Impossibile vendetta: Harmony Destiny
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Il suo piano però ha un punto debole perché, in breve tempo, rinunciare a Ferrin diventa impossibile. Come impossibile è la scelta tra vendetta, giustizia e amore.
Katherine Garbera
Tra le autrici più amate e lette dal pubblico italiano.
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Impossibile vendetta - Katherine Garbera
successivo.
1
«Ciao, tesoro.»
Ferrin Gainer sorrise all'uomo che era steso in quel letto. Non aveva mai avuto un rapporto molto stretto con il padre. Aveva dedicato la vita al football e ai trofei che esibiva orgoglioso nel salotto di casa. Una figlia femmina era stata una grande delusione per lui. E vederla trasalire ogni volta che le sfrecciava davanti un pallone da football era fonte di imbarazzo.
Dopo il divorzio dei genitori, quando aveva dieci anni, aveva visto di rado suo padre. Aveva sentito dire che due dei suoi giocatori – quasi dei figli per lui – erano stati accusati di omicidio circa dieci anni prima, quando lei aveva quindici anni. Tuttavia nemmeno quell'episodio aveva contribuito ad avvicinarlo alla figlia. Aveva cercato di riallacciare i rapporti con lei solo dopo svariati attacchi di cuore e l'ultimo ictus.
Aveva venticinque anni, e aveva sperato di non avere più bisogno dell'affetto di un padre, invece non era affatto così. Non tutte le sue amiche erano in buoni rapporti con le rispettive famiglie, però Ferrin ci teneva.
Lei e la madre erano vicine. Si sentivano tutti i giorni. Sua madre non era affatto felice che Ferrin si fosse presa un anno sabbatico dal lavoro d'insegnante presso l'università del Texas per andare in California e prendersi cura del padre, ma la capiva.
Ferrin insegnava psicologia, quindi si era analizzata più volte, e quello che aveva capito... be', l'aveva mandata fuori di testa. Sarebbe dovuta essere in grado di andare avanti, invece non ci riusciva. Non voleva accettare il fatto che il rapporto con il padre non fosse dei migliori.
L'avrebbe fatto funzionare.
Dannazione.
«Ehi, coach. Come va oggi?» gli chiese. Da piccola aveva cercato di chiamarlo papà un paio di volte, ma lui aveva insistito per farsi chiamare Coach. Anche prima che i suoi divorziassero.
«Bene» biascicò. L'ictus sembrava averlo fiaccato. Era come se qualcosa dentro di lui gli impedisse di riprendersi. Ferrin si chiese se ritrovarsi provato fisicamente per la prima volta nella vita gli avesse tolto la voglia di vivere.
Non ne aveva idea. Le parlava appena. Era tentata di lasciarlo alle cure delle due infermiere domiciliari, tuttavia non voleva essere una figlia snaturata.
Si sentiva in colpa.
Sapeva che se si fosse trattato della madre, be', le sarebbe stata accanto senza pensarci un istante. Doveva riservare quantomeno lo stesso trattamento all'uomo che le aveva donato la vita.
«Bene. È una splendida giornata quindi dopo colazione usciremo in giardino.»
«No.»
Lo ignorò e scostò le tende. A lui piaceva stare al buio; dapprima Ferrin aveva pensato che forse l'ictus lo aveva reso sensibile alla luce, i dottori, però, l'avevano escluso. Di conseguenza voleva rimanere al buio per nascondersi. Sembrava avere qualche oscuro motivo per ritirarsi dal mondo.
Scostò le tende, una a una. Dalla stanza si vedeva l'oceano Pacifico. La superficie schiumosa in netto contrasto con il blu intenso dell'acqua e l'accavallarsi delle onde donavano un senso di pace. Pace che Ferrin non riusciva a trovare da quando era arrivata sulla West Coast.
«Chiudile» biascicò nuovamente.
Odiava sentirlo parlare con difficoltà. Per quanto tesi fossero i loro rapporti, le era sempre piaciuto che suo padre fosse un uomo forte. Le cose, tuttavia, erano cambiate.
«Solo finché fai colazione. Joy te la sta portando qui e la mangeremo insieme. Sai che non mi va di mangiare al buio.»
Aveva scoperto che se mangiava con lui allora il padre finiva quasi tutto quello che aveva nel piatto. Sospettava mangiasse per evitare di parlarle, e a lei non importava. I dottori dicevano che del buon cibo e un po' di moto erano la chiave per il recupero. Così Ferrin avrebbe fatto tutto il necessario.
«Okay.»
Il tono di voce era burbero, e la cosa la fece quasi sorridere. Almeno non fingeva di dormire o di ignorarla.
«Ti è arrivata un'altra lettera dalla scuola ieri. Ti vogliono conferire...»
«No.»
«No?» gli chiese, premendo il pulsante che sollevava la testiera del letto. Dopo il primo attacco di cuore l'università aveva equipaggiato la stanza con dispositivi medici all'avanguardia. E avevano assunto Joy, la domestica, oltre a due infermiere a domicilio.
«Non mi va che facciano certi gesti per senso di colpa o peggio pietà» dichiarò, questa volta con voce molto più chiara rispetto a prima.
Ferrin gli rimboccò le coperte, prese il vassoio e glielo posizionò in grembo.
«Non lo fanno per quello.»
«Come fai a saperlo?»
«Ti vogliono conferire un'onorificenza perché hai fatto vincere alla scuola molti premi.»
E denaro.
Vincere significava guadagnare soldi e suo padre era stato uno degli allenatori che aveva riportato più vittorie nella storia del college.
«Dov'è la colazione?» le chiese, tornando a faticare con le parole.
Ferrin si affacciò al corridoio e fece un cenno a Joy, che li servì e poi se ne andò.
«Voglio che accetti questa onorificenza» gli disse, mentre mangiava yogurt e frutta.
Suo padre faticava a mangiare, ma non accettava aiuti. Ferrin l'aveva imparato a sue spese. Si portava la mano destra alla bocca molto lentamente, e masticava con difficoltà. Il lato sinistro del volto non si era ancora ripreso del tutto. Ma si stava impegnando.
«Se accetto» disse, guardandola con quei suoi occhi verdi, «significa che non allenerò più.»
Lei non disse nulla.
Non avrebbe più allenato. Tuttavia forse coltivare una speranza l'avrebbe aiutato a guarire.
«Non credo sia quello il senso, comunque possiamo parlarne più tardi.»
Avrebbe dovuto provare a contattare alcuni dei suoi giocatori perché andassero a trovarlo. La cosa lo avrebbe rallegrato, e forse conoscere le persone di cui suo padre si era sempre circondato l'avrebbero aiutata a comprenderlo meglio. Era ancora un estraneo per lei, nonostante vivesse con lui da due settimane.
Mentre Joy veniva a riprendere i vassoi qualcuno suonò il campanello.
«Vado io» disse Ferrin, ansiosa di uscire da quella stanza.
Hunter Carruthers arrivò alla villa di Carmel a metà pomeriggio. Aveva trascorso l'intera giornata nel polveroso archivio della sua ex università, a cercare prove che riscattassero il suo nome dall'accusa di omicidio della sua ragazza del college, avvenuto dieci anni prima.
Invece aveva scoperto solo di essere ancora allergico alla polvere, nonostante sua madre gli avesse sempre detto che prima o poi l'allergia sarebbe scomparsa.
Era il più piccolo di cinque fratelli, cresciuti in una grande famiglia di allevatori texani dai sani principi. I suoi genitori erano credenti, tenevano al bestiame, alla famiglia e al football. Dato che Hunter non si era mai appassionato alla terra come i fratelli aveva iniziato a giocare a football.
E aveva trovato in quello sport la sua ragione di vita. Aveva scoperto che se nessuno gli copriva le spalle avrebbe dovuto affrontare e superare due o tre avversarsi da solo. Oppure avrebbe potuto correre con tutto il fiato che aveva in corpo e fare touchdown... diventando l'eroe della partita.
Lo stesso valeva per la vita di tutti i giorni.
A volte si ritrovava solo, esposto, a prendere decisioni importanti. C'era sempre stato Kingsley Buchanan a guardargli le spalle. King non si era mai tirato indietro. Lo aveva sempre sostenuto.
Erano stai arrestati e poi rilasciati per un crimine che non avevano commesso e che li aveva legati ancora di più.
I ragazzi cercavano Hunter per parlare con lui della sua carriera folgorante sul campo da gioco, le donne volevano andare a letto con lui perché, testuali parole, lo trovavano pericoloso, ma nessuno voleva davvero avere a che fare con lui perché rimanevano delle domande in sospeso sul suo conto.
Chi aveva ucciso Stacia Krushnik? Cosa avevano fatto Kingsley e Hunter quella sera? Le risposte sembravano non arrivare mai.
In dieci anni i ricordi si erano affievoliti, le prove erano minime.
Ecco perché aveva parcheggiato la sua Bugatti nel vialetto di casa dell'unico uomo che poteva fornirgli delle risposte. Il sole splendeva, ma d'altronde era normale, in California. Quando si era trasferito lì era solo un provinciale. Il Pacifico l'aveva stregato. Fino a quel momento aveva visto solo il golfo del Messico, che non era minimamente paragonabile all'oceano.
Adesso aveva una casa sulla spiaggia di Malibu e quando non si trovava a Carmel per scavare nel passato trascorreva molto tempo sulla spiaggia a osservare l'oceano.
Bussò alla porta, sollevando gli occhiali da sole e scrutando il posto. Il giardino era curato, probabilmente grazie a un'impresa di giardinaggio. Non aveva mai conosciuto nessuno che curasse personalmente il proprio giardino.
La porta si aprì e Hunter venne avvolto da uno sbuffo di aria condizionata. Sorrise cordiale.
«Salve» disse.
La donna sulla soglia era alta, almeno un metro e settanta, con bruni capelli ricci che le incorniciavano il viso dai tratti delicati. Aveva occhi di un azzurro intenso, simile a quello delle onde che Hunter aveva cavalcato all'alba. La sua bocca carnosa abbozzò un sorriso. Indossava una leggera maglia estiva e un paio di pantaloncini color kaki.
Le gambe...
Erano lunghe, abbronzate, slanciate. E Hunter le immaginò avvinghiate attorno a lui, poi scosse la testa e le porse la mano.
Era lì per cercare risposte, non una donna.
«Hunter Carruthers» si presentò. «Giocavo a football con l'allenatore Gainer e mi chiedevo se avesse un attimo per me.»
«Io sono Ferrin, la figlia dell'allenatore Gainer» disse. «Entra, così parliamo.»
«L'allenatore ha una figlia?»
«Sì. Tuttavia ti avverto, non sono come lui. Non so afferrare una palla, né lanciarla, e si dice in giro che sia negata per gli sport.» Lo condusse in cucina.
«Tutti gli sport?»
«Per quel che ne so sì.» Aveva un tono scherzoso e una leggera pronuncia nasale.
Mentre attraversavano lo studio, Hunter notò una teca piena di trofei e foto del coach in compagnia di celebrità, politici ed ex studenti famosi. Quella che lo ritraeva con Kingsley e Hunter non c'era.
«Posso offrirti qualcosa da bere?» gli chiese, indicando il tavolo rustico nel soleggiato angolo cottura.
«Ehm... Vorrei solo vedere il coach.»
Per quanto fosse carina, Hunter non era lì per flirtare con la figlia dell'allenatore, non era proprio il caso.
«Prima dobbiamo parlare» gli spiegò.
«Da sobri o da ubriachi?»
Gli sorrise. «Da sobri. Da quando in qua bisogna ubriacarsi per sostenere una conversazione?» La guardò riempire due bicchieri di limonata. «Fidati.» Gli porse un bicchiere e gli si sedette di fronte. «Mio