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Anestesia fatale: eLit
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Anestesia fatale: eLit

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About this ebook

Per l'avvocato David Ransom è solo l'ennesimo caso di negligenza, un'anestesista che ha sbagliato nel somministrare un farmaco letale. Per Kate Chesne, invece, quel caso potrebbe essere la fine della carriera, un sospetto e un'accusa infamante a cui non si rassegna. Per questo irrompe nell'ufficio - e nella vita privata - di David, determinata a convincerlo della propria innocenza.

Il brutale assassinio di un'infermiera insinua il dubbio in Ransom: e se Kate avesse ragione, se ci fosse realmente un disegno oscuro, una mente diabolica dietro il susseguirsi di morti apparentemente casuali?

In un crescendo mozzafiato di insospettabili rivelazioni - e di reciproca attrazione erotica - l'anestesista e l'avvocato si trovano a fronteggiare una vicenda sempre più torbida e dai contorni sempre più minacciosi.

LanguageItaliano
Release dateOct 31, 2016
ISBN9788858961407
Anestesia fatale: eLit

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    Book preview

    Anestesia fatale - Tess Gerritsen

    Prologo

    Il passato torna sempre a tormentarci.

    Dalla finestra del suo studio, il dottor Henry Tanaka guardava la pioggia che cadeva a scrosci sul parcheggio, chiedendosi perché, dopo tanti anni, la morte di una poveretta fosse tornata a distruggerlo.

    Vide un'infermiera correre verso la propria auto. Aveva l'uniforme bagnata. Un'altra persona sorpresa senza ombrello, pensò. Al mattino la giornata s'era presentata limpida e soleggiata, una tipica mattina di Honolulu. Ma alle tre del pomeriggio le nuvole avevano cominciato ad avanzare, scivolando sopra le vette dei monti Koolau. Adesso, mentre l'ultima impiegata della clinica s'affrettava verso casa, un violento acquazzone si stava abbattendo sulla città, inondando le strade di torrenti melmosi.

    Tanaka si voltò e guardò la lettera sullo scrittoio. Era stata spedita una settimana prima, ma come buona parte della corrispondenza era rimasta seppellita sotto le pile di referti e cataloghi di ditte farmaceutiche che s'accumulavano nel suo studio. Quando la segretaria gliela aveva fatta notare, il nome del mittente lo aveva allarmato: avvocato Joseph Kahanu.

    L'aveva aperta subito.

    A quel punto si lasciò cadere sulla poltrona e la rilesse.

    Egregio dottor Tanaka,

    nella qualità di legale del signor Charles Decker, con la presente sono a richiederle tutti i referti medici relativi alle cure ostetriche a cui è stata sottoposta la signorina Jennifer Brook, sua paziente all'epoca della morte...

    Jennifer Brook. Un nome che aveva sperato di dimenticare.

    Una profonda stanchezza s'impadronì di lui, lo sfinimento di chi si rende conto di non poter sfuggire ai propri fantasmi. Cercò di raccogliere le energie per tornare a casa, trascinarsi fuori, salire in macchina, invece rimase seduto, fissando le pareti dello studio. Il suo santuario. Lasciò scivolare lo sguardo sui diplomi incorniciati, sugli attestati, sulle fotografie. Dappertutto c'erano fotografie di neonati rugosi, di genitori felici. Quanti bambini aveva aiutato a venire al mondo? Aveva perduto il conto da anni.

    Un rumore, in anticamera, attirò la sua attenzione: il rumore di una porta che si chiudeva. Si alzò e andò a guardare.

    «Peggy? Sei ancora qui?»

    La sala d'attesa era deserta. Fissò i divani e le poltrone rivestite di un allegro tessuto a fiori, le riviste ordinatamente impilate sul tavolino, la porta d'ingresso. Era aperta.

    Nel silenzio udì un clangore metallico. Proveniva da una delle sale visita.

    «Peggy?»

    Tanaka si avviò lungo il corridoio, raggiunse la prima stanza e guardò dentro. Accese la luce, illuminando un lavabo d'acciaio inossidabile, un lettino ginecologico, un armadietto. Spense la luce e procedette verso il locale successivo. Anche lì era tutto a posto: gli strumenti disposti con cura sul bancone, il lavabo ben pulito, le staffe del lettino ripiegate.

    Attraversò il corridoio, dirigendosi verso l'ultima sala. Stava per accendere la luce quando un istinto improvviso lo fece irrigidire: c'era qualcuno, lì dentro, una presenza maligna che lo stava aspettando, nel buio.

    Indietreggiò, spaventato, ma quando si girò per fuggire si rese conto che l'intruso era già alle sue spalle.

    Una lama gli trafisse il collo.

    Tanaka rientrò barcollando nella stanza e inciampò su un tavolino carico di strumenti. Cadde rovinosamente sul pavimento già allagato di sangue. Sentiva la vita abbandonarlo, eppure un ultimo barlume di lucidità lo spingeva ad accertare la gravità della sua ferita, ad analizzare le sue possibilità di sopravvivenza. Arteria recisa. Morte per dissanguamento in pochi minuti. Devo fermare il sangue... Il torpore si stava già impadronendo delle sue gambe.

    Aveva poco tempo. Trascinandosi sulle mani e le ginocchia, si avvicinò all'armadietto dove era custodita la garza. Nella penombra, il debole riflesso della luce sugli sportellini di vetro gli apparve come una guida, l'unica speranza di salvezza.

    Un'ombra oscurò la luce che proveniva dal corridoio. Capì che l'intruso s'era fermato sull'uscio, che lo stava guardando. Continuò ad avanzare. Con le ultime forze, riuscì ad alzarsi in piedi, ad aprire lo sportello dell'armadietto con uno strattone. Le confezioni sterili gli piovvero addosso. Ne prese una alla cieca, la strappò e premette con forza la garza sul collo.

    Non vide la lama sollevarsi ancora.

    Mentre gli penetrava profondamente nella schiena, Tanaka cercò di gridare, ma dalla gola uscì solo un sospiro. Il suo ultimo respiro, prima di morire.

    Charlie Decker giaceva nudo sul letto duro. Aveva paura.

    Attraverso la finestra vedeva l'insegna a neon rossi del Victory Hotel. La t di Hotel mancava, e quel che restava gli faceva venire in mente la parola hole, buco. Una definizione molto più adatta per quel posto, un autentico buco, un oscuro recesso senza fondo dove precipitavano per sempre trionfi e gioie.

    Chiuse gli occhi, ma la luce rossa era sempre lì a tormentarlo, bucandogli le palpebre. Si girò dall'altra parte e mise il cuscino sopra il viso. L'odore del tessuto sudicio era soffocante. Gettò via il cuscino, si alzò e si avvicinò alla finestra. Guardò nel vicolo in basso. Sul marciapiede, una bionda dai capelli lunghi e radi, in minigonna, mercanteggiava con un tizio in una Chevy. Da qualche parte provenivano risate e il suono di un juke-box. Dal vicolo si innalzava il caratteristico puzzo di spazzatura. Charlie sentì montare la nausea, ma faceva troppo caldo per chiudere la finestra, troppo caldo per dormire, troppo caldo anche per respirare.

    Si avvicinò al tavolino e accese la luce, illuminando il titolo del giornale: Ucciso medico di Honolulu.

    Sentì il sudore colargli sul petto. Gettò il giornale sul pavimento, poi si sedette, prendendosi la testa fra le mani.

    Dal juke-box lontano adesso arrivava un'altra musica, un ritmo crescente di chitarre e percussioni.

    Sollevò lentamente la testa e fissò la foto di Jenny. Sorrideva, come sempre. Sfiorò l'immagine, sforzandosi di rammentare la sua pelle, ma gli anni avevano affievolito il ricordo.

    Alla fine prese un taccuino, trovò una pagina pulita e iniziò a scrivere.

    Mi dissero:

    "Ci vuole tempo...

    Tempo per guarire, per dimenticare".

    Ma io dissi:

    "Non si può guarire se si dimentica

    Ma solo ricordando

    Te.

    L'odore del mare sulla tua pelle;

    Le tue piccole impronte perfette sulla sabbia.

    Nel ricordo non v'è fine.

    Tu giaci, ora e sempre, accanto al mare.

    Apri gli occhi. Mi tocchi.

    C'è il sole nelle tue dita.

    E io sono guarito.

    Sono guarito".

    1

    Con mano ferma, la dottoressa Kate Chesne iniettò duecento milligrammi di Pentothal nella vena della sua paziente. Mentre il liquido scendeva lentamente nella siringa, Kate mormorò: «Farà effetto presto, Ellen. Chiudi gli occhi. Lasciati andare...».

    «Non sento niente.»

    «Ci vorrà circa un minuto.»

    Kate strinse leggermente la spalla di Ellen. Un silenzioso gesto di rassicurazione, una di quelle cose che facevano sentire i pazienti al sicuro. Il tocco di una mano. Una voce serena.

    «Pensa di galleggiare» sussurrò. «Pensa al cielo, le nuvole...»

    Ellen sorrise sonnolenta. La luce implacabile della sala operatoria metteva crudamente in risalto ogni macchia, ogni più piccolo difetto della pelle sul suo viso. Nessuno, nemmeno Ellen O'Brien, poteva essere bello su un tavolo operatorio.

    «È buffo» mormorò, «non ho per niente paura.»

    «Non devi averne. Penserò io a tutto.»

    «So che lo farai.» Ellen allungò la mano e sfiorò quella di Kate. Per un breve istante le loro dita si intrecciarono. Il tocco caldo della sua pelle ricordò a Kate che non era solo un corpo, quello che giaceva davanti a lei, ma era anche una donna, un'amica.

    Le porte si aprirono ed entrò il chirurgo. Il dottor Guy Santini era un uomo imponente. La cuffia a fiori gli dava un aspetto vagamente ridicolo.

    «Come andiamo, Kate?»

    «Ho appena iniettato il Pentothal.»

    Guy si avvicinò e strinse la mano della paziente.

    «Ci sei ancora, Ellen?»

    Lei sorrise.

    «Nel bene e nel male, ma ti confesso che preferirei essere a Philadelphia.»

    Guy rise.

    «Ci andrai. Senza la cistifellea, però.»

    «Non so... mi ero affezionata a quella cosa.» Le palpebre di Ellen si abbassarono. «Ricorda Guy» bisbigliò, «niente cicatrice, me l'hai promesso.»

    «Davvero?»

    «Sì, l'hai fatto...»

    Guy strizzò l'occhio a Kate.

    «Non te l'ho detto? Le infermiere sono le pazienti peggiori. Sono tremendamente esigenti.»

    «Stia attento, dottore» lo ammonì una delle infermiere della sala operatoria. «Uno di questi giorni potremmo avere lei, su quel tavolo.»

    «Una prospettiva davvero terribile» replicò Guy.

    Kate guardò la sua paziente mentre perdeva lentamente conoscenza.

    «Ellen?» chiamò con dolcezza. Le sfiorò le palpebre con le dita. Nessuna reazione. Fece un cenno affermativo in direzione di Guy. «È andata.»

    «Oh, Katie, tesoro» mormorò lui, «sei così brava per essere una...»

    «Una ragazza, lo so.»

    «Bene, vediamo di cominciare lo spettacolo» continuò lui, avviandosi verso l'uscita per andare a lavarsi. «Le analisi sono a posto?»

    «Perfette.»

    «L'ECG?»

    «Lo ha fatto ieri sera. Normale.»

    Guy le lanciò uno sguardo di ammirazione dalla porta.

    «Con te intorno, Kate, un uomo non ha bisogno neanche di pensare. Ah, signore?» aggiunse, rivolto alle due infermiere che stavano sistemando gli strumenti. «Devo avvertirvi che il nostro interno è mancino.»

    Una delle due donne alzò la testa, d'un colpo interessata.

    «È carino?» chiese.

    «L'uomo dei sogni, Cindy» rispose Guy, facendole l'occhiolino. «Gli dirò che me lo hai chiesto» aggiunse con una risata e uscì.

    Cindy sospirò.

    «Come accidenti fa sua moglie a sopportarlo?»

    Nei dieci minuti che seguirono, ogni cosa procedette alla perfezione. Kate eseguì i suoi compiti con la consueta efficienza. Inserì il tubo endotracheale e lo collegò al respiratore. Regolò il flusso dell'ossigeno e aggiunse isoflurano e protossido d'azoto nelle giuste proporzioni. Per Ellen lei era il legame con la vita. Tutto quel che faceva, anche se ormai erano gesti automatici, doveva essere controllato due, anche tre volte. Se poi il paziente era una persona che conosceva e che le piaceva, era ancora più importante essere assolutamente sicura di ogni gesto. Si dice che il lavoro dell'anestesista sia composto per il novantanove per cento da noia e per l'un per cento da terrore folle. Era proprio quell'un per cento che Kate cercava in ogni modo di prevenire. Le complicazioni potevano presentarsi in una frazione di secondo.

    Quel giorno, però, era sicura che tutto sarebbe andato liscio. Ellen O'Brien aveva appena quarantuno anni. A parte i problemi alla cistifellea, era in perfetta salute.

    Guy rientrò in sala operatoria con le mani pulite e ancora gocciolanti. L'uomo dei sogni lo seguiva. Pur indossando scarpe con rialzo interno non arrivava al metro e settanta di altezza. I due indossarono con cura camice e guanti di lattice.

    Kate percorse con lo sguardo i volti dei membri dell'équipe mentre prendevano posto intorno al tavolo. A parte l'interno, le erano tutti familiari. C'era l'infermiera di sala, Ann Richter, i capelli biondi accuratamente infilati sotto la cuffia blu. Una imperturbabile professionista, che non mescolava mai lavoro e piacere. In sala operatoria, anche un'innocente battuta scherzosa suscitava la sua disapprovazione.

    Accanto a lei c'era Guy, un uomo semplice e affabile. I suoi occhi castani erano celati dagli spessi vetri degli occhiali. Difficile credere che un uomo dall'aspetto così impacciato potesse essere un chirurgo. Eppure, con un bisturi in mano sapeva fare miracoli.

    In ultimo Cindy, l'infermiera strumentista, una ninfa dagli occhi scuri e la risata piuttosto facile. Aveva messo un nuovo ombretto, chiamato Malachite orientale, che le dava l'aspetto di un pesce tropicale.

    «Bell'ombretto, Cindy» osservò Guy, stendendo la mano.

    «Grazie dottor Santini» replicò lei, posandogli un bisturi sul palmo.

    «Mi piace molto più dell'altro, Fango spagnolo.»

    «Muschio spagnolo.»

    «Questo qui è davvero straordinario, non trova?» chiese all'interno che, saggiamente, tacque. «Già» proseguì Guy, «mi ricorda il mio colore preferito. Mi pare che si chiami Smacchiafacile.»

    L'interno ridacchiò e Cindy lo fulminò con un'occhiataccia. L'uomo dei sogni aveva appena detto addio a tutte le sue possibilità con lei.

    Guy eseguì la prima incisione. Una sottile linea scarlatta comparve sulla pelle dell'addome e l'interno la ripulì con una spugna. Le mani dei due medici lavoravano in armonia, come quelle di un duo di pianisti.

    Dal suo posto accanto alla testa della paziente, Kate seguiva il loro procedere, senza mai distogliere l'attenzione dal battito cardiaco di Ellen. Stava andando tutto bene, nessuna crisi in vista. Erano i momenti in cui amava di più il proprio lavoro: quando sapeva di avere tutto sotto controllo. Si sentiva a suo agio fra tutti quegli strumenti d'acciaio inossidabile. Il sibilo dei ventilatori e il bip regolare del monitor cardiaco erano musica per le sue orecchie, la colonna sonora dell'esibizione che si svolgeva sul tavolo operatorio.

    Guy fece un'incisione più profonda, mettendo a nudo uno strato lucente di grasso sottocutaneo.

    «I muscoli mi sembrano piuttosto tesi, Kate» osservò. «Avremo dei problemi a divaricare.»

    «Vedrò quel che posso fare.» Si girò verso il suo carrello e aprì un cassettino con la targhetta succinilcolina. Somministrata per endovena, avrebbe rilassato i muscoli, consentendo a Guy di accedere più facilmente alla cavità addominale. Aggrottò la fronte.

    «Ann? C'è soltanto una fiala di succinilcolina. Me ne prendi un altro po', per favore?»

    «Strano» osservò Cindy. «Sono certa di aver rifornito il suo carrello ieri pomeriggio.»

    «Be', ce n'è una fiala sola.» Kate aspirò 5 cc della soluzione trasparente e la iniettò nel catetere venoso di Ellen. Avrebbe fatto effetto in un minuto. Si appoggiò all'indietro e attese.

    Il bisturi di Guy oltrepassò lo strato di grasso e cominciò a mettere a nudo un fascio di muscoli.

    «Sono ancora piuttosto tesi, Kate.»

    Lei guardò l'orologio sulla parete.

    «Sono passati tre minuti, dovresti già notare qualcosa.»

    «Non è cambiato niente.»

    «Okay, aumento la dose.» Kate aspirò altri 3 cc e li iniettò. «Avrò bisogno di un'altra fiala al più presto, Ann. Questa qui è quasi...»

    Un cicalino si attivò sul monitor cardiaco. Kate alzò di scatto gli occhi sullo schermo. Quel che vide la fece scattare, in preda al terrore.

    Il cuore di Ellen O'Brien si era fermato.

    La sala operatoria si trasformò immediatamente. L'attività si fece frenetica. L'interno salì su uno sgabello e iniziò il massaggio cardiaco, sospingendo tutto il proprio peso sul petto di Ellen.

    Il proverbiale un per cento, il momento di terrore temuto da ogni anestesista. E anche il momento peggiore nella vita di Kate Chesne.

    Cercando di mantenere il controllo, iniettò una fiala dopo l'altra di adrenalina, prima nel catetere venoso poi direttamente nel cuore di Ellen. La sto perdendo, pensò. Buon Dio, la sto perdendo. Colse un breve fremito nell'oscilloscopio, un unico, flebile segno di vita.

    «Cardioversione, presto!» Guardò Ann, che stava in piedi accanto al defibrillatore. «Carica a duecento!»

    Ann non si mosse. Era come paralizzata, il viso livido.

    «Ann?» gridò Kate. «Carica a duecento!»

    Fu Cindy a precipitarsi alla macchina e accenderla. L'ago scattò a duecento. Guy afferrò le piastre, le posò sul petto di Ellen e rilasciò la scarica elettrica.

    Il corpo di Ellen sobbalzò e ricadde, come una marionetta a cui fossero stati tagliati d'un colpo tutti i fili.

    Kate provò un altro farmaco, poi ancora un altro, nel disperato tentativo di riportare un po' di vita al cuore. Senza risultato. Con gli occhi velati di lacrime, vide il segnale assottigliarsi sull'oscilloscopio.

    «È finita» mormorò Guy, facendo cenno di fermare il massaggio cardiaco. L'interno si scostò dal tavolo. Aveva il viso madido di sudore.

    «No.» Kate posò con forza le mani sul petto di Ellen. «Non è finita.» Iniziò a spingere ritmicamente, disperatamente. «Non è finita.» Si appoggiò con tutto il suo peso al torace. Il cuore andava massaggiato, il cervello alimentato. Doveva tenere Ellen in vita. Continuò a spingere, finché le braccia si indebolirono e iniziarono a tremare per lo sforzo.

    Vivi Ellen, ordinava silenziosamente, devi vivere.

    «Kate...» Guy le sfiorò il braccio.

    «Non possiamo rinunciare, non ancora.»

    «Kate.» La fece spostare, con gesto gentile ma fermo. «Mi dispiace. È finita» sussurrò.

    Qualcuno spense il monitor cardiaco. Il sibilo dell'allarme cessò di colpo e la sala precipitò nel silenzio. Kate si girò, lentamente. La stavano guardando, tutti. Si volse verso l'oscilloscopio.

    La linea era piatta.

    Un inserviente richiuse la lampo del sacco che avvolgeva il corpo di Ellen O'Brien. Kate sobbalzò. Odiava quel suono crudele, definitivo. C'era qualcosa di osceno nel chiudere in un sacco quel che fino a poco prima era stato un corpo vivo, una donna.

    Distolse lo sguardo dalla lettiga, udì le sue ruote cigolanti percorrere il corridoio, il suono sempre più fievole. Rimase sola nella sala operatoria.

    Ricacciando le lacrime, si guardò intorno. Il pavimento era ingombro di garze insanguinate, fiale vuote. La morte in ospedale lasciava dietro di sé sempre la stessa desolazione. Presto sarebbero venuti a raccogliere e incenerire ogni cosa. Non sarebbe rimasta alcuna traccia della tragedia che si era appena svolta. Niente, a parte un corpo nella camera mortuaria.

    E domande. Moltissime domande. Dei genitori di Ellen. Dell'ospedale. Domande a cui Kate non sapeva come rispondere.

    Si sfilò stancamente la cuffia, provando un vago sollievo nel liberare i lunghi capelli castani. Aveva bisogno di stare un po' da sola, per pensare, per capire. Si girò per andarsene e vide Guy, in piedi nel vano della porta. Nell'istante in cui scorse il suo viso, si rese conto che c'era qualcosa che non andava.

    Silenziosamente, le porse la cartella medica di Ellen O'Brien.

    «L'elettrocardiogramma» borbottò, «mi avevi detto che era normale.»

    «Infatti lo era.»

    «Sarà meglio che tu dia un'altra occhiata.»

    Stupita, Kate aprì la cartella e cercò l'ECG, il tracciato elettrico del cuore di Ellen. La prima cosa che notò furono le sue iniziali, tracciate in cima al foglio, segno che l'aveva visto. Poi guardò il tracciato. Per un lungo istante fissò quei segni neri, incapace di credere ai propri occhi. Non si poteva sbagliare, perfino uno studente del terzo anno sarebbe stato in grado di formulare una diagnosi.

    «Ecco perché è morta, Kate.»

    «Ma non è possibile!» esclamò lei. «Non posso aver commesso un simile errore.»

    Guy non rispose. Distolse lo sguardo con un gesto più eloquente di qualunque parola.

    «Guy, tu mi conosci» protestò Kate. «Sai che non potrei mai...»

    «È tutto lì, nero su bianco. Per l'amor di Dio, ci sono le tue iniziali, su quel dannato foglio.»

    Si fissarono l'un l'altro, entrambi turbati dalla durezza del suo tono.

    «Mi dispiace» si scusò lui, dopo un po'. Si girò, passandosi una mano fra i capelli. «Signore, ha avuto un infarto. Un infarto. E noi l'abbiamo portata in chirurgia.» Si volse a guardare Kate, addolorato. «Immagino che questo significhi che l'abbiamo uccisa.»

    «Un caso lampante di negligenza.»

    L'avvocato David Ransom chiuse il fascicolo con l'etichetta O'Brien Ellen e guardò i suoi clienti, seduti dall'altra parte della scrivania.

    Se avesse dovuto trovare una parola per definire Patrick e Mary O'Brien, avrebbe scelto grigi. Capelli grigi, volti grigi, abiti grigi. Patrick indossava una smorta giacca di tweed resa informe dall'uso, Mary un abito con una confusa fantasia bianca e nera che sembrava disciogliersi in una triste monocromia.

    Patrick continuò a scuotere il capo.

    «Era la nostra unica bambina, avvocato Ransom. La nostra sola figlia. Era sempre così buona, sa? Non si lamentava mai, nemmeno da piccola. Se ne stava lì, nella sua culla, e sorrideva, come un angioletto. Come un piccolo, caro...»

    Si bloccò di colpo, il viso contratto in una smorfia di dolore.

    «Signor O'Brien» disse David, «mi rendo conto che non è sufficiente per consolarla, ma le garantisco che farò tutto quel che posso.»

    Patrick scosse la testa.

    «I soldi non ci interessano. Certo, non posso lavorare, per via della schiena, ma Ellie aveva un'assicurazione sulla vita e...»

    «A quanto ammonta la polizza?»

    «Cinquantamila» rispose Mary. «Era così cara, non faceva che preoccuparsi per noi.»

    La donna aveva un profilo acuminato. A differenza del marito, aveva finito le lacrime, non intendeva più piangere. Sedeva eretta, il suo intero corpo sembrava un monumento al dolore. David sapeva esattamente quel che stava passando. La sofferenza. La rabbia. Soprattutto la rabbia. La vedeva bruciare nei suoi occhi.

    Patrick cominciò a tirare su col naso. David prese una confezione di fazzoletti dal cassetto e gliela posò davanti, senza dire una parola.

    «Forse dovremmo discutere del caso in un altro momento» suggerì, «quando vi sentirete pronti tutti e due.»

    Mary sollevò di scatto il mento.

    «Siamo pronti adesso, avvocato. Ci chieda quel che vuole.»

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