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Graffio sull'anima (eLit): eLit
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Graffio sull'anima (eLit): eLit

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Shifters - Vol. 5 - Quando il gioco si fa duro...

Il momento che Faythe temeva è giunto, la guerra tra clan è scoppiata e i nemici della sua famiglia, giocando più sporco che mai, hanno coinvolto nel conflitto una nuova, pericolosa specie di mutaforma. Come se non bastasse, la tensione tra Marc e Jace è alle stelle, e lei sa che prima o poi dovrà prendere una decisione. E che non sarà facile. Tanto più che per salvare il clan centromeridionale dalla nuova minaccia Faythe avrà bisogno dell'appoggio di entrambi.



Titoli della serie:

1) Il graffio della pantera

2) Il graffio della notte

3) Graffio sulla pelle

4) Graffio assassino

5) Graffio sull'anima

6) L'ultimo graffio
LanguageItaliano
Release dateJun 30, 2016
ISBN9788858956670
Graffio sull'anima (eLit): eLit

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    Graffio sull'anima (eLit) - Rachel Vincent

    successivo.

    1

    «Dovresti andartene. Adesso.» Il ringhio ammonitore di mio padre echeggiò in una parte oscura e primordiale di me stessa e all'improvviso desiderai carne straziata e sangue fresco, scintillante sotto la luce della luna. Un'ondata dopo l'altra, la sete di sangue mi investì con forza tale che faticai a mantenere il controllo. Avremmo ottenuto giustizia per Ethan, ma quello non era il momento né il posto adatto.

    La rabbia che emanava da me e dai miei colleghi vigilantes era quasi tangibile, ma Paul Blackwell, presidente pro tempore del consiglio territoriale, sembrava non avvertirla. Lo osservai da dove mi trovavo, accanto alla porta dello studio di mio padre, con le braccia incrociate sul petto, quello destro ancora ingessato.

    Blackwell piantò sul tappeto orientale l'antiquato bastone di legno e vi si appoggiò con entrambe le mani. «Suvvia, Greg, cerca di calmarti... Ti sto solo chiedendo di pensare al bene superiore, che è esattamente ciò che dichiari di voler onorare se tornerai a dirigere il consiglio.»

    Sfortunatamente quella possibilità sembrava di giorno in giorno più remota. Nella settimana successiva al funerale di mio fratello, Nick Davidson aveva annunciato che avrebbe sostenuto la candidatura di Calvin Malone a presidente del consiglio territoriale, il che significava che a mio padre serviva l'ultimo voto rimasto – quello di Jerold Pierce, padre del mio collega Parker – solo per essere in parità.

    Ma la parità non bastava, avevamo bisogno di una vittoria schiacciante.

    Mio padre sedeva sulla sua poltrona e il rifiuto di alzarsi sarebbe potuto sembrare, in superficie, un'inconsueta mancanza di rispetto nei confronti di un altro Alpha. Ma io lo conoscevo abbastanza per intuire la verità: se si fosse alzato, avrebbe potuto perdere la pazienza. «Mi stai chiedendo di rinunciare a vendicare l'assassinio di mio figlio.» La sua voce era più bassa e minacciosa di quanto l'avessi mai sentita, e giuro che me la sentii riverberare nelle ossa: quel rombo cupo faceva eco al dolore che mi straziava il cuore.

    «Ti sto chiedendo di non scatenare una guerra.» Blackwell rimase calmo e immobile, atteggiamento che immagino mettesse a dura prova il suo autocontrollo, dal momento che mio padre era relativamente più giovane e robusto di lui. E a dir poco furioso. Pur avendo superato abbondantemente i cinquant'anni, Greg Sanders, Alpha del clan centromeridionale nonché mio padre, era dotato di una forza formidabile.

    Papà ringhiò di nuovo. «È stato Calvin Malone a cominciare, lo sai maledettamente bene.»

    Blackwell si guardò intorno sospirando, e mentre il suo sguardo stanco si posava sugli altri tre Alpha seduti vicino al mobile bar e sui vigilantes allineati lungo le pareti, ebbi la netta impressione che avrebbe preferito trovarsi solo con mio padre.

    Gli altri Alpha, ciascuno accompagnato da due vigilantes, erano arrivati quella mattina per un'ultima riunione strategica prima che il clan centromeridionale e i nostri alleati sferrassero la prima offensiva di mutaforma su larga scala che gli Stati Uniti avessero visto negli ultimi sessant'anni. Era sabato, l'attacco era previsto di lì a tre giorni. L'impazienza vibrava nell'aria intorno a noi, mi crepitava nelle orecchie come elettricità statica e mi pulsava nel sangue come una passione insopprimibile.

    A tutti noi sembrava già di sentire i colpi che avremmo sferrato. Assaporavamo il sangue e immaginavamo le grida che presto avrebbero lacerato quella silenziosa e fredda notte di febbraio. Vivevamo della promessa di violenza in cambio di violenza, e molti dei maschi intorno a me erano carichi come bombe a orologeria e cavalcavano l'adrenalina come la cresta di un'onda letale.

    Blackwell doveva aver capito che la sua missione era destinata a fallire non appena aveva messo piede in casa nostra.

    Aspettavamo i nostri alleati, ma l'arrivo del presidente ad interim era stato una sorpresa. Poco dopo pranzo, si era presentato a casa nostra su un'auto a noleggio guidata dal nipote, un bastone nella mano grinzosa, il passo determinato. Ma tutto ciò non sarebbe stato sufficiente, come non lo sarebbe stata l'autorità del consiglio territoriale di cui si fregiava come di una medaglia al valore. O, per meglio dire, una medaglia al disonore, dal momento che al suo arrivo era presente quasi metà dei membri del consiglio e che nessuno era parso lieto di vederlo.

    Blackwell strofinò un piede sul tappeto e chiuse gli occhi, come se stesse raccogliendo i pensieri, poi il suo sguardo severo si fissò di nuovo su mio padre. «Greg, nessuno è contento per quello che è successo a Ethan, men che meno io. Calvin ha ricevuto un richiamo formale e i vigilantes coinvolti...» Quelli sopravvissuti, presumibilmente. «... sono stati sospesi a tempo indeterminato dal servizio, nell'attesa che sia svolta un'indagine.»

    «Chi si occupa dell'indagine?» domandò mio zio Rick dalla parte opposta dello studio, con un bicchiere di brandy in mano. «E chi chiamerete come testimoni? Credi davvero che il consiglio sia in grado di amministrare la giustizia, o di essere imparziale, in questo momento?»

    Blackwell si voltò con una certa goffaggine verso il fratello maggiore di mia madre. «In tutta sincerità, penso che il consiglio in questo momento sia a dir poco un disastro. Ma abbandonare l'ordine che ci contraddistingue non servirà a riparare le crepe che si sono aperte nelle nostre fondamenta.» Poi si rivolse ancora a mio padre. «Per fortuna mi sembra di capire che ti sei occupato personalmente del colpevole.»

    Mio padre aveva squarciato la gola dell'assassino di Ethan ancor prima che mio fratello esalasse il suo ultimo respiro e il suo cadavere era stato smaltito nell'inceneritore industriale dietro il nostro fienile, le sue ceneri sparse a terra senza alcuna cerimonia a svariati metri di distanza dalla fornace e poi calpestate nella polvere.

    Ma quel piccolo gesto di spregio non era servito a saziare la sete di vendetta che consumava tutti noi.

    «Calvin Malone è il vero responsabile della morte di Ethan e pagherà per ciò che ha fatto.» Le parole di mio padre erano gelide, come se lui non percepisse alcuna emozione, ma, accanto a me, le mani di Marc si serrarono a pugno lungo i fianchi e Jace si irrigidì alla mia sinistra. Dal divano Michael annuì, cupo. Eravamo pronti. La vendetta aveva atteso già fin troppo.

    «Il consiglio ha intrapreso un'azione ufficiale sulla questione» continuò Blackwell. «So che non ne sei soddisfatto, è comprensibile, ma se attacchi Malone dopo che lui ha accettato il richiamo, sarai stato tu a sferrare il primo colpo.»

    «Siamo forse bambini che si palleggiano le responsabilità?» Mio padre si alzò dalla poltrona e Blackwell dovette sollevare lo sguardo per affrontare la sua furia. «Sei così concentrato su chi è in errore, da perdere di vista il quadro generale? Calvin Malone è fuori controllo, e se il consiglio non è in grado di gestirlo ci penseremo noi

    Dall'altra parte dello studio, zio Rick, Ed Taylor e Umberto Di Carlo annuirono, solidali. Avevano assicurato a mio padre il loro sostegno e offerto i loro uomini affinché combattessero al nostro fianco.

    «Io mi preoccupo proprio del quadro generale.» Blackwell rimase immobile quando mio padre gli si avvicinò, minaccioso. «Stai parlando di una guerra civile. Come potrebbe giovare al bene comune?» Abbassò lo sguardo sul bastone, ma quando lo rialzò raddrizzò anche la schiena, deciso. «I miei occhi possono essere vecchi e deboli, Greg, ma vedo molto chiaramente. I clan degli Stati Uniti non possono permettersi una guerra.»

    Mio padre sostenne il suo sguardo. «Non possono nemmeno permettersi di essere guidati da Calvin Malone.» Oltrepassò l'anziano Alpha e accettò il bicchiere che suo cognato gli porgeva, sorseggiando il liquore mentre Blackwell si voltava lentamente, guardandosi in giro.

    Infine lo sguardo del presidente del consiglio si posò su mia madre, che sedeva con la schiena diritta su una poltrona di pelle in un angolo, seminascosta nell'ombra. Prima che io nascessi, era stata un membro del consiglio, ma in vita mia non ricordavo di averla mai vista prendere parte attiva alle sue attività. Ciononostante, nessuno aveva obiettato quando aveva seguito il nostro ospite inatteso nello studio.

    «Karen...» disse Blackwell, e l'ironia di quell'appello mi irritò come se mi stessero accarezzando contropelo. Per quel vecchio il concetto di uguaglianza tra i sessi era del tutto inesistente, eppure aveva la faccia tosta di chiedere sostegno a mia madre nella sua stessa casa. «Manderesti davvero i tuoi figli a morire in guerra, se si potesse evitare?»

    Gli occhi di mia madre lampeggiarono di rabbia e il respiro mi si mozzò in gola. Si alzò lentamente e tutti i volti dei presenti in sala si rivolsero verso di lei. «In caso non lo avessi notato, Paul, non ho bisogno di mandare i miei figli in guerra per vederli morire. Meno di due settimane fa, Ethan è stato assassinato nel nostro territorio, come risultato di un'azione che tu stesso hai approvato.» Avanzò, le braccia incrociate sul petto, e in quel momento la somiglianza tra me e mia madre mi turbò. «Eppure hai il coraggio di presentarti qui, in casa mia, a chiedermi di prendere posizione contro la giustizia che la sua morte merita? Di sostenere un presidente del consiglio che rappresenta tutto ciò che più mi ripugna? Sei ancora più stolto di Malone.»

    Blackwell la fissò, sbalordito, e io riuscii a stento a nascondere il piccolo fremito di soddisfazione.

    Mia madre, tuttavia, non aveva ancora finito. «Inoltre, se Calvin Malone dovesse assumere il controllo del consiglio, lo status quo precipiterebbe a livelli infimi. Cosa ti fa pensare che io possa volere che lui, o tu, o qualunque altro uomo, possa dire a mia figlia quando e chi dovrebbe sposare e quanti figli dovrebbe avere? Certo, voglio vedere Faythe sposata...» Mi scoccò una rapida occhiata. «... ma perché vedo in lei – a volte profondamente nascosta dentro di lei – la medesima, feroce vena protettiva che io nutro nei confronti dei miei figli. E perché voglio vederla felice. Questo è il diritto di una madre, non il tuo. E nessuno qui è disposto a credere che tu abbia davvero a cuore la sua felicità.»

    «Karen...» riprovò Blackwell, ma lei scosse il capo, decisa.

    Spostai il peso del corpo sui piedi, combattuta tra l'imbarazzo e l'orgoglio, senza distogliere l'attenzione da mia madre e dalla sua maschera di porcellana di furia e indignazione. «Ascoltami bene, perché non intendo ripeterlo.» Avanzò di un passo, puntandogli un dito contro. I brividi mi scesero lungo le braccia. «Non confondere il mio carattere tranquillo e il mio contributo alla prossima generazione con docilità o debolezza. È proprio quell'istinto materno al quale hai cercato di appellarti che alimenta la mia necessità di vendetta per mio figlio. Una necessità che, te l'assicuro, è forte e impellente quanto quella di mio marito. Ora» continuò, fissando l'esterrefatto Blackwell con freddezza, «sei il benvenuto qui, come ospite. Ma se osi insultare ancora me o qualunque altro membro della mia famiglia, ti accompagnerò personalmente all'uscita.»

    Ciò detto, mia madre si sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio e si diresse con passo deciso verso la porta, lasciando tutti noi a fissarla attoniti. Eccetto mio padre: la sua espressione brillava di un orgoglio tanto feroce, che se non fosse stato ancora in lutto per la morte di suo figlio sono certa avrebbe proposto un brindisi. Il silenzio calò nello studio, interrotto solo dal ticchettio dei tacchi bassi di mia madre sul parquet. Senza voltarsi né guardare nessuno negli occhi, aprì la porta... e rischiò di andare a sbattere contro una ragazzina minuta.

    «Kaci, che c'è?» Mia madre le posò la mano sulla spalla e la allontanò dallo studio, immaginando che fosse stata in procinto di bussare. Io, invece, sapevo benissimo che Kaci non aveva alcuna intenzione di farlo: stava origliando.

    O, per meglio dire, stava cercando di origliare. Avrei potuto dirle, per esperienza personale, che non avrebbe avuto molta fortuna. La porta dello studio era di massiccio legno di quercia, e sotto il cartongesso le pareti erano di cemento armato, senza finestre. Benché quelle caratteristiche non insonorizzassero del tutto la stanza, rendevano quasi impossibile capire le singole parole pronunciate al suo interno. Anche per l'udito potenziato di una pantera.

    «Io...» Kaci esitò, guardandomi in cerca di aiuto. Io mi limitai a sorriderle, lieta di vedere qualcun altro alle corde, tanto per cambiare. «State parlando di me, vero? Se è così, ho il diritto di sapere...»

    Mia madre sorrise. «Il tuo nome non è stato menzionato.»

    Per il momento. Ma ora che Blackwell si era visto chiudere in faccia la porta sul difficile fronte della pace, non avevo alcun dubbio che avrebbe cominciato con Kaci. Calvin Malone desiderava disperatamente sistemarla in un clan che sostenesse la sua candidatura alla presidenza. Possibilmente nel suo. Infatti, Ethan era morto difendendo Kaci dal tentativo di portarla via dal nostro ranch nel Texas orientale con la forza.

    E Kaci lo sapeva perfettamente.

    «Allora che sta succedendo? È per Ethan?» Le tremò il mento mentre parlava e il suo sguardo guizzò da un volto all'altro, in cerca di una risposta, spezzandomi il cuore ancora una volta.

    Kaci si era affezionata a Ethan e Jace più che a tutti gli altri maschi e, benché lo conoscesse da meno di tre mesi, soffriva quanto tutti noi per la morte di mio fratello. Forse anche di più. A tredici anni, quella ragazzina sapeva già troppo della morte e aveva ricevuto troppo pochi consigli disinteressati. In più, oltre al dolore e alla rabbia che tutti noi provavamo, lei si sentiva anche in colpa, perché Ethan era morto per difenderla.

    «Andiamo, Kaci. Ti preparo uno spuntino.» Mia madre cercò di allontanarla dallo studio, ma lei si sottrasse al tocco della sua mano.

    «Non ho fame. E sono stanca di essere lasciata fuori. Mi tenete confinata qui nel ranch, ma non mi volete dire che cosa succede nella mia stessa casa? Vi sembra giusto?»

    Sospirai guardando i presenti. Detestavo l'idea di perdermi il resto della discussione, ma Ethan non c'era più e nessun altro si sarebbe potuto occupare di Kaci meglio di me. Eccetto Jace, ma non potevo chiedergli di farlo. La guerra interessava tanto lui quanto me: Calvin Malone era il suo patrigno ed Ethan il suo migliore amico da sempre.

    «Andiamo, Kaci. Che ne diresti di prendere a calci un po' di balle di fieno nel fienile?»

    Lei mi guardò come se fossi appena passata al lato oscuro della forza, ma annuì, riluttante.

    Marc mi prese la mano e lasciò scorrere le dita lungo le mie mentre gli passavo accanto diretta verso la porta. A quel punto mi fermai e gli sfiorai deliberatamente la guancia ispida con un bacio, inspirando profondamente per cogliere quanto più possibile del suo profumo. Indugiai di proposito più del normale, per Blackwell oltre che per me stessa. Volevo far capire a quella vecchia mummia che ero libera di scegliere le mie relazioni sentimentali.

    Mentre mi avviavo verso il corridoio, però, il mio sguardo incontrò quello di Jace, e nonostante l'espressione impassibile, la linea contratta della mascella tradì ciò che provava. Lo stesso valeva per la scintilla che avvampò nei suoi occhi. Avevamo deciso di non parlare di ciò che era successo tra noi il giorno della morte di Ethan. Non c'era altro modo per mantenere la pace in casa e far sì che l'attenzione di ciascuno rimanesse concentrata sulla vendetta. Avevo giurato a me stessa che Marc sarebbe stato il primo a sapere, glielo avrei detto io stessa. Glielo dovevo, per quanto l'idea mi terrorizzasse.

    Ma non avevo ancora trovato un momento adatto per farlo. Nemmeno un momento decente. Tutti i momenti sembravano pessimi e, ogni volta che Jace mi guardava in quel modo, ogni volta che sentivo il mio corpo reagire al legame che avrei voluto negare, la pressione dentro di me cresceva di un'atmosfera.

    Se non l'avessi sfogata al più presto, sarei esplosa. O avrei fatto qualcosa di cui ci saremmo pentiti tutti.

    Mi costrinsi a oltrepassare Jace limitandomi a un cenno del capo cortese e triste, identico a quello che avrei rivolto a qualunque collega vigilante, poi chiusi la porta e mi ritrovai nel corridoio.

    Mia madre ci stava aspettando con la mia giacca di pelle e il piumino di Kaci. A volte dimenticavo che sapeva muoversi velocemente quanto il resto di noi, se voleva.

    A volte dimenticavo anche che aveva una bocca e sapeva usarla. Evidentemente avevo ereditato la mia da lei...

    «Grazie.» Presi la giacca e me la infilai. «Mamma, sei stata... da paura.» Non c'era altro modo per descriverlo.

    Le sue labbra disegnarono una sottile linea retta. «Era la verità.» Aiutò Kaci a liberare le lunghe ciocche castane da sotto il collo del piumino e abbozzò un sorriso. «Tornate a scaldarvi tra una mezz'ora. Vi preparerò una cioccolata calda.»

    Mentre andavamo verso la porta, Kaci infilò le mani nelle tasche dei jeans e mi guardò, l'espressione severa quasi quanto quella di mio padre. In quel momento avrei voluto più di ogni altra cosa vederla sorridere, vederla, anche solo per un attimo, assomigliare a una normale tredicenne, un'adolescente che non sapeva nulla di morti violente, tormentosi sensi di colpa e paure opprimenti.

    «Che cosa è stato da paura?» mi chiese, uscendo.

    Sorrisi, l'umore momentaneamente risollevato dal ricordo dell'aggressivo monologo di mia madre. «Mia madre ha appena strappato a Blackwell le sue palle avvizzite, davanti a tutti.»

    Le sopracciglia di Kaci si sollevarono. «Davvero?» Annuii e, per un secondo, potei ammirare una Kaci felice. «Figo!»

    Sotto il portico, feci due passi prima di accorgermi che non eravamo sole. Mercedes Carreño, detta Manx, sedeva sul dondolo di ferro battuto con mio fratello Owen. Entrambi ci guardarono quando ci avvicinammo, ma i loro sorrisi spontanei ci dissero che non avevamo interrotto niente. Nessuna conversazione, quantomeno. Se ne stavano semplicemente seduti l'uno accanto all'altro godendosi il silenzio invernale. Quella vicinanza confortante mi parve più intima di molti baci cui avevo assistito.

    «Ehi» li salutò Kaci, mentre io guardavo mio fratello inarcando un sopracciglio. «Dov'è Des?»

    Manx si strinse nel soprabito di lana. «Dorme.»

    Nell'udire quelle parole sollevai entrambe le sopracciglia e Owen arrossì, sistemandosi in testa il cappello da cowboy. Manx non lasciava mai Des. Il bambino dormiva nel suo letto e lei gli restava vicino anche durante i pisolini; non andava nemmeno in bagno finché non lo aveva consegnato a qualcuno di cui si fidava.

    Eppure eccola là, seduta accanto a mio fratello, il cowboy gentiluomo, le mani rilassate in grembo, le dita macellate nascoste da guanti di pizzo elasticizzato.

    «Posso giocare con lui quando si sveglia?» domandò Kaci.

    Manx sorrise; sapeva che giocare con il bambino, benché si trattasse solo di lasciare che il piccolo di un mese le afferrasse le dita, rilassava Kaci come poche altre cose. «Certamente.»

    Le spalle di Kaci si rilassarono e io non potei fare a meno di domandarmi se due bambini avrebbero raddoppiato l'effetto terapeutico, per Kaci e per tutti noi. Non avevamo ancora avuto tempo di verificare la veridicità della notizia, ma sembrava che la ragazza umana di Ethan, Angela, fosse incinta, e non avevo alcuna ragione di ritenere che il bambino non fosse di mio fratello.

    Mia madre era cautamente ottimista riguardo alla notizia, con imprevisti picchi di smodata delizia quando si concedeva di credere che fosse vero. Niente avrebbe mai riempito il vuoto che la morte di Ethan aveva lasciato nei nostri cuori, ma suo figlio, il primo nipote per mia madre, avrebbe contribuito a rimarginare la ferita. Lei non vedeva l'ora di conoscere Angela, tuttavia tutti avevamo concordato che, per la sicurezza della futura madre, le presentazioni avrebbero dovuto aspettare fino a quando avessimo risolto i nostri contrasti con il consiglio territoriale.

    Lo sguardo di Kaci attraversò il prato, in direzione del fienile, poi i suoi occhi si socchiusero e gli angoli della bocca si abbassarono. Capii cosa stesse guardando senza bisogno di voltarmi.

    La tomba di Ethan.

    Lo avevamo sepolto sotto il melo, a metà strada tra il cortile di fronte e il campo a est. La sua lapide aveva mutato per sempre il panorama familiare, ma l'intenzione era proprio quella: volevamo vederlo ogni giorno per poterlo ricordare sempre e piangerlo finché lo avessimo ritenuto opportuno.

    «Io comincio ad andare» mormorò Kaci, correndo giù dai gradini senza aspettare la mia risposta.

    Non era stata mia intenzione trattenermi con Owen e Manx, per timore di interrompere... qualunque cosa stessero facendo. Tuttavia era chiaro che Kaci voleva un momento per restare sola con Ethan e dovevo rispettare il suo desiderio.

    «Come vanno i polpastrelli?» domandai, mentre mi accomodavo su una sedia di vimini in fondo al portico.

    «Pardon?» Manx aggrottò la fronte, finché non le indicai le mani con un cenno. Allora alzò le dita, come per controllarle. «Oh. Molto meglio. Mi fanno male solo quando...» Si fermò, cercando la parola corretta in inglese. «... urto le cose.» Spinse le mani in avanti per dimostrarmi cosa intendesse.

    A due settimane dall'asportazione degli artigli, le sue mani erano guarite quasi completamente, ma le cicatrici erano ancora gonfie e rosse. Manx detestava vederle e indossava sempre dei guanti, che toglieva solo per prendersi cura del bambino e di se stessa.

    Mi voltai verso Kaci, a metà strada tra il portico e il melo, e notai distrattamente due aquile che volavano in cerchio sopra di noi.

    «Come va il tuo braccio?» domandò Manx, catturando nuovamente la mia attenzione.

    Le mostrai il gesso, sorridendo per gli scarabocchi che Kaci aveva disegnato tra le firme dei miei colleghi vigilantes. Un fiore con petali viola e occhietti a forma di X al centro, e un teschio rosa con due tibie incrociate. Ero rimasta immobile a lungo per consentirle di disegnare i suoi capolavori: avrei fatto qualunque cosa pur di vederla sorridere. Anche se l'avevo minacciata di coprire tutto con smalto per le unghie nero, se avesse osato aggiungere altro rosa.

    Comunque, dovevo ammettere che pensare a Kaci che mi scarabocchiava il gesso era assai più divertente che ricordare come mi ero rotta il braccio o pensare ai bastardi che avevano rapito Marc e lo avevano pestato per indurmi a parlare, quando picchiare me non era servito.

    «Molto meglio, grazie. Il dottor Carver dice che tra un paio di settimane potrò provare a trasformarmi.» Perché le ossa rotte impiegavano più tempo a guarire, rispetto a tagli e lacerazioni. Mi sentivo prudere la pelle per la voglia di trasformarmi e per il gesso, che nonostante fosse febbraio mi faceva sudare il braccio.

    «Le manca davvero molto» osservò Owen, indicando con un cenno qualcosa dietro le mie spalle. Mi voltai e vidi Kaci inginocchiata accanto alla lapide di Ethan, una mano che sfiorava la terra smossa di fresco.

    «Sì, lei...»

    «Che diavolo...?» mormorò Owen, e io guardai oltre la ringhiera del portico. «Avete mai visto aquile così grandi? Devono aver individuato qualcosa da mangiare, a giudicare da come volano in circolo...»

    Mi alzai immediatamente in piedi, lo stomaco stretto da una morsa di apprensione. «Quelle non sono aquile...» Tanto per cominciare, erano troppo grandi. E le loro ali erano tutte sbagliate, soprattutto le estremità. Anche a distanza le punte sembravano... strane. Prima quegli uccelli dovevano trovarsi molto in alto, perché adesso che erano scesi, avvicinandosi dai boschi oltre il prato a est, sembravano enormi.

    All'improvviso i battiti del mio cuore mi parvero rallentati, come se non riuscissero a seguire il ritmo naturale del mio corpo. Quegli uccelli erano troppo grandi. E troppo bassi. E troppo veloci...

    Oh, merda... «Kaci!» urlai, mentre il primo volatile scendeva in picchiata su di lei. Quando alzò lo sguardo e urlò, io ero già a metà del prato.

    Kaci balzò in piedi, poi si chinò per schivare il primo uccello che calava su di lei, gli artigli enormi pericolosamente vicini alla sua testa. Gridò di nuovo e il rapace salì nell'aria, sbattendo le ali gigantesche con forza tale che sentii lo spostamento d'aria anche se mi trovavo a cinquanta metri di distanza.

    Kaci si mise a correre sull'erba secca, gridando a pieni polmoni.

    Continuai a correre verso di lei senza aprire bocca, per non sprecare energie urlando. In forma umana, tuttavia, nessuna delle due era abbastanza veloce. Ero ormai a pochi passi da lei, quando il secondo uccello scese in picchiata; le sue ali poderose spostarono una quantità d'aria tale da spingermi indietro di un passo. Allargò gli artigli, poi li chiuse intorno alle braccia di Kaci.

    Per un momento, mentre riprendeva l'equilibrio adattandosi al peso della sua preda, ebbi modo di ammirare quella creatura magnifica. Grandi ali marroni e lisce. Uno spaventoso becco ricurvo. E lunghi artigli taglienti che sporgevano da sotto le penne in fondo alle ali.

    Un istante dopo l'uccello si librò di nuovo verso l'alto e io mi fermai bruscamente, ghermendo con le dita l'aria a un soffio dalla scarpa da ginnastica di Kaci.

    Il cuore corse rapido come i miei piedi mentre li inseguivo, pur sapendo che non sarebbe servito a nulla. Non potevo volare, né correre abbastanza in fretta per tenergli dietro. Kaci non era stata afferrata da un'aquila; la nostra giovane femmina, la mia adorata protetta, era stata rapita dai primi uccelli del tuono che le pantere avessero avvistato nell'ultimo quarto di secolo.

    2

    «Kaci!» gridai correndo, mentre l'adrenalina entrava in circolo nel mio corpo così calda e rapida che non potei percepire altro. Né il freddo pungente di febbraio, né il terreno sotto i miei piedi, né i rami spogli che mi sferzarono il viso e il collo quando mi precipitai nel bosco dietro casa.

    Sopra di me Kaci urlava e si dimenava appena sopra la sommità degli alberi spogli. Se fosse stata estate, non sarei mai riuscita a vederla attraverso il fogliame.

    L'uccello del tuono perse quota, inclinandosi paurosamente quando lei sbilanciò le gambe da una parte, poi si raddrizzò e si librò di nuovo nell'aria con un poderoso battito d'ali. In pochi secondi si alzò ancora più in alto, mentre Kaci continuava a divincolarsi, urlando per il terrore.

    «Sta' ferma!» le gridai più forte che potei, sperando che mi sentisse nonostante il vento e le sue stesse urla. Se fosse caduta da quell'altezza si sarebbe ferita gravemente, anche se i rami avessero attutito la caduta. In caso contrario, sarebbe morta.

    Accanto a Kaci e al suo rapitore, l'altro uccello del tuono disegnò un arco nel cielo, tornando verso di noi. Per un attimo pensai terrorizzata che volesse calare in picchiata su di me, poi mi resi conto che non sarebbe stato possibile, dal momento che mi trovavo nella foresta e che tra i rami non c'era spazio sufficiente per la sua formidabile apertura alare, che doveva superare abbondantemente i tre metri e mezzo.

    Invece di calare su di me, il secondo condor si limitò a mettersi dietro il compagno di volo, restando di guardia, pronto a intervenire in caso di necessità.

    Se non fossero stati rallentati dal peso di Kaci, li avrei persi. Benché la loro velocità fosse limitata considerevolmente, volavano assai più veloci di quanto io potessi schivare alberi e cespugli con le mie due gambe umane. Soprattutto dal momento che tenevo lo sguardo fisso verso l'alto invece che sugli ostacoli a terra.

    Pochi minuti dopo erano un quarto di miglio più avanti rispetto a me, pur non essendosi alzati a più di una decina di metri sopra le cime degli alberi.

    Per quanto potrà trasportarla? Scostai un ramo giusto in tempo per evitare di rompermi il naso, ma non appena alzai lo sguardo di nuovo inciampai in una radice e caddi in avanti come un tronco abbattuto.

    Le mani attutirono la caduta, tuttavia l'impatto mi riverberò lungo entrambe le braccia e una fitta lancinante mi trapassò quello rotto. Mi fermai a malapena per riprendere fiato, pulendomi sui jeans le mani graffiate e sanguinanti. Prima che raggiungessi di nuovo la mia velocità massima in forma umana, stringendomi al petto il braccio rotto, una macchia nera saettò alla mia destra, oltrepassando con un balzo agile un cespuglio che io, invece, fui costretta a evitare girandogli intorno.

    Rinforzi. Grazie al cielo qualcuno si era trasformato; se lo avessi fatto io, avrei perso di vista Kaci.

    Il maschio era troppo veloce perché potessi identificarlo a vista, ma una rapida annusata mentre mi chinavo per schivare dei rovi mi rivelò che si trattava di Owen. Di certo stava arrivando anche qualcun altro.

    Non che potessimo fare molto da terra...

    Mio fratello scomparve davanti a me, ma riuscivo a sentirlo ansimare e spezzare piccoli rami nella corsa, dal momento che, in quel caso, la velocità era più importante che muoversi senza fare rumore. Io avanzai con tutta la patetica rapidità che la mia forma umana mi consentiva, l'aria fredda che mi pungeva la gola, le mani che mi bruciavano a causa di svariate escoriazioni.

    Dopo circa un miglio seguivo Owen e Kaci alla cieca senza sapere dove ci stessimo dirigendo. Ero abbastanza certa di aver cambiato direzione almeno una volta e non vedevo alcuna logica nella traiettoria presa dai condor, a meno che non stessero cercando di liberarsi di noi e restare sopra gli alberi, dove le auto non avrebbero potuto seguirli.

    Così quando i rapaci e Kaci scomparvero all'improvviso mi sentii prendere dal panico. Il cuore accelerò a tal punto che temetti stesse per scoppiare, ciò nonostante non riuscii a muovere le gambe più in fretta. Mi lanciai in avanti, scostando i rami con entrambe le braccia, dimentica dell'ingessatura, precipitandomi tra gli alberi nella direzione in cui avevo visto Kaci per l'ultima volta. Il sangue mi martellava nelle orecchie talmente forte che non riuscivo più a sentire Owen.

    Finché non ruggì, davanti a me, sulla destra.

    Misi tutto ciò che mi restava in un ultimo scatto e pochi secondi dopo uscii dagli alberi, ritrovandomi su una strada di campagna a meno di due miglia dal ranch.

    Rimasi pietrificata dallo spettacolo che vidi di fronte a me.

    Owen correva lungo la strada deserta, trecento metri più avanti rispetto a me, diretto verso un'auto parcheggiata una decina di metri più avanti. Sopra di lui, i due condor scesero veloci verso l'auto; il più vicino di loro stringeva ancora tra gli artigli Kaci, che aveva ripreso a divincolarsi.

    Corsi dietro Owen mentre la portiera del conducente si apriva e un uomo scendeva dal veicolo. Owen ansimava per lo sforzo, i miei quadricipiti bruciavano per la fatica. L'uomo aprì la portiera posteriore dell'auto. Il primo uccello del tuono si avvicinò con grazia al suolo e io rimasi talmente scioccata che per poco non persi l'equilibrio.

    A un metro da terra il condor aveva i piedi – piedi nudi umani! – dove un attimo prima si trovavano artigli taglienti e acuminati. Poi anche la sua testa diventò umana, fatta eccezione per il becco appuntito e ricurvo al posto del naso e della bocca.

    Sbigottita, rallentai la corsa, lo sguardo fisso sulla trasformazione più bizzarra cui avessi mai assistito in vita mia. Io ero in grado di compiere una trasformazione parziale: una mano, gli occhi, persino gran parte del viso. Ma questo andava oltre ogni immaginazione. Nessuna pantera poteva trasformarsi tanto in fretta; il condor era stato rapidissimo, come se noi pantere ci fossimo trasformate durante un balzo!

    La strana creatura ibrida toccò aggraziatamente terra a svariati metri dall'auto, le gambe nude quasi formate, il torace coperto in gran parte di piume, le ali ancora intatte. Un istante dopo, Owen gli balzò addosso.

    Le poderose ali batterono l'aria... e mio fratello. Lunghe penne marroni avvolsero Owen, nascondendolo per un istante prima di spiegarsi nuovamente. A quel punto, il combattimento cominciò sul serio.

    Gli artigli saettarono. Un becco si chiuse di scatto. Il sangue sgorgò. Owen soffiò. Il condor lanciò uno strido, un suono orribile e graffiante che esprimeva dolore e paura allo stesso tempo, insieme ad altre emozioni che non fui in grado di interpretare. I sottili, raccapriccianti artigli alle estremità delle ali si sollevarono per poi calare di nuovo, lacerando il fianco di mio fratello.

    Owen ruggì e la sua zampa guizzò, gli artigli sfoderati. Il conducente dell'auto, un uomo basso con il naso adunco, si tenne a distanza dal combattimento e non interferì, consapevole della propria vulnerabilità in forma umana. A un tratto alzò la testa di scatto.

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