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Un lampo nella notte (eLit): eLit
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Un lampo nella notte (eLit): eLit
Ebook364 pages5 hours

Un lampo nella notte (eLit): eLit

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About this ebook

Chi sarà la prossima vittima?

L'agente dell'FBI Carolyn Monahan torna a Boston per cercare di inchiodare un serial killer che strangola ragazze bionde, belle e con gli occhi azzurri proprio come sua sorella, uccisa dieci anni prima. Mentre tutti gli indizi sembrano collegare gli omicidi a quell'uccisione inspiegabile, che ha distrutto la vita di Carolyn e dei suoi cari, torna a divampare prepotente l'attrazione tra lei e Conor Rafferty, il tenente che conduce le indagini. Il loro amore, che dieci anni prima era stato lacerato dalla tragedia, cresce di pari passo alla tensione: infatti ora è Carolyn a essere nel mirino dello spietato assassino...
LanguageItaliano
Release dateMay 30, 2017
ISBN9788858971277
Un lampo nella notte (eLit): eLit

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    Un lampo nella notte (eLit) - Laurie Breton

    successivo.

    Prologo

    Ne aveva fatta di strada con quella vecchia carretta, tenuta insieme con metri e metri di nastro isolante e accorate preghiere...

    Katie era arrivata fin lì addirittura da Finley, nel North Dakota, sulla sua Datsun malandata. Era la prima volta che andava via da casa e aveva avuto paura ad attraversare il paese tutta sola. Però essere libera era esaltante, lo doveva ammettere.

    Sua madre aveva pianto quando era partita. Andava così lontano, troppo lontano!, si era lamentata. Invece era proprio ciò che Katie desiderava. Non voleva altro che mettere chilometri e chilometri di distanza tra lei e i suoi genitori premurosi e iperprotettivi. Il suo unico desiderio era distendere le ali e spiccare il volo, libera e autonoma, dimostrando ai suoi, e a se stessa, di essere in grado di farlo.

    Era appena fuori da Providence quando l'indicatore dell'acqua cominciò a dare segni di squilibrio. La temperatura si era alzata a livelli allarmanti. Piegata in avanti, Katie lanciava ogni due secondi delle occhiate preoccupate alla lancetta, aggrappandosi con più forza al volante. Mancava solo un'ora, si disse per farsi coraggio. Guardò di sfuggita lo specchietto retrovisore e vide che il buio aveva inghiottito le luci di Providence.

    Non avrebbe impiegato più di un'altra ora per arrivare a Boston, si ripeté. Non aveva senso fermarsi in un motel a quel punto, quando l'aspettava la sua camera nel dormitorio dell'università. La sua vecchia auto non l'avrebbe piantata in asso proprio quando era quasi giunta a destinazione, dopo aver percorso tanta strada con lei, come una vecchia amica e compagna d'avventure.

    Katie era in viaggio da tre giorni, ma l'ultima parte del tragitto era stata la più lunga e inquietante. Quegli ultimi settanta chilometri o giù di lì le erano sembrati interminabili. Si sentiva sola nell'oscurità, agitata, piena di oscuri presentimenti...

    Tra Providence e Boston il paesaggio era piuttosto monotono. Praticamente c'erano solo alberi, alberi e ancora alberi dappertutto, e lo sguardo di Katie correva ogni due secondi alla lancetta della temperatura che saliva costantemente, imperterrita. Quando finalmente vide le luci della città che brillavano in lontananza, emise un sospiro di sollievo. Ce l'aveva fatta. Aveva dimostrato ai suoi genitori che avevano torto a non fidarsi delle sue capacità. Aveva viaggiato da sola per mezzo paese e non le era successo niente di tremendo.

    Giunta alla periferia di Boston, mise la freccia e rallentò per immettersi sulla rampa d'uscita di Storrow Drive. A metà della curva il motore si bloccò di colpo e il cruscotto s'illuminò di lucette rosse e gialle, come un albero di Natale. Per non bloccare la strada, Katie mise in folle e lasciò andare la macchina fino a quando non si fermò, poi girò la chiavetta dell'accensione un paio di volte, ma senza risultato. Il motore non dava più segni di vita.

    E adesso?

    Erano le undici di martedì sera e a Boston Katie non conosceva neanche un'anima. Determinata a vedere il bicchiere mezzo pieno invece che mezzo vuoto, si disse che le sarebbe potuta andare peggio. La macchina avrebbe potuto cedere molto prima, mentre era su quel desolato nastro d'asfalto che univa Providence a Boston. Perlomeno era riuscita ad arrivare in vista del mondo civile prima che la sua auto esalasse l'ultimo respiro.

    Tutto intorno a lei le luci sfavillanti degli imponenti grattacieli di Boston ammiccavano come stelline lucenti. Katie inserì le quattro frecce, scese dall'auto e sollevò il cofano. A quell'ora il traffico era scarso anche lì sul raccordo. Pensando con un sorriso affettuoso all'insistenza di suo padre, che le raccomandava di portare sempre con sé una torcia elettrica quando andava in macchina, accese la pila e puntò il fascio di luce all'interno del vano motore, niente affatto sicura di sapere quello che stava cercando.

    Non aveva mai capito un accidenti di motori; Katie Ann Perry era un'artista. Il suo mondo era fatto di luci, forme e colori. Non aveva dimestichezza con cilindri e pistoni, ma con tempere, spatole e pennelli, che usava per creare composizioni suggestive e piacevoli dal punto di vista estetico, con l'intento di suscitare emozioni. Era grazie al suo talento che era riuscita a entrare nella prestigiosa Accademia di Belle Arti, non perché sapeva cosa c'era sotto il cofano della sua Datsun.

    Un'auto scura rallentò e si fermò dietro la sua. Il guidatore spense le luci e scese. Era piuttosto giovane, con jeans e maglia nera. Aveva il viso in ombra mentre si avvicinava a Katie.

    «Problemi con la macchina?» le chiese.

    Lo guardò, perplessa. Suo padre le aveva sempre raccomandato di non parlare con gli estranei, però erano le undici di sera e lei era bloccata in mezzo alla strada. Le emergenze non contavano, si disse per rincuorarsi. Inoltre il tipo sembrava simpatico e anche innocuo.

    «Si è fermata di colpo e non riesco a farla ripartire» rispose.

    Gli puntò il fascio di luce in faccia e lui sorrise con cordialità.

    «Vediamo...» mormorò, incoraggiante.

    Si piegò e armeggiò per un po' con i fili, poi tirò due cinghie e controllò un paio di tubicini.

    «Perché non sale in macchina, signorina, così proviamo a vedere se parte?»

    Katie annuì, si mise al posto di guida e posò la mano sulla chiavetta dell'accensione.

    «Va bene, metta in moto!» gridò lui.

    Lei girò la chiave, senza che succedesse nulla.

    «Ancora» la esortò lui, con la voce attutita dal cofano che gli riparava il volto.

    Lei riprovò, ma anche stavolta senza successo. L'uomo si avvicinò allo sportello aperto, pulendosi le mani sui jeans.

    «Secondo me è la batteria» sentenziò. «È a terra e non c'è verso di farla ripartire, almeno non per stasera. Ci vuole un meccanico con i cavi.»

    Quella era una pessima notizia, pensò Katie. Non ci voleva proprio. Anche se non doveva pagare l'affitto di un appartamento, doveva stare attenta ai soldi e tenerli da parte per le spese necessarie.

    L'uomo si piegò per guardarla negli occhi. «Se non deve andare molto lontano, posso darle un passaggio» si offrì.

    Katie rammentò ancora gli avvertimenti del padre. Quante volte le aveva ripetuto di non salire mai e poi mai sulla macchina di un estraneo?

    «Veramente...» cominciò, titubante.

    Lui le sorrise di nuovo in modo rassicurante, per farle capire che comprendeva perfettamente la sua riluttanza. «Anche i miei mi facevano una testa così sul dare confidenza agli sconosciuti» commentò con fare complice. «Avevano ragione, in effetti. Le strade non sono affatto sicure per una ragazza della sua età.»

    Fece una pausa eloquente, e nonostante la sua spavalderia Katie non poté fare a meno di rabbrividire per il quadro inquietante che le era apparso in mente a quelle parole.

    «Non posso andarmene e lasciarla qui, signorina» insistette lui. «Se le succedesse qualcosa di brutto, mi sentirei responsabile.»

    Katie esitò, si guardò intorno, controllando la strada deserta da una parte e dall'altra. Alla fine capitolò. «Va bene, grazie» acconsentì.

    Prese la borsetta e chiuse bene le portiere della Datsun, abbassando le sicure. Dentro c'era tutto quello che possedeva: i vestiti, la valigetta con colori e pennelli, il diario e tutte le carabattole che non aveva avuto il cuore di lasciare a casa.

    «Dobbiamo chiamare il carro attrezzi» le disse lui mentre Katie si accomodava all'interno dell'abitacolo accogliente dell'auto. «È in zona di rimozione forzata. Se la lasciamo qui, la polizia la farà portare via e le costerà una fortuna riprenderla.»

    A disagio per l'improvvisa intimità creata dall'ambiente ristretto, Katie tossicchiò nervosamente. «Grazie.» Si guardò intorno e fece scorrere le dita lungo il bordo del cruscotto. «Bella macchina. È nuova?»

    «Quasi, ma mi piace tenerla bene. Sono un vero maniaco» ridacchiò lui. «La lavo e do la cera alla carrozzeria ogni sabato. Passo anche l'aspirapolvere all'interno.»

    Katie fece un sorrisetto di cortesia e distolse lo sguardo, fissando le luci della città fuori del finestrino.

    «Dove la porto?» le chiese l'uomo.

    «All'Accademia di Belle Arti.» Katie tornò a voltarsi verso di lui e gli lanciò un'occhiata esitante, mordendosi il labbro inferiore. Nell'oscurità dell'abitacolo, il suo profilo era indistinto, avvolto dalle ombre. «Sa dov'è?»

    Lui lanciò una rapida occhiata allo specchietto retrovisore, mise la freccia, poi svoltò. «Certo» confermò. «Studia arte?»

    Sentendosi tanto adulta, Katie annuì. «Inizierò i corsi a settembre, all'apertura dell'anno accademico.»

    «Ho visto la targa del North Dakota» osservò lui. «È la prima volta che viene a Boston?»

    «Sì» ammise lei, infastidita di dover confessare quanto fosse provinciale. «Non sono mai stata via da casa prima d'ora.»

    «Immagino che i suoi genitori siano molto orgogliosi del fatto che vada all'università.»

    «Veramente non erano contenti che andassi tanto lontano, soprattutto perché non conosco nessuno qui» gli confidò lei. «Però io sono felice. Sono abbastanza grande per vivere da sola» dichiarò, baldanzosa.

    «Direi» confermò lui. «Quanti anni ha? Venticinque?»

    Sorpresa, Katie lo fissò a bocca aperta. «Sembro davvero così grande?»

    «Certo. Ha un'aria adulta, molto sofisticata. Dimostra venticinque, ventisei anni a prima vista. Perché, quanti ne ha?»

    «Diciotto.»

    Lui le lanciò una breve occhiata stupita. «No! È impossibile!» esclamò.

    Katie abbozzò una risatina compiaciuta. «Sì, davvero» insistette annuendo con vigore.

    Lusingata per essergli sembrata più matura, raddrizzò le spalle e guardò fuori del finestrino. Quando vide che passavano davanti a un vecchio edificio di mattoni con i vetri rotti e i graffiti sui muri, una morsa d'ansia le serrò lo stomaco.

    «È sicuro che stiamo andando bene da questa parte?» gli chiese, nervosa. «Mi sembra un posto un po'...»

    «Tranquilla, è solo una scorciatoia» la interruppe lui. Passarono davanti a un magazzino abbandonato, con il piazzale recintato da una rete metallica. L'immondizia strabordava da un vecchio cassonetto arrugginito e Katie vide un'ombra scura e pelosa schizzare via al loro passaggio.

    «Forse sarà meglio che mi lasci qui» mormorò intimidita, con un brivido.

    «Da queste parti?» rise lui. «Se la faccio scendere, domani mattina la dovranno ripescare nelle acque del porto!»

    Le mani di Katie si serrarono sulla borsetta, in cui teneva tutti i suoi averi. Nonostante il suo sorriso rassicurante, l'uomo aveva qualcosa d'inquietante. Sperando ardentemente che non avesse intenzione di derubarla, si disse che la volta successiva avrebbe seguito i consigli di suo padre.

    L'uomo svoltò rapidamente, girando dietro l'angolo del deposito, e si fermò. In lontananza, oltre la recinzione e le erbacce, Katie vedeva ancora le luci del centro.

    «Cosa fa?»

    Invece di risponderle, l'uomo aprì il cassettino del cruscotto e tirò fuori una sciarpa di seta scarlatta. La tinta la fece pensare immediatamente al sangue.

    Katie si rannicchiò verso la portiera, allontanandosi da lui. «Ora vado» mormorò.

    Il suo sorriso inquietante, nell'ombra, le sembrò un ghigno diabolico. «Penso proprio di no.»

    Katie cercò a tastoni la maniglia, ma invano, mentre lui le passava la sciarpa intorno al collo e la stringeva forte. L'adrenalina le percorse le vene in un'ondata improvvisa. Terrorizzata, lei si portò le mani al collo e si sforzò di allontanare le braccia dell'uomo, inamovibili come due sbarre di ferro. Affondò le dita nella lana leggera e morbida del maglione, annaspò in cerca d'aria. I polmoni reclamavano ossigeno e la vista le si era offuscata. I contorni degli oggetti avevano un alone rosato e indistinto. L'uomo era fortissimo e Katie non riusciva a smuoverlo di un dito.

    «Non opporti, tesoro» le sussurrò lui, amorevole, con il respiro affrettato, ansante. «Ti aspettavo da tanto.»

    Katie strinse la mano a pugno e lo colpì alla tempia con tutta la sua forza. Lui imprecò tra i denti, mollò la presa sulla sciarpa e le serrò la gola con le mani. Dibattendosi invano e boccheggiando come un pesce caduto a terra da un acquario rotto, si sforzò di combattere l'oscurità che le stava penetrando nel cervello, aggrappandosi tenacemente agli ultimi barlumi di lucidità.

    Pensò a sua madre, una vigorosa donna di casa che aveva fatto sacrifici per anni per mandare la sua unica figlia all'Accademia di Belle Arti, a duemilacinquecento chilometri da casa.

    Pensò a suo padre, che aveva lavorato sodo nel ranch di famiglia per mantenere i suoi cari.

    Pensò al fratello maggiore, Kenny, la persona che in assoluto amava più di tutte al mondo.

    Pensò a Misty, il suo cavallo, il primo che avesse mai montato, e alle lunghe galoppate che aveva fatto sulla sua groppa. Niente la faceva sentire più libera e felice.

    Pensò a Rory, il suo cagnolino, che con rammarico era stata costretta a lasciare a casa perché i suoi genitori le avevano proibito di portarlo con sé nella sua avventura bostoniana.

    Mi dispiace tanto, mamma...

    Aprì gli occhi di colpo e guardò in faccia il viso della pazzia.

    Dietro le spalle dell'uomo, in lontananza, le lucine di Boston tremolarono, ammiccarono un'ultima volta e si offuscarono man mano che il suo cervello privato d'ossigeno perdeva la lucidità.

    Ormai fuori dal corpo e troppo debole per lottare contro la morte, Katie rimase ad aleggiare su una nuvola d'argento, soffice e impalpabile, finché anche l'argento si tramutò in un'oscurità assoluta, totale.

    E la diciottenne Katie Ann Perry, venuta a Boston per lasciare il segno nel mondo dell'arte, si dissolse nella notte.

    1

    Quello sarebbe stato il suo ultimo caso in assoluto.

    Avrebbe impiegato meno tempo ad andare da Quantico a Boston in aereo, ovviamente, ma a Carolyn Monahan piaceva guidare e la sua macchina sportiva rossa divorava i chilometri come noccioline. Inoltre le ore solitarie passate al volante le avrebbero dato modo di rimuginare sulla matassa intricata che era diventata la sua vita. Di pasticci ne aveva fatti parecchi, non c'era che dire. In cima alla lista doveva sicuramente mettere le sue imminenti dimissioni dall'FBI, seguite dalla rottura del suo rapporto con Richard.

    Avere una relazione con il suo capo era stata una vera e propria idiozia. Carolyn era abbastanza adulta da sapere che non avrebbe dovuto lasciarsi raggirare dalle bugie in confezione regalo snocciolate da un dongiovanni come Richard Armitage. Invece era caduta nella trappola di quel verme. Si era fatta incantare dalla sua dentatura candida e dai suoi penetranti occhi blu. Aveva creduto alle classiche storie sulla moglie che non amava più e che avrebbe lasciato appena i bambini fossero cresciuti. Ci era cascata in pieno, almeno fino al momento in cui l'aveva visto entrare in un bar con la diciannovenne Brandy Warner abbarbicata al suo braccio.

    A trentadue anni, Carolyn era riuscita in pieno a diventare uno stereotipo, il perfetto cliché della sfortunata da compatire e di cui spettegolare, l'altra da manuale che si era innamorata di un uomo sposato invece di trovarsene uno libero con cui metter su famiglia e vivere per sempre felice e contenta.

    Richard l'aveva implorata di non lasciare l'FBI. Le aveva ricordato i suoi successi professionali accumulati in sette anni di lavoro zelante, aveva sottolineato la stima di cui godeva nelle alte sfere, rammentandole che i suoi superiori, compreso il direttore generale, si sprecavano in elogi ogni volta che veniva citato il nome di Carolyn Monahan. Per darle il colpo finale, l'aveva avvertita che dimettersi sarebbe stato deleterio per la sua carriera, praticamente un suicidio professionale.

    Però neanche una volta, neppure di sfuggita, l'aveva pregata di riflettere sulla sua decisione di porre fine alla loro storia.

    Perciò Carolyn era libera come l'aria, libera di voltare pagina e cominciare una nuova vita non appena avesse concluso quel caso. Abbassò il finestrino e lasciò che il vento le spettinasse i capelli biondi, che portava lunghi perché Richard le aveva detto che così erano più sexy. Alla radio venne annunciato un brano dei Rolling Stones e Carolyn alzò il volume, cantando a squarciagola con Mick Jagger e premendo sull'acceleratore.

    Sparata a centosessanta chilometri all'ora verso casa, giunse ben presto in vista di Boston. La sagoma familiare dei grattacieli l'accolse come un comitato di benvenuto composto da vecchi amici. Non vi metteva piede da quattro anni, ma Boston era sempre la stessa. Richard l'aveva scelta per quell'incarico perché conosceva bene la città e lei aveva accettato perché la missione le offriva una provvidenziale scappatoia per andarsene da Quantico, dove le toccava vedere la sua faccia da bellimbusto ogni giorno. Però tornare a casa era difficile.

    Prima della morte di sua sorella, Carolyn non era al primo posto della classifica di gradimento di sua madre e, dopo la scomparsa di Meg, il loro rapporto si era gradualmente deteriorato fino ad arrivare a uno stato di distaccato e imbarazzato armistizio. Quando era andata via da Boston, Carolyn era scappata con la ferma intenzione di scrollarsi di dosso le sue origini operaie. E invece eccola lì sulla strada di casa, come un piccione viaggiatore che rientra nella sua gabbia.

    Prese l'uscita del raccordo che portava in centro. Il traffico era infernale, grazie al nuovo piano urbanistico che aveva stravolto i sensi di marcia della circolazione, causando un perenne imbottigliamento in città. L'auto sportiva arrancò di semaforo in semaforo, seguendo un percorso obbligato che le fece attraversare un dedalo di strade strette in un folle giro vizioso. La deviazione le fece perdere venti minuti buoni ed erano quasi le tre e mezzo quando riuscì infine a parcheggiare al quinto piano di un garage vicino al Municipio, dove la squadra investigativa aveva stabilito provvisoriamente il suo quartier generale per tutta la durata delle indagini.

    Era al volante dall'alba e sentiva i muscoli indolenziti e il collo rigido, ma a parte questo aveva la mente sveglia e lucida, pronta ad affrontare il caso e a mettersi subito al lavoro. Scesa dalla macchina, si stirò, mosse braccia e gambe per riattivare la circolazione, si lisciò la gonna del completo grigio e si piegò all'interno dell'abitacolo per prendere la valigetta portadocumenti.

    Al Municipio, cercò il primo bagno per signore che le capitò a tiro e si diede una rinfrescata, poi chiese indicazioni per raggiungere gli uffici assegnati alla sua squadra e salì al quarto piano di quello che indiscutibilmente era il più brutto palazzo di tutta Boston.

    Il suo ufficio era caotico e operoso come un alveare, con i telefoni che squillavano, il ticchettio delle tastiere dei computer e ogni centimetro di spazio disponibile occupato da cartelle, fogli, piantine e grafici. Carolyn si sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, poi si diresse con piglio deciso verso la scrivania della segretaria e le mostrò il distintivo.

    «Agente speciale Monahan» si presentò. «Devo vedere il capitano Shaughnessey. Mi sta aspettando.»

    La ragazza si rabbuiò un istante. «Purtroppo no, non la sta aspettando» rettificò. «È all'ospedale, nel reparto di cardiologia. Ieri sera ha avuto un attacco di cuore. Ha fatto prendere a tutti una bella paura.»

    Non era un inizio di buon auspicio, pensò Carolyn in un fuggevole istante d'egoismo. «Mi dispiace. Chi conduce le indagini ora?»

    «Il tenente Rafferty.»

    Carolyn ebbe un tuffo al cuore. Non poteva essere. Boston era una grande città; dovevano esserci almeno venti Rafferty in polizia. Non poteva essere lui, si ripeté. Dio non avrebbe mai potuto essere così crudele con lei, neanche per punirla per la sua debolezza con Richard. Sarebbe stata una punizione del tutto spropositata.

    Imbarazzata, si schiarì la voce. «E come si chiama di nome il tenente Rafferty?» s'informò con apparente disinvoltura.

    La segretaria le lanciò un'occhiata eloquente. «Conor» rispose, nascondendo a fatica un sorrisetto malizioso. «Perché, lo conosce?» le chiese con fare innocente.

    Carolyn fece una smorfia e chiuse gli occhi per un breve istante. Era tutta colpa della sua sfortuna, pensò. Accidenti a Richard Armitage e all'FBI al completo per averla messa in quella situazione sgradevole.

    «Sì, lo conosco» si decise infine a rispondere in tono cupo.

    «Bene, allora non devo presentarvi» concluse la segretaria. «Prenda il corridoio, prima porta a sinistra» le indicò, stendendo il braccio.

    Carolyn si diresse verso l'ufficio con trepidazione e si fermò sulla soglia. Conor era girato di spalle ed era intento a parlare al telefono. Lei non poteva vederlo in faccia, ma ne conosceva i lineamenti alla perfezione. Grazie alle sue origini irlandesi, aveva capelli corvini, occhi verdissimi e un corpo che le aveva fatto perdere la testa durante la torrida estate di dieci anni prima. Anche se non lo vedeva da allora, ricordava ancora nei minimi particolari il suo profumo virile, il sapore della sua pelle, la sensazione delle sue dita che scivolavano sul suo corpo. Quando era andata via per sempre da Boston, Conor era stato uno dei principali motivi che l'avevano indotta alla fuga.

    Posò la valigetta sulla scrivania e si avvicinò alla bacheca su cui erano appuntate le foto delle vittime. Le guardò con attenzione a una a una, abbinando i volti ai nomi che aveva già memorizzato: Anna Magnusson, Becky Shields, Lindsay Helms, Katie Ann Perry.

    Erano quattro vittime, quattro belle ragazze morte in maniera crudele e insensata. Tutte si rassomigliavano in modo sorprendente. Il maniaco le aveva scelte con cura per la loro corrispondenza con il tipo fisico da cui evidentemente era ossessionato. Erano tutte giovani e di bassa statura, bionde, belle e con gli occhi azzurri. Erano state strangolate e violentate; il corpo era stato ritrovato con addosso solo le mutandine, un unico orecchino e una sciarpa di seta al collo.

    Carolyn aveva intrapreso quella professione a causa di Meg, perché in lei ardeva l'esigenza di dare un senso alla morte di sua sorella. Però non aveva mai pensato di cambiare reparto perché le facce delle vittime si erano impresse indelebilmente nella sua mente. Avrebbe potuto ripetere a memoria, con esattezza, tutti i particolari delle loro uccisioni, dalla prima all'ultima. I loro occhi la seguivano sempre, turbavano il suo sonno e le davano una forte motivazione per andare avanti.

    «È un malato» disse Rafferty dietro di lei. «Un maledetto bastardo.»

    Carolyn non l'aveva neanche sentito riagganciare il microfono. Fece un respiro profondo, cancellò dal viso ogni espressione e si girò.

    Nei dieci anni trascorsi dall'ultima volta in cui l'aveva visto, Conor era maturato molto. Il suo viso non era invecchiato, in compenso era diventato più adulto, più virile e interessante. Ora c'erano delle sottili rughe che s'irradiavano ai lati dei suoi occhi verdissimi, che avevano ancora la stessa espressione cordiale, lo stesso calore intenso e profondo, incorniciati da sopracciglia dritte e scure.

    Il ragazzo scapestrato che era stato un tempo ora era sparito, ma l'uomo di trentaquattro anni che l'aveva sostituito non era da meno.

    «Congratulazioni» commentò. «Ho saputo che ora sei tenente.»

    «Grazie» rispose lui, sbrigativo. «Sappi che è stata un'idea di Shaughnessey quella di chiamare i Federali. Personalmente non nutro molta fiducia in tutte le vostre teorie psicologiche. Però sono stato messo in minoranza e nessuno mi ha dato retta, per cui sei libera di accomodarti e praticare le tue arti magiche. L'unica cosa che ti chiedo è di non starmi tra i piedi mentre ti dedichi alla stregoneria, perché io ho il mio bel daffare a cercare di trovare il maniaco.»

    Carolyn gli rivolse un sorriso stentato. «Finora non sembra che tu abbia avuto molta fortuna» commentò, acida.

    «Ho precisi ordini di darti la mia piena collaborazione, Carolyn, perciò vedi di decidere da dove vuoi cominciare» replicò lui seccamente, come se non l'avesse neanche sentita.

    Conor non aveva alcuna voglia di fare conversazione, pensò Carolyn. Non ci sarebbero state reminiscenze dei vecchi tempi. Per lei andava benissimo, si disse con durezza. Era lì per portare a termine una missione ben precisa, non per lasciarsi andare ai sentimentalismi sui suoi vent'anni.

    «Per prima cosa vorrei che riunissi i tuoi collaboratori perché ho bisogno di parlare con loro. Non ci vorrà molto» attaccò con atteggiamento efficiente. «Poi vorrei vedere i luoghi di ritrovamento delle vittime» aggiunse dopo aver lanciato un'occhiata all'orologio.

    In pochi minuti Conor radunò una decina di persone in una piccola sala riunioni. Carolyn prese posto sulla pedana dell'oratore, dietro il leggio, con lo stomaco stretto dalla morsa d'ansia che l'attanagliava sempre quando doveva parlare in pubblico. Passò in rassegna i visi dei presenti, avvertendo chiaramente la sfiducia e l'ostilità che serpeggiavano tra gli agenti. Ormai ci era abituata. I poliziotti accoglievano sempre con risentimento la collaborazione dell'FBI, perché ritenevano che i Federali s'intromettessero indebitamente nelle indagini, mettendo loro i bastoni fra le ruote. Nessuno considerava il fatto che Carolyn fosse lì perché era stata chiamata a cooperare con la polizia. Il fatto che fosse donna, bionda e carina non l'aiutava affatto a guadagnare punti nella stima degli agenti. Come donna che lavorava in un ambiente tipicamente maschile, sin dal primo giorno d'accademia Carolyn aveva dovuto lottare per superare quelli che considerava degli handicap, costruendosi mattone su mattone una solida reputazione di donna determinata. Il fatto che detenesse il record al poligono di tiro, tra tutti gli allievi del suo anno, l'aveva aiutata a salire di un gradino.

    Non far vedere che hai paura, si disse. Era la prima cosa che aveva imparato al corso di oratoria all'università. Se avessero visto che era terrorizzata e aveva timore di fare brutta impressione, l'avrebbero divorata viva. Ma Carolyn Monahan era un osso duro e indigesto, e ci teneva a dimostrarlo.

    Sforzandosi d'ignorare la nausea, strinse forte il bordo del leggio, irrigidì le gambe per impedire alle ginocchia di tremare e raddrizzò la schiena, tenendo le spalle ben dritte come aveva imparato dalle suore a catechismo.

    «Scusate, un attimo d'attenzione, prego» esordì dopo aver fatto due colpetti di tosse. «Salve a tutti, sono l'agente speciale Carolyn Monahan, dell'FBI. Potete chiamarmi solo Monahan.»

    Si concesse una pausa e guardò le facce dei presenti. Le espressioni variavano dalla noia all'ostilità.

    «Sarò breve» riprese in tono pragmatico. «Non sono qui per tartassarvi né per rubarvi la gloria o per giocare al burattinaio e gestire la baracca. Il tenente Rafferty condurrà le indagini e io sono qui esclusivamente come consulente. Non è il mio lavoro acciuffare il maniaco. Il mio lavoro è tracciare un profilo della personalità di chi, con tutta probabilità, può aver commesso questo particolare reato, in modo che voi possiate restringere la rosa dei sospetti e individuare il colpevole. Identificare i sospetti è compito vostro. Spero che sia chiaro a tutti che siamo qui riuniti per lo stesso motivo, cioè per far sì che quello che è successo a quelle povere quattro ragazze non si ripeta. Ora che abbiamo messo le carte in tavola e stabilito le regole base del nostro lavoro insieme, mettiamoci d'impegno per collaborare a inchiodare quell'animale e impedirgli di commettere altri omicidi. Grazie.»

    Carolyn scese dal predellino e fu presentata ai principali collaboratori di Conor, di cui memorizzò rapidamente nome e volto, oltre alla propria

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