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Il codice (eLit): eLit
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About this ebook

Office 119 1

La verità è un'illusione per cui l'uomo è disposto a tutto. Per conoscerla e per tenerla nascosta. Perché la conoscenza dà potere, il potere ricchezza e la ricchezza aumenta il potere. Sembra un gioco, per cui qualcuno, però, è pronto a uccidere, altri a morire. Questa verità misteriosa, occulta, risale alla notte dei tempi ed è custodita in un codice che si pensa possa trovarsi in Guatemala. E mentre qui viene assassinato l'ambasciatore americano, negli Stati Uniti si spara a uno dei candidati alla Casa Bianca. Tom Lawton, agente F.B.I sospeso dal servizio, viene contattato da una donna misteriosa, che promette di fargli scoprire cosa sta dietro l'ultimo attentato e molto di più. L'amica e collega di Tom, Miriam, viene invece spedita a indagare sulla vicenda in Guatemala. Fatti distanti, realtà tra loro lontane. Eppure non potrebbero essere più vicine.
LanguageItaliano
Release dateApr 30, 2018
ISBN9788858985298
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    Il codice (eLit) - Rachel Lee

    successivo.

    Prologo

    Akhetaton, Egitto

    1329 a.C.

    Tutu contemplava la spietata distruzione con il cuore pesante. Il suo signore e protettore, Akhenaton, era morto insieme con la bella moglie, Nefertiti, selvaggiamente uccisi durante un colpo di stato dei religiosi, e i loro corpi erano stati fatti a pezzi e abbandonati agli sciacalli.

    Lo stesso Tutu era fino a quel momento scampato al massacro, solo perché al momento della sollevazione si trovava fuori città, ma se lo avessero trovato, lo avrebbero certamente ucciso.

    Il ciambellano reale non poteva restare in vita, Tutu aveva studiato troppo, letto troppo, anche se non fosse stato a fianco di Akhenaton per sfruttare quelle conoscenze quando più contava. Doveva morire e ciò che aveva appreso doveva morire con lui.

    Tutu non si curava della propria vita. Era vecchio, e la morte lo avrebbe comunque reclamato abbastanza presto, ma le sue conoscenze dovevano sopravvivere.

    Nascosto tra le rovine di quello che un tempo era stato il villaggio degli operai, Tutu non poté trattenere una risatina nel pensare all'ironia di quanto era accaduto. Se Akhenaton non fosse stato allevato da un ebreo, avrebbe forse conservato il nome che gli era stato imposto alla nascita, Amenhotep Quarto. Come suo padre e suo nonno prima di lui, avrebbe regnato sulla città di Tebe. Sarebbe rimasto nelle buone grazie dei sacerdoti di Amon. E forse sarebbe stato ancora vivo.

    Invece, Tutu e il giovane Amenhotep erano cresciuti giocando con un bambino che la madre di Tutu aveva trovato in una cesta di vimini sul Nilo. Tutu e il giovane principe si nascondevano nell'ombra quando l'amico ebreo ascoltava le parole di saggezza del suo popolo. Dopo, sgattaiolavano tutti e tre insieme per discutere in segreto di ciò che avevano udito.

    I segreti avevano forgiato la vita di Akhenaton fin dall'infanzia, e avevano finito col consumarlo.

    Forse la colpa era sua, pensò Tutu non per la prima volta. Il giovane Amenhotep e il suo amico si sarebbero imbattuti casualmente nei codici segreti? Probabilmente no.

    La scrittura e i suoi misteri erano il dono di Tutu... e la sua maledizione. Profondo conoscitore dell'ebraico come dell'egizio fin da ragazzo, Tutu aveva trascritto le storie ascoltate basandosi sulla sola memoria. Per quelle egizie, adottava la scrittura reale dei geroglifici; per quelle ebraiche usava la propria lingua. Questo era stato a un tempo motivo del suo trionfo e della sua caduta.

    Perché quando Amenhotep era salito al trono, Tutu non fu più costretto a nascondere il fascino che esercitavano su di lui i rotoli ebraici che aveva scritto da bambino. I rotoli che avevano cominciato a svelare misteri codificati che andavano oltre la sua immaginazione più sfrenata. I rotoli che ora si trovavano nella borsa che stava ai suoi piedi.

    Tutu aveva condiviso quei misteri con i due giovani amici, e l'attrazione aveva generato nuovi studi e la scoperta di ulteriori misteri.

    Erano stati quei misteri a indurre Amenhotep ad abbandonare i sacerdoti di Amon, a prendere il nome di Akhenaton e a costruire la città che ora veniva distrutta.

    I misteri della Luce. Tutu era il solo guardiano rimasto. Akhenaton era morto. Ricercato per omicidio, l'amico dell'infanzia era scomparso nel deserto. I misteri andavano protetti e spettava a Tutu farlo.

    Con un sospiro, lanciò un'ultima occhiata alla città che per un decennio era stata la sua casa, poi prese la preziosa borsa e l'unica borraccia d'acqua che aveva trovato nella casa di un operaio morto da tempo. Avanzò cauto lungo il margine sinistro della città.

    Era molta la distanza che separava il Nilo dagli accampamenti ebraici, ma loro gli avrebbero offerto un rifugio dove trascorrere i suoi ultimi giorni.

    E forse, fra loro avrebbe trovato un giovane o due a cui insegnare. Se solo la Luce gliene avesse concesso il tempo.

    1

    Città del Guatemala, Guatemala

    Tempi odierni

    Seduto su una panchina del Parque Centro-América, Miguel Ortiz osservava il crescente traffico mattutino... negozianti e uomini d'affari diretti al lavoro quotidiano, diplomati che raggiungevano i loro uffici, turisti che sciamavano dagli hotel come formiche in cerca di cibo.

    Il sole era alto all'orizzonte e già riscaldava l'aria resa pesante dalla pioggia della notte prima. Miguel rivolse un cenno alla coppia seduta su una panchina vicina.

    Era ora.

    Gli sembrava di aver dedicato tutta la sua vita alla preparazione di quel giorno, benché in realtà fino a quattro anni prima non avrebbe mai immaginato di poter fare una cosa simile.

    Era passato davvero tutto quel tempo dal giorno in cui, rincasando da scuola, aveva trovato suo padre impiccato a un lampione davanti a casa? Aveva guardato il suo viso, gonfio e tumefatto, e in quel momento aveva compreso quale sarebbe stato il suo futuro.

    Suo padre era stato un uomo innocente, un contadino Quiché che si guadagnava a stento da vivere lavorando la terra impoverita. I gringos non se ne erano curati.

    Lo zio di Miguel era morto per difendere il segreto della famiglia, ma non prima di avere ucciso i due gringos che lo avevano torturato.

    Nel paese di Miguel, il sangue chiamava sangue. Suo zio aveva versato sangue gringo, e i gringos si era vendicati versando quello di suo padre. Quel giorno, lui avrebbe versato il loro. Così andava il mondo. Il suo, e probabilmente, quello dei suoi figli. Se fosse vissuto abbastanza per averne.

    In quegli ultimi quattro anni, la visione del futuro si era come oscurata. Un tempo si era immaginato con una moglie, a lavorare nella fattoria del padre, crescendo i suoi figli. Un tempo, era stato così sciocco da pensare che l'ottimismo del padre non fosse infondato, che gli accordi di pace sarebbero stati rispettati, che quel paese avrebbe conosciuto la stabilità, che un giorno, andando in città, non avrebbe visto uomini in uniforme armati di mitra. Giovane e ingenuo, lo aveva creduto possibile.

    Tutto era crollato nel momento in cui si era trovato in una strada sterrata accanto a una pozza di sangue che già si andava seccando, un testamento alla morte di suo padre. Sangue chiamava sangue. Niente di più. Niente di meno.

    Infilò la mano nel sacchetto di plastica che aveva accanto e sfiorò il grosso calcio dell'AK-47.

    Il legno era scabro nel punto in cui lo aveva segato. Aveva preso in considerazione la possibilità di carteggiarlo, ma alla fine aveva deciso di no. La vita non scorreva liscia. Graffiava i nervi e lasciava schegge nella mente.

    Un'arma non doveva fare di meno.

    Anche la coppia era armata, lui con un altro AK, lei con una calibro nove e un panetto di esplosivo al plastico nella borsetta.

    Era stato il comandante dei guerriglieri a procurare il C-4. L'uso di esplosivi dei gringos era deliziosamente ironico.

    Miguel non ne conosceva con precisione la provenienza... non sapeva che in Georgia un caporale li aveva venduti a un amico dagli occhi allucinati che anelava a ripristinare la purezza della razza bianca, per poi venire rivenduti più volte da chi viveva e moriva secondo il credo del guerriero, fino a prendere l'aspetto di un pane di argilla grigia che si era fatto strada fino agli altopiani guatemaltechi.

    Non conosceva i particolari, ma aveva imparato abbastanza di ciò che serviva per uccidere da capire che proveniva dall'esercito degli Stati Uniti. Era perfetto.

    Era perfetto, perché i guerriglieri gli avevano insegnato anche la storia del suo paese, il ciclo infinito di violenza che aveva quasi annientato i bianchi del suo popolo, iniziato nel 1954 quando, per proteggere gli interessi della United Fruit Company, la CIA aveva favorito e finanziato il colpo di stato che aveva destituito il presidente eletto, Jacobo Arbenz Guzman, sostituendolo con un dittatore militare.

    Da allora, i gringos avevano continuato a finanziare un regno del terrore, addestrando gli squadroni della morte alla School of the America.

    Più di duecentomila connazionali di Miguel erano morti. Perché tutti i bambini americani potessero avere la loro banana.

    Questa era la storia ufficiale.

    La verità, come Miguel sapeva, era completamente diversa. Guzman non si sarebbe limitato a nazionalizzare le fattorie del paese, garantendo così una migliore qualità della vita per i Quiché Maya. Lavorava anche all'autenticazione e pubblicazione di un documento che avrebbe cambiato il mondo.

    I gringos non potevano permetterlo. Chiunque fosse in qualche modo legato al documento era stato ucciso, compreso il nonno di Miguel.

    Ma quel giorno, lui avrebbe restituito il colpo. L'operazione di quel giorno non sarebbe stata il primo colpo, né il più grande. Ma era il colpo di Miguel.

    Sentì il rombo del motore prima ancora di vedere la macchina.

    In perfetto orario. La limousine blindata che trasportava l'ambasciatore gringo attraversava le strade come un governatore romano avrebbe percorso una nazione di schiavi. Ma questa non è una nazione di schiavi, pensò Miguel. E voi non siete i benvenuti.

    Si alzò e preso il sacchetto si incamminò come per dirigersi al posto di lavoro. E, per un certo verso, era davvero così.

    La coppia lo vide e lo imitò, due giovani amanti che salutano il nuovo giorno tenendosi a braccetto. All'angolo Miguel si fermò ad accendere una sigaretta. Fece per rimettere l'accendino in tasca, invece lo lasciò cadere nel sacchetto. Scuotendo appena la testa, posò il sacchetto per terra e si chinò, osservando con la coda dell'occhio la limousine e la giovane coppia.

    Il tempismo era perfetto. Proprio come durante le esercitazioni.

    La coppia aveva quasi attraversato la strada quando l'auto fu vicina. La donna si portò una mano alla fronte e si fermò, come se avesse improvvisamente ricordato qualcosa.

    Miguel strinse le dita intorno al calcio della AK-47 e si rialzò nell'istante in cui la limousine rallentava per schivare la donna.

    Sparò, sapendo che i proiettili non avrebbero perforato i vetri, ma che la ragnatela che si sarebbe aperta sul parabrezza avrebbe costretto l'autista a fermarsi, prima che l'addestramento ricevuto prendesse il sopravvento e lui pigiasse sull'acceleratore.

    In quella breve pausa, la ragazza si mosse con rapidità e precisione, dando l'impressione di volersi riparare dietro la limousine quando, di fatto, stava piazzando l'esplosivo sotto il telaio. Intanto, il suo compagno aveva estratto l'arma da sotto la giacca e l'auto divenne bersaglio di un fuoco di fila.

    La limousine balzò in avanti, mentre l'autista reagiva esattamente come gli era stato insegnato. Allontanati dalla zona di tiro. Proteggi il capo.

    Miguel e l'altro cessarono il fuoco mentre l'auto passava, così da non colpirsi a vicenda, poi ripresero a sparare.

    Il crepitio dei colpi esplosi, il rinculo rassicurante delle armi, il sibilo dei proiettili che rimbalzavano sulla blindatura, erano esattamente come Miguel li aveva immaginati.

    E lo stesso fu per la palla di fuoco che vide pochi istanti dopo, quando il plastico esplose sotto il serbatoio.

    La detonazione fragorosa, ma quasi vuota, lo raggiunse una frazione di secondo più tardi, seguita da una vampata di calore. Ma era preparato anche a questo, e sapeva che lui e i compagni sarebbero stati protetti dalla decisione dell'autista di allontanarsi velocemente dal luogo della sparatoria.

    Stavano già avanzando verso il veicolo in fiamme, quando le portiere si spalancarono. La donna sparò per prima, due proiettili calibro nove rivestiti di Teflon che penetrarono nel giubbotto antiproiettile dell'autista come coltelli nel burro, devastando gli organi interni. L'ambasciatore fu il secondo a strisciare fuori, e a quel punto Miguel era a soli tre metri da lui, e lo stava aspettando.

    Il diplomatico alzò le mani, uno sguardo supplichevole negli occhi, mentre Miguel sorrideva e gli puntava l'arma alla fronte.

    «Vaya con Dios» disse pieno di amarezza.

    Poi premette il grilletto.

    Una Honda bianca arrivò all'incrocio con uno stridio di freni. Al volante c'era il comandante. Miguel spalancò la portiera dalla parte del passeggero e salì mentre la coppia occupava il sedile posteriore.

    «Vámonos!» gridò il comandante, pigiando sull'acceleratore.

    «Sì» disse Miguel. «Vámonos.»

    «Sangre para sangre» disse ancora il comandante guardando nello specchietto retrovisore.

    , pensò Miguel, che ricordava suo nonno, suo zio, suo padre. Sangue per sangue.

    2

    Fredericksburg, Virginia

    Quando vennero annunciati i risultati delle primarie, Terry Tyson fece un salto ed emise un grido di trionfo che rischiò di assordare Tom Lawton.

    «Sì» esclamò Terry. «Ce l'ha fatta!»

    Grant Lawrence si era in effetti accaparrato la nomination democratica alla presidenza con un solido vantaggio in Florida, Texas e Louisiana.

    Accanto a lui, Miriam prese un tovagliolino per tamponare lo champagne che le aveva macchiato i pantaloni. «Terry!»

    «Eh?» fece lui abbassando gli occhi. Il viso color ebano si accigliò. «Scusa, tesoro.»

    Lei gli lanciò un sorriso. «Ehi, sono eccitata anch'io, ma hai rischiato di spaccare i timpani al povero Tom!»

    Tom si unì alla risata, ma gli risultò più difficile di quanto avrebbe dovuto.

    Eccolo lì, nella casa di chi gli aveva fatto da mentore al Bureau, dopo aver passato la serata crogiolandosi nell'evidente simpatia che intercorreva tra lei e Terry. Era stata una serata di buon cibo, chiacchiere e sorrisi. Nessun ruolo sotto copertura. Nessun bisogno di leggere tra le righe, in cerca di velate minacce. Nulla di ciò che aveva sopportato in quegli ultimi tre anni, vissuti in incognito sul lato opaco dello smalto di Los Angeles. Avrebbe dovuto essere un momento di calore. Ma i vecchi istinti, il sommesso sussurro di vita o di morte non volevano andarsene.

    E neppure la furia. Lo aveva fatto sospendere e ora minacciava di divorarlo vivo.

    Miriam se ne era accorta, ovviamente. E così Terry. Loro capivano. C'erano passati entrambi, lei nell'FBI, lui in qualità di agente investigativo della Omicidi a Washington D.C.

    Sapevano riconoscere i segnali, ma erano troppo gentili e troppo esperti per offrire un casuale palliativo.

    Invece, si erano limitati a nutrirlo, ad accoglierlo nel loro soggiorno e a permettergli di starsene tranquillamente seduto mentre loro seguivano i risultati delle primarie e si tenevano per mano come adolescenti.

    «Spero» stava dicendo il senatore Lawrence, sollevando le mani per tacitare una folla di estatici sostenitori, «spero che il risultato di stasera dimostri che il popolo americano sa innalzarsi al di sopra dell'offesa e capire che non è solo il fine a contare, ma anche i mezzi con cui lo si raggiunge. Che è importante non solo fare la cosa giusta, ma farla nella maniera giusta. E se in novembre il popolo americano mi darà fiducia, vi prometto che ci sarà una resa dei conti. Non un tempo di vendetta, ma di giustizia. Non un'orgia di violenza, ma una venerazione dei principi. Non odio, ma speranza. Questa, amici miei, è la via americana. E l'America la percorrerà!»

    La passione delle sue parole scatenò un uragano di applausi che gli impedì di continuare. «Lawrence! Lawrence! Lawrence!» intonò la folla.

    «Al diavolo, è bravo» decretò Terry agitando il pugno.

    «È più che bravo» lo corresse Miriam. «È sorprendente. Non solo, con lui non si tratta di una recita. Lui è davvero così.»

    Tom fece il dovuto cenno di assenso. Nel mezzo del caos di Los Angeles, si era concesso un momento privato per sorridere del modo in cui lei aveva gestito il sequestro di Lawrence.

    Insieme a Terry e l'allora detective di Tampa, Karen Sweeney, aveva liberato le figlie del senatore e salvato lui dal proiettile di un cecchino.

    Successivamente, l'agente investigativo Sweeney si era trasferita a Washington, dove adesso lavorava in squadra con Terry e - la stampa sensazionalistica non risparmiava inchiostro per ricordarlo all'America - era la ragazza di Lawrence.

    Nella mente di Tom non c'era dubbio su dove andassero i voti in quella stanza.

    E forse l'uomo era degno come le sue parole. Lawrence aveva sopraffatto il suo principale avversario democratico, il senatore dell'Alabama Harrison Rice, che più volte aveva chiesto il proseguimento della guerra al terrorismo in Medio Oriente. Rice aveva ribadito la sua posizione solo il giorno prima, in seguito all'omicidio dell'ambasciatore americano in Guatemala.

    Tom si era quasi aspettato che il candidato abboccasse, e sfruttasse l'assassinio per ribaltare la sua politica e quindi rafforzare la sua immagine per quanto atteneva alla sicurezza. Certo nessuno lo avrebbe biasimato, e anzi, molti esperti avevano previsto una simile mossa.

    Lawrence, invece, non aveva esitato un solo istante. La sua reazione era stata breve e diretta.

    «L'omicidio del nostro ambasciatore» aveva detto, «seppure barbaro, deve farci riflettere sulla violenza che dilania il Guatemala. Non c'è motivo di collegare questo crimine ai recenti attacchi alle basi statunitensi in Iraq. La soluzione alla guerra è dire basta alla guerra. E, da presidente, io mi muoverò verso una giusta pace.»

    Tom ne era rimasto impressionato. Avrebbe voluto che Grant Lawrence fosse stato il suo Agente Speciale a Los Angeles. Allora forse le cose sarebbero andate in modo diverso. Forse ora una bambina non lo avrebbe odiato e lui non avrebbe fracassato il naso al suo capo.

    Poi serrò i pugni e rammentò a se stesso che quelli erano solo desideri. Con ogni probabilità, Grant Lawrence era solo un altro camaleonte politico. Come il suo ex capo, con un occhio alla promozione e non alle vite che ne sarebbero state toccate.

    Si costrinse a riportare l'attenzione sull'apparecchio televisivo. Lawrence era riuscito ad acquietare la folla e aveva ripreso a parlare.

    «Per quanto gioiosa sia questa serata» disse, «devo fare una pausa per ricordare il dolore della signora Kilhenny e dei suoi figli. Nulla di quanto posso dire o fare potrà lenire la loro sofferenza. Ho incontrato Bill e Grace Kilhenny un mese fa, quando sono andato in Guatemala per vedere con i miei occhi le condizioni in cui versa il paese. Era un abile diplomatico, uno splendido ospite e un uomo davvero coraggioso.»

    Seguì un lungo silenzio che abbracciò sia il quartier generale di Lawrence sia l'appartamento.

    Nell'arco di un minuto, il senatore aveva spazzato via le trappole del potere e della politica per concentrarsi sulla sofferenza di un'unica donna. Perfino Tom ne fu commosso.

    Tampa, Florida

    Grant Lawrence scrutò il mare di facce fino a trovare quella che voleva realmente vedere. Karen. Lei era in piedi vicino a una delle porte di servizio, e sorrideva.

    Grant rimpianse di non essere lì con lei. Ma questo avrebbe equivalso a una proposta di matrimonio in pubblico, un passo che non erano ancora pronti a compiere.

    Lei, dopotutto, era un poliziotto. E il suo non era solo un lavoro, bensì una grossa parte della sua identità. Se lui avesse vinto - e quella sera tutti i sogni sembravano a portata di mano - non avrebbero potuto stare insieme. Karen non avrebbe potuto operare come agente della Omicidi tallonata da una scorta dei Servizi Segreti.

    E il paese non avrebbe tollerato una First Lady con un lavoro. Lui lo sapeva, lei lo sapeva. Era la nuvola scura che minacciava l'argento di quella vittoria.

    Lawrence avrebbe voluto ritirarsi dalla gara, restare senatore, così che loro potessero avere una vita insieme. Karen, tuttavia, aveva strenuamente rifiutato di permetterglielo. Diceva che amava troppo lui, e il suo paese, per consentirglielo.

    E così adesso era lì. E c'era lei. L'abisso fra il podio e quella porta sembrava insormontabile.

    Fu pensando a questo che guardò i suoi sostenitori, poi il discorso preparato. Infine lo mise da parte.

    «Amici, ho del lavoro da fare. Non solo nei prossimi otto mesi, ma per i prossimi quattro anni. Non sarà facile. Non si conquistano facilmente giustizia, pace e prosperità. I mesi passati hanno messo alla prova il nostro impegno, ma era solo l'inizio. Prove più grandi ci attendono. Sono certo che se ci impegniamo ad affrontarle insieme, a sostenere le sfide, a mettere le ali ai nostri sogni e dedicare la vita ai nostri ideali, sapremo trasformare noi stessi e la nazione. Possiamo essere, con le parole di Abraham Lincoln, l'ultima, più grande speranza. Questa sera vi dico, mi impegno a questa ultima, più grande speranza. Unitevi a me. Statemi accanto. E insieme conquisteremo la vittoria!»

    Il ruggito della folla fu quasi assordante. Grant si voltò e vide il sorriso di Jerry Connally.

    Il vecchio amico lo raggiunse, offrendogli la mano. Grant lo abbracciò, perché quell'uomo era stato al suo fianco in Senato per otto anni, nei momenti duri e bui che la politica e la vita possono offrire.

    Certo quella era la serata di Jerry non meno che di Grant.

    «Wow, capo» gridò Jerry per farsi sentire al di sopra del frastuono. «Non so da dove tu abbia tirato fuori quelle parole, ma sarà meglio che tu non le dimentichi.»

    «Grazie, amico mio» disse Grant.

    «Grazie a te. Ma il meglio deve ancora venire. Per tutti noi.»

    «Speriamo.»

    «A proposito, capo, in corridoio ci sono almeno duecento persone che non sono riuscite a entrare. Dovresti uscire e far loro capire che non sono rimaste escluse.»

    «Giusto» assentì il senatore. «Hai ragione. Fammi strada.»

    «Non è sorprendente?» esclamò Miriam.

    «Come sempre» disse Terry. «Se questo autunno il paese non lo elegge, perderà una grandissima opportunità.»

    Tom si limitò a un cenno e a un sorriso forzato. Sì, il discorso di Lawrence era stato un encomiabile esempio di retorica politica. Se ci fosse dell'altro, questo restava ancora da vedere.

    Guardò il senatore lasciare il palco e scendere fra la folla. Di sicuro era uno che sapeva apprezzare la gente.

    Tom ricordava ancora il momento in cui aveva provato la stessa sensazione. In seguito, la gente dovette evitarla.

    Perfino lì, con Miriam e Terry, evitava un contatto reale. Il contatto portava solamente tradimento e dolore.

    Uno schiocco simile a quello del popcorn lo strappò ai suoi pensieri.

    «Che diavolo...» disse Terry, gli occhi fissi sullo schermo.

    «Dio, no» sussurrò Miriam, sbarrando gli occhi.

    La telecamera colse tutti i ripugnanti dettagli. Il sorriso di Lawrence svanì bruscamente, lasciando il posto a un'espressione vuota mentre si accasciava al suolo.

    Tom Lawton aveva già visto quell'espressione e non ebbe bisogno di ascoltare le parole del cronista.

    «Mio Dio, gli hanno sparato. Hanno sparato a Grant Lawrence.»

    3

    Washington D.C.

    «Voglio Tom Lawton nella mia squadra» disse Miriam con fermezza.

    «No» replicò Kevin Willis. «Mi dispiace, ma no.»

    Lei gli scoccò un'occhiata disgustata mentre insisteva: «Tom è l'investigatore più in gamba con cui abbia mai lavorato. Sa pensare e il suo

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