capisco. Mi sta dicendo che l'Alpine Lakes è una fondazione benefica? A me è parso un albergo normalissimo...»

    «Oh, no, infatti, l'Alpine è un normale esercizio commerciale. Mi riferivo al Rifugio Wainscott, dall'altra parte della città. È quello l'ente a cui Grover Wainscott ha lasciato tutto il suo denaro.»

    Kathleen si chinò in avanti per guardare fuori e indicò a Marisa un massiccio edificio di mattoni che si ergeva imponente alla fine della strada principale.

    «Lo vede da qui. Era la dimora di famiglia, e che ci creda o no, è stata trasformata in una casa di accoglienza per le ragazze madri.»

    Marisa la guardò, stupita. «È un concetto un po' antiquato, no? Un retaggio dell'Ottocento.»

    «Oh, certo, ma sembra che ci sia un gran bisogno dei loro servigi. Il Rifugio è sempre al completo, forse perché si dice che siano bravissimi a trovare i genitori adottivi perfetti per ogni bambino. Il direttore si chiama Stuart Frieze e viene spesso qui a pranzo, e so che uno dei suoi vanti è appunto l'assistenza offerta alle madri dopo la nascita dei bambini. Le ragazze non vengono dimesse e mandate alla deriva dopo l'adozione del loro bambino. Possono restare al Rifugio finché non hanno trovato un lavoro, anche se a volte ci vuole un paio di mesi.»

    Gli orrori del suo matrimonio con Evan Connors avevano destato nell'animo di Marisa una grande comprensione per donne che un tempo avrebbe

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