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Controllata a vista (eLit): eLit
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Controllata a vista (eLit): eLit

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About this ebook

Quando la vendetta non sembra avere limiti.

Dopo essere stata aggredita nel suo laboratorio, la dottoressa Genie Watson soffre di amnesia e non riesce a identificare il suo assalitore. L'unica parte di lei che non l'ha mai delusa è la sua mente e ora proprio questa la sta tradendo. Chiede dunque aiuto al suo collega Nick Wellington, che diventa la sua ombra. Insieme devono scavare nel cervello di Genie alla ricerca delle risposte che servono per arrestare quel pazzo che vuole vendicarsi. Intanto, però, la dottoressa non riesce a controllare l'attrazione che prova per il bel Nick.
LanguageItaliano
Release dateSep 30, 2016
ISBN9788858959183
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    Controllata a vista (eLit) - Jessica Andersen

    successivo.

    1

    «Wellington? Dannazione, Wellington, sei lì dentro?»

    Genie sospinse la porta girevole e sbirciò nella camera oscura del laboratorio di ricerca, cercando di distinguere la poderosa sagoma del suo irritante collega. Entrò spedita, azionò l'interruttore e sentì il ronzio ultrasonico delle luci rosse, che si riscaldavano, sovrastare il rombo dei macchinari. «Se stai monopolizzando di nuovo la sviluppatrice quando il mio nome è chiaramente indicato sul foglio delle prenotazioni, giuro che...!»

    Qualcosa si mosse nell'oscurità rossastra. «Dottoressa Watson?»

    «Wellington, io...» Ma non era stata la voce del collega. «Chi...?»

    Lo sconosciuto le tappò la bocca e con un gesto brusco l'attirò contro di sé. Genie aprì le labbra per gridare e avvertì il sapore del lattice di un guanto da laboratorio. Ne emerse soltanto un gemito soffocato.

    «Zitta.» La voce era malferma, l'alito fetido e la silhouette dell'uomo scura contro le luci rosso sangue. «Zitta e basta, brutta sgualdrina. Rovinare la vita a un poveraccio come se niente fosse, eh?»

    Genie urlò contro il guanto, dibattendosi e cercando di colpire coi gomiti il proprio aggressore. Questi bestemmiò e la sospinse verso il bancone che seguiva l'intero perimetro della stanza, immobilizzandola col proprio peso.

    Era in trappola. Impotente. E il suo ufficio, così luminoso e rassicurante, si apriva a nemmeno quattro metri di distanza.

    «Ti credevi al sicuro nella tua torre d'avorio, vero?» La mano libera dell'uomo si alzò a imprigionarle un seno e a pizzicarle il capezzolo attraverso il camice inamidato. «Pensavi di potermela portare via senza che mi ribellassi?»

    Genie sentì i propri mocassini slittare sul linoleum mentre l'acre odore della pazzia e dei rivelatori versati le trafiggeva l'olfatto. Scuotendo il capo, cercò di dire: No, no! Perché mi stai facendo questo? Io aiuto le persone! Non le porto via! Ma i suoi contorcimenti aumentarono soltanto il grado di eccitazione dello sconosciuto, che non a caso rafforzò la stretta.

    «Ma noi siamo furbi, dottoressa» continuò a farneticare. E intanto le leccò il collo in modo rivoltante. «Abbiamo capito subito a cosa miravate tu e il vecchio. E vi fermeremo per sempre. Prima, però...»

    Abbassò la mano, palesando le proprie intenzioni. Oh, santo cielo! Genie mugolò e scalciò all'indietro ma trovò soltanto aria. L'altro rise, addossandola contro il lavandino di acciaio della camera oscura. Lei si dondolò da una parte all'altra nel tentativo di liberarsi mentre con le mani cercava un'arma.

    Le sue dita sfiorarono un paio di forbici, facendolo cadere per terra.

    Diavolo, no!

    Terrorizzata, continuò a lottare. Poi, all'ultimo, quando già sentiva il sibilo della sua cerniera lampo, impugnò qualcos'altro.

    Qualcosa di pesante.

    Qualcosa di freddo, duro e metallico.

    Forse un tubo di acciaio.

    Mentre l'aggressore le sollevava la pratica gonna di lana grigia, Genie tornò a gridare contro l'impersonale guanto di lattice, poi alzò l'arma improvvisata, colpendo alla cieca.

    Si udì una violenta imprecazione. Qualcosa di caldo le spruzzò la guancia e la mano dell'uomo scivolò via dalla sua bocca. Era libera!

    Poi, le parve di cogliere un rapido movimento contro l'inquietante luce rossa.

    Un dolore terribile le esplose in testa.

    Non vide altro.

    «Dottoressa Watson? Dottoressa Watson?»

    Sul momento la voce le ricordò l'altoparlante del St. Agnes, dove si era svolto il suo internato. La dottoressa Watson è desiderata nel reparto di terapia intensiva neonatale.

    Aveva detestato quel reparto, pieno zeppo di bambini ammalati, alcuni dei quali affetti da terribili malattie genetiche. Per molti di loro, le cure erano poche, i costi elevatissimi e la speranza effimera. Come per Marilynn. Povera, cara Marilynn. Genie rabbrividì mentre cercava d'inabissarsi nell'accogliente oscurità.

    Ma la voce non sembrava volerglielo permettere. «Dottoressa Watson? Genie? Forza, svegliati!»

    Senz'altro stava sognando. Sentì il wrum-wrum della porta girevole e si chiese che cosa ci facesse un congegno del genere in camera sua.

    «Genie? Mi senti?» E poi, che cosa ci faceva la voce di un uomo in camera sua? L'ultima volta che era successo la voce era appartenuta al tecnico dei telefoni, un ometto smunto e petulante dal naso schiacciato.

    «È svenuta. E guarda quanto sangue.» Un'altra voce si dichiarò d'accordo mentre la prima diceva: «Dove diavolo sono i paramedici? L'unità di ricerca genetica fa parte del Boston General, santo cielo! Il pronto soccorso è dietro l'angolo. Perché ci mettono tanto?».

    Pur tradendo una certa frustrazione, la voce era ancora piacevole e interessante, nonché priva della caratteristica cadenza nasale di Boston. La sua musicalità era un balsamo per lei.

    «Genie? Mi senti? Apri gli occhi, tesoro.»

    Tesoro? Però, suonava bene. Era da quando le era morto il padre che non era più il tesoro di nessuno.

    Genie ordinò ai propri occhi di aprirsi ma quelli si ribellarono, restando ostinatamente chiusi. In compenso, le venne un atroce mal di testa come se l'azione avesse segnalato a migliaia di ansiosi neuroni che era cosciente e pronta per il dolore.

    Wrum-wrum, wrum-wrum. Il rumore della porta girevole intensificò le fitte dietro gli occhi, e dal duro pavimento sottostante le salì il freddo. Quella non era camera sua e, oh, stava incominciando a sentire un male cane!

    Una nuova voce, spaventata. «La polizia e i paramedici sono qui.» Un sussulto. «La dottoressa Watson si riprenderà? C'è tanto sangue.»

    «Non penso sia tutto suo. Quanto meno, voglio sperare.» Genie sentì il suo protettore spostarsi. Con uno sforzo monumentale socchiuse gli occhi e intravide la sagoma indistinta di un uomo contro la luce accecante.

    «Non mi lasciare» gli disse. «Per favore.» Quel patetico pigolio era veramente la sua voce? Doveva esserlo, perché sentì l'uomo chinarsi e prenderle la mano.

    Scivolò così nella grata oscurità, portandosi dietro la sua rassicurante presenza.

    «Che cosa diavolo è successo, Nick?» Leo Gabney sembrava volersi strappare i capelli mentre misurava a grandi passi l'intera saletta d'aspetto del pronto soccorso del Boston General. Al contrario, tirò fuori un fazzoletto ciancicato e, passandoselo sulla pelata luccicante, continuò a girellare irrequieto.

    Nick guardò il proprio capo senza fiatare. Aveva sbagliato alla grande, ecco che cos'era successo. La camera oscura si trovava dirimpetto al suo ufficio, sull'altro lato del corridoio, santo cielo. Avrebbe dovuto capire che c'era qualcosa che non andava. Avrebbe dovuto essere più rapido, più furbo. Migliore, avrebbe detto il Senatore. Nick serrò le labbra.

    Si era infuriato quando Jill gli aveva detto di non aver sviluppato il sequenziamento del DNA del giorno prima perché la camera oscura era ancora occupata. Pronunciando ogni sorta di odioso commento sulla smorfiosa genetista con cui era costretto a condividere lo spazio di laboratorio, aveva ignorato il cartello Occupato - Non entrare appeso alla porta girevole. Si era semplicemente precipitato dentro, con l'intenzione di cantarne quattro alla Dottoressa Genius.

    Le luci rosse erano state accese. Quello, se l'era aspettato, visto che solo un idiota avrebbe manipolato la pellicola sotto la luce bianca, e la Dottoressa Genius era tutto fuorché idiota. Ma non si era aspettato di trovare la saletta sottosopra, con le cassette video aperte e sparpagliate a casaccio e la sviluppatrice sventrata.

    Poi, si era fatto avanti e col piede era scivolato su qualcosa di fluido e viscido. Un rivolo scuro che conduceva al camice stropicciato sotto il lavandino. A quel punto, aveva acceso il neon e il rosso delle luci scure si era trasformato in un patchwork di macabri schizzi cremisi sul pavimento e sulle pareti.

    Sangue. Una secchiata. E il corpo esanime della sua nemesi, la dottoressa Eugenie Watson.

    «Signori?» La voce estranea riecheggiò nella saletta d'aspetto e Nick scattò in piedi. Non erano i poliziotti quella volta, bensì un medico dal camice macchiato.

    Solo che era troppo presto. Non era possibile che avessero fermato quella spaventosa emorragia in così breve tempo. Doveva essere morta.

    Genius Watson era morta.

    Nick ricordò di essere stato scortese con lei quella mattina in ascensore, più per abitudine che per altro, e forse anche perché aveva pensato lì per lì che fosse carina con quella gonna di lana grigia e la camicetta bianca col pizzo. Graziosa. Da toccare.

    Quando un uomo incominciava a trovare sexy la lana grigia e i colletti di pizzo, allora quell'uomo aveva urgente bisogno di riposo. O almeno così si era ripetuto quella mattina. Adesso avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di riandare indietro col tempo e massacrare il tizio della camera oscura per aver rovinato i loro esperimenti e ferito la dottoressa Watson.

    A morte?

    Nick si rivide in ambulanza, con la mano stretta a quella della collega. Quest'ultima lo aveva pregato di non lasciarla quando avrebbe dovuto invece maledirlo per non averla trovata prima. Che stupido. Come aveva fatto a non capire che c'era qualcosa che non andava? Si era trovato nel proprio ufficio, comodamente seduto, alle prese con quel dannato articolo. Perché non aveva fiutato il pericolo? Sentito qualcosa?

    «È...?» Persino Leo Gabney, l'essere più insensibile che Nick avesse mai conosciuto, fu incapace di completare la domanda.

    «Eugenie Watson è una donna forte.»

    Nick ebbe un sussulto. «Quindi...?»

    «Si riprenderà.» A quanto pareva, il medico era abituato a quella forma di conversazione a singhiozzi. «Ha un mal di testa terribile e alcuni punti di sutura sul sopracciglio ma non c'è niente che indichi lesioni più gravi.»

    «Ma allora...?»

    «Il sangue?» L'altro sorrise. «Pochissimo era suo. L'aggressore doveva essere conciato per le feste quando la Watson ha finito con lui. Ne ho parlato con l'ispettore Sturgeon che ha promesso di allertare gli ospedali della zona.»

    Nick ripensò al collant abbassato della ragazza. «È stata...?»

    «No, niente stupro» fu l'immediata risposta. «Col fatto che ha reagito, si è evitata almeno quello. Ma non sappiamo per certo che cosa le sia accaduto là dentro. Non ricorda niente, il che non è affatto sorprendente se si considera l'orrore dell'esperienza. Il cervello ha un modo tutto suo di proteggersi.»

    «Non ricorda niente?» Nick si girò verso la nuova voce, non essendosi accorto di come gli ispettori Sturgeon e Peters fossero entrati nella saletta. Sturgeon succhiava una di quelle mentine di cui si stava ingozzando sin da quando si era presentato al laboratorio insieme ai paramedici. Il suo viso incavato ricordava quello di un pesce congelato, tanto era inespressivo. «È cosciente?»

    Il medico non si lasciò intimidire dal corruccio del poliziotto. «Non conserva ricordo dell'aggressione» ribadì, «e al momento è cosciente, tuttavia non è in grado di rispondere alle vostre domande. Spiacente, dovrete aspettare.»

    Poi, proprio quando Nick stava incominciando ad apprezzare le doti umane del medico, costui aggiunse: «Nell'attesa, potete sempre accontentarvi di questo gentiluomo. È stato lui a trovare la signorina Watson».

    Gli agenti si voltarono all'istante e Peters aprì il taccuino in corrispondenza di una pagina nuova. «Il suo nome, per cortesia?»

    Nick sospirò. «Dottor Nicholas Wellington III.»

    Sturgeon inarcò un sopracciglio. «Nessuna parentela col Nicholas Wellington che si è candidato alla presidenza anni fa?»

    Provando quel senso di rabbia e rimorso che sempre si accompagnava al pensiero del Senatore, lui assentì. «È mio padre.»

    «Sto benissimo.» Genie scacciò l'infermiera e si sfilò il bracciale dello sfigmomanometro. «Sono medico, saprò pur giudicare quando posso andarmene, non crede?» Alzando gli occhi al cielo, l'infermiera guardò l'uomo in camice verde che le stava accanto, quasi a dirgli: Col cavolo. L'esausto internista che sorrise in risposta non sembrava avere più di vent'anni.

    Genie si vergognò di quel pensiero scortese. Era stata giusto un po' più piccola di così quando aveva fatto internato lei... particolare che nessuno dei suoi colleghi sembrava voler dimenticare. Era l'ultima persona che si sarebbe dovuta lamentare dell'età del medico, specie quando le stava dando ragione.

    «È vero, sta benissimo. Ora. Ma sa bene quanto me che i pazienti reduci da commozione cerebrale vanno trattenuti per le successive ventiquattr'ore.»

    «Ma io me ne voglio andare.»

    «Spiacente.» Il ventenne non si smosse. «Potrò dimetterla solo a condizione che qualcuno dotato di cognizioni mediche accetti di tenerla sotto osservazione. Ha qualche collega da chiamare? Un amico che potrebbe aiutarla?»

    Genie aprì la bocca per rispondere ma poi cambiò idea e la richiuse. Come sembrava patetico dire: «No, non c'è nessuno».

    Eppure, era vero.

    Certo, aveva un sacco di conoscenze. Chiacchierava con l'anziana signora cinese che puliva il laboratorio tutte le sere e spesso s'intratteneva anche con Ben, il sorvegliante. E aveva colleghi che salutava lungo il corridoio e a cui sorrideva in mensa.

    Ma non c'era nessuno a cui dire: «Ho una commozione cerebrale. Verresti stasera da me, così che io possa dormire?».

    Nessuno.

    Inspiegabilmente, una voce maschile le fluttuò nel cervello. Genie non rammentava più nulla dopo aver sentito il wrum-wrum della porta girevole quando era andata a sviluppare le pellicole della giornata. Tuttavia, conservava il vago ricordo di una presenza confortante all'interno dell'ambulanza. Qualcuno che le stringeva la mano, comunicandole strane vibrazioni, e che le sussurrava dolci parole di conforto...

    Certa che si fosse trattato di un paramedico, si ripromise di ringraziarlo alla prima occasione.

    L'infermiera e il giovane internista si allontanarono con uno svolazzo di bianco e di verde, e al posto loro si materializzò l'amministratore del Boston General.

    Genie si finse seccata, così da attenuare l'evidente preoccupazione dell'uomo. «Ehi, Leo, proprio tu dovevi venire!?» esclamò. «Non potevano mandarmi Hetta del personale o Louie della contabilità? Persino uno degli scagnozzi di Dixon mi avrebbe fatto più piacere di te!» Pur non stravedendo per i suoi metodi, gli era affezionata, e fu contenta di vederlo sorridere, sia pure fiaccamente.

    «No, erano tutti impegnati» ribatté Gabney. «Così, visto che né tu né io abbiamo una vita, siamo stati scelti all'unanimità per i ruoli del visitatore e del visitato.» Cercò di apparire disinvolto ma poi vacillò e gli tremò la mano mentre si passava il fazzoletto sul cranio sudato. «Santo cielo, che cosa orribile. Io... Io...» Non fu in grado di completare la frase e Genie si chiese allora se non fosse stato lui a trovarla nella camera oscura quando era svenuta.

    Aveva visto il proprio camice macchiato di sangue prima che la polizia lo requisisse ma, quando cercava di ricostruire l'aggressione, la sua mente scivolava via, mostrandole altre cose. Campi. Farfalle. Fiori. La sagoma indistinta di un uomo che le teneva la mano.

    Poiché il suo principale motivo di orgoglio coincideva con la sua mente metodica e ordinatissima, Genie non gradiva quell'aperta ribellione e progettava anzi di sedarla nel minor tempo possibile. Ma per farlo, doveva andare a casa. Tra medici che le sollevavano le palpebre e infermiere che le tastavano il polso, non avrebbe mai avuto pace al Boston General.

    Doveva uscire di lì.

    «Mi porti a casa, Leo?» Tentò il colpo ma gli vide subito storcere il naso.

    «No. No. Non credo sia una buona idea, Genie. Sei conciata male. Ti conviene rimanere qui e lasciare che i medici si prendano cura di te mentre la polizia stana il colpevole.»

    Lei non voleva soffermarsi su chi l'avesse aggredita. Persino la parola polizia le dava la nausea. Non voleva pensare a quell'esperienza traumatizzante. Non lì, non in quel momento. Aveva bisogno di andare a casa.

    Aveva bisogno di appartarsi, così da poter crollare in privato.

    Corrugò la fronte per ricacciare le lacrime ma il movimento le tirò i punti sul sopracciglio e le acuì il mal di testa. «Allora vattene. Non voglio visitatori a meno che non mi portino a casa.» Fermò Leo sulla soglia. «Ehi, puoi trovarmi il tipo che è salito con me sull'ambulanza? Voglio ringraziarlo.»

    L'altro si meravigliò. «Sicura? Ero convinto che non ti...» Lasciò la frase in sospeso. «Okay, te lo vado a chiamare.»

    «Perché, è qui?» I paramedici non erano soliti aspettare sulle ambulanze o presso i vigili del fuoco? Genie pensava di sì, sebbene la sua esperienza di pronto soccorso si limitasse a una rapida rotazione di tre settimane e a repliche registrate della famosa serie televisiva E.R..

    «Sì. Non si è più mosso da quando ti hanno portata dentro. Era veramente preoccupato.»

    «Allora, mandalo qui e poi vai. E, Leo, grazie per essere venuto. Grazie anche per esserti mostrato così... ehm, sconvolto.» Per quanto Gabney non incarnasse il suo ideale d'amico, apprezzava che si fosse disturbato a venire. Era importante che almeno qualcuno ci tenesse.

    Quando l'amministratore se ne fu andato, la nausea si attenuò e fu sostituita da una piacevole confusione che Genie attribuì ai sedativi. La sua mente vagò libera.

    Aveva bisogno, pensò incongruamente, di costruirsi una vita. Se non altro, quello sgradevole... ehm, imprevisto le aveva fatto capire di aver trascurato cose fondamentali mentre si laureava, si specializzava e diventava infine la più giovane ricercatrice che il Boston General avesse mai annoverato.

    Si ripromise altre cose.

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