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Demon's touch (eLit): eLit
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Demon's touch (eLit): eLit
Ebook476 pages14 hours

Demon's touch (eLit): eLit

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About this ebook

I Signori degli Inferi: seducenti guerrieri immortali, legati da un'antica maledizione che nessuno è mai riuscito ad annullare...



Un guerriero che non si può toccare senza morire... Una donna che desidera solo averlo per sé...

Torin, posseduto dall'odioso demone della Malattia, sa di essere condannato alla solitudine perché il minimo contatto con la sua pelle causa infermità e morte e scatena terribili epidemie. Il piacere carnale che tanto brama è destinato a rimanere per l'eternità una mera fantasia, un sogno irrealizzabile. Finché non incontra Keeley, la Regina Rossa, una creatura dal fascino conturbante e letale che fin dal primo incontro mette a dura prova il suo ferreo autocontrollo. Immortale e bellissima, lei è decisa a sedurlo con ogni mezzo, ma la battaglia dei sensi che ingaggia con il Signore degli Inferi potrebbe rivelarsi devastante per entrambi. E Torin può fare affidamento solo sulla propria forza di volontà per impedire a Malattia di ucciderla e strappargli così anche l'ultimo brandello di anima.



In attesa dell'uscita dell'ultimo episodio della serie de I Signori degli Inferi, sempre su eLit a ottobre, non perdete l'occasione di rileggere gli altri avvincenti episodi della saga.
LanguageItaliano
Release dateSep 29, 2017
ISBN9788858975992
Demon's touch (eLit): eLit
Author

Gena Showalter

Tra le autrici più amate e lette dal pubblico italiano.

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    Book preview

    Demon's touch (eLit) - Gena Showalter

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    The Darkest Touch

    HQN Books

    © 2014 Gena Showalter

    Traduzione di Anna Polo

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2015 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5897-599-2

    1

    «Non morire. Non azzardarti a morire.» Torin frugò frenetico in uno zaino pieno zeppo di indumenti, armi e medicinali. Lo aveva preparato alcuni giorni prima, riempiendolo con qualsiasi cosa gli era venuta in mente. Non c’era un paradenti. Pazienza, avrebbe dovuto farne a meno.

    Corse verso la figura immobile e si mise a cavalcioni su di lei. La sua vita preziosa scivolava via a ogni secondo che passava. Il massaggio cardiaco era la sua ultima speranza; erano chiusi in una segreta e nella loro cella non c’era nessun altro, dunque toccava a lui eseguirlo. A lui, che di rado si avvicinava così tanto a un’altra persona.

    Appoggiò le mani coperte dai guanti sul petto delicato di Mari, ma invece di procedere come avrebbe dovuto si ritrovò ad assaporare quella rara e straordinaria connessione con il sesso opposto. Così soffice, così deliziosa.

    Cosa diavolo sto facendo? Contrasse la mascella e cominciò a spingere.

    Crack.

    Troppo forte. Le aveva appena rotto lo sterno e probabilmente diverse costole.

    Il senso di colpa gli trafisse il cuore e avrebbe provato dolore se l’organo non fosse già stato spezzato in maniera irreparabile. Premette con maggiore delicatezza sul petto di Mari. Bene, così. Aumentò piano piano la velocità, chiedendosi cosa l’avrebbe aiutata e cosa avrebbe arrecato ulteriori danni.

    «Forza, Mari.» Era umana, ma forte. Fragile, ma resistente. «Resta con me. Puoi farcela, lo so.»

    La testa ciondolò di lato, gli occhi vitrei e sbarrati.

    «No! No!» Controllò il polso e attese trepidante, ma non sentì nemmeno un debole battito.

    Riportò le mani sul petto di lei per ricominciare, lo sguardo puntato sulle labbra insanguinate. La mente la implorava di dischiuderle, di lasciarsi sfuggire un colpo di tosse. Un segno di malattia, certo, ma era meglio essere malati che morti.

    «Mari, ti prego» proruppe con voce rotta dalla disperazione. Non posso essere io a uccidere una creatura così dolce.

    Torin spinse più forte e sentì un altro schianto.

    Maledizione. Non era un tipo piagnucoloso, eppure sentiva le lacrime bruciargli gli occhi.

    Era giunto a considerare quella ragazza un’amica; non ne aveva molti, nonostante vivesse da secoli, ma proteggeva sempre le persone care.

    Fino a quel momento: se non fosse stato per lui, Mari non si sarebbe mai ammalata.

    Le sentì di nuovo il polso: niente battito.

    Si rimise all’opera imprecando tra i denti. Cinque minuti, dieci, venti. Lui era il solo che, in quel momento, poteva frapporsi tra lei e la morte; avrebbe fatto tutto il necessario per tenerla in vita.

    Forza, Mari. Devi farcela.

    Passò un’altra eternità senza alcun cambiamento e Torin fu costretto ad ammettere che i suoi sforzi erano vani. Mari se n’era andata.

    Era morta, e non c’era niente che potesse fare per riportarla in vita.

    Balzò in piedi con un ruggito e prese a misurare la cella a grandi passi, come un animale in gabbia. Le braccia tremavano, la schiena e le cosce gli facevano male, ma il dolore fisico era nulla in confronto alla sofferenza mentale. Era tutta colpa sua. Sapeva quello che sarebbe successo se l’avesse toccata, eppure l’aveva fatto lo stesso.

    Mostro! Con un altro ruggito Torin prese a pugni il muro, godendosi il dolore implacabile mentre la pelle si lacerava e le ossa si rompevano. Colpì ancora e ancora, incrinando la pietra e sollevando nugoli di polvere tutt’intorno a lui.

    Se soltanto si fosse fermato a domandarsi come mai una ragazza come Mari fosse così affamata di compagnia da acconsentire a stare con lui, lei sarebbe stata ancora viva.

    Torin premette la fronte contro il muro malconcio. Sono il custode del demone della Malattia. Quando accetterò il fatto che sono destinato a restare da solo, senza mai assaporare quello che desidero di più?

    «Mari, cara» risuonò lieve una voce femminile. Per quanto intrisa di panico e dolore, era deliziosa. «Il legame si è spezzato. Perché?»

    Il sangue nelle vene di Torin prese a ribollire, come se si fosse tramutato in benzina e vi avessero gettato un fiammifero acceso. Il battito del cuore si fece più veloce e il bisogno di abbattere le sbarre della cella lo consumò; avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di cancellare la distanza tra sé e la persona che aveva appena parlato.

    Una reazione estrema, lo sapeva. Così come sapeva che quella consapevolezza quasi spasmodica che provava per quella persona era insolita per lui. Era anche incontrollabile e inarrestabile: tutto il suo mondo girava intorno a quella donna.

    Non era la prima volta che succedeva. Ogni volta che parlava – e ciò che diceva non aveva importanza – il suo tono roco prometteva un piacere assoluto, come se non desiderasse altro che baciarlo, leccarlo e succhiarlo.

    Gli istinti maschili che negava da anni gridavano. Vieni, piccola falena. Avvicinati alla mia fiamma, o sarò io a venire da te...

    Torin si avvicinò alle sbarre e, come tante altre volte, desiderò che le ombre tra le celle svanissero. Inutile: la sua figura restava un mistero.

    Quella morbosa ossessione si intensificò; per cinque minuti passati a baciarsi, leccarsi e succhiarsi avrebbe rischiato volentieri di scatenare un’epidemia mondiale.

    Mi odio. Qualcuno avrebbe dovuto fustigarlo.

    «Mari» chiamò la sua ossessione. «Ti prego.»

    Il demone si agitò nella testa di Torin nel disperato desiderio di fuggire. Da lei? Un’altra reazione insolita. In genere Malattia adorava trovarsi vicino a una potenziale vittima.

    Come aveva riso di Mari...

    Odio anche lui.

    «In questo momento Mari non può parlare» disse Torin. In realtà non parlerà più.

    Ammetterlo era come versare sale sulle ferite.

    «Cosa le hai fatto?» lo assalì lei, scuotendo le sbarre della cella.

    Niente. Tutto.

    «Dimmelo!» gridò la donna.

    «Le ho stretto la mano.» Le parole esplosero taglienti e amare, senza che potesse controllarle. «Ecco tutto.» In realtà aveva fatto molto di più.

    Non aveva lesinato tempo e sforzi per affascinarla, nutrirla, parlare e ridere con lei. Alla fine Mari si era sentita a suo agio e lui si era sfilato un guanto e aveva intrecciato le dita alle sue. Di proposito.

    Non succederà niente di male, gli aveva assicurato lei. O forse era stato il suo sguardo a dirglielo. I particolari si perdevano nella nebbia della sua brama di contatto. Vedrai.

    Torin le aveva creduto perché lo desiderava più dell’aria da respirare. L’aveva tenuta stretta come un uomo assetato che scopre l’ultimo bicchiere d’acqua in un mondo che si sta riducendo in cenere. La forza della sua reazione fisica lo aveva fatto quasi cadere in ginocchio, mentre un’ondata di sensazioni lo travolgeva. Morbidezza femminile in contrasto con la sua durezza virile, un profumo di fiori che gli solleticava le narici, i capelli lucenti che gli sfioravano il polso, il calore che si fondeva con il suo, i loro respiri che si intrecciavano.

    Ho sentito una connessione istantanea, una beatitudine immediata e sono quasi venuto nei jeans. E tutto per una stretta di mano.

    Mari era morta per questo.

    Con lui non aveva importanza se il contatto era accidentale o intenzionale, o se la vittima era umana o animale, giovane o vecchia, maschio o femmina, buona o cattiva. Qualsiasi creatura vivente si ammalava dopo averlo toccato, perfino gli immortali come lui. L’unica differenza era che loro sopravvivevano, diventavano portatori di qualsiasi malattia avessero contratto da lui e contagiavano altri. Come umana, Mari non aveva mai avuto la minima possibilità di farcela.

    «Dimmi la verità» ordinò la sua ossessione. «Voglio sapere ogni particolare.»

    Torin non conosceva il suo nome e non sapeva se era umana o immortale. Sapeva solo che Mari aveva fatto un patto col diavolo per salvarla.

    Le due donne erano rimaste prigioniere là per secoli – dovunque si trovasse quel posto – senza aver commesso alcun crimine che lui potesse avvertire. Crono, il padrone della prigione, non aveva bisogno di un motivo per rovinare la vita di una persona.

    E certo aveva contribuito a rovinare quella di Torin.

    Gli doveva un favore; lui aveva sorvolato sulla reputazione ambigua di Crono e chiesto una donna che non si ammalasse toccandolo. Crono non si era preoccupato di cercare una candidata adatta e gli aveva semplicemente fornito una delle sue prigioniere: la dolce, innocente Mari.

    «Crono ha fatto un patto con la ragazza» cominciò.

    «Lo so.» La sua ossessione sbuffava e soffiava come un lupo cattivo. «Mari era costretta a comparire in camera tua un’ora al giorno per quasi un mese, tutto nella speranza di convincerti a toccarla.»

    «Sì» gracchiò lui. In cambio Crono le aveva promesso di liberare la sua più cara amica, ossia la donna che lo stava tempestando di domande.

    Non c’era da sorprendersi che Mari gli avesse mentito.

    Alla fine, però, l’aveva pagata.

    Non appena si era reso conto che Mari stava male Torin avrebbe voluto precipitarsi in ospedale, ma quella stupida maledizione sembrava bloccarla nella prigione con catene invisibili e, alla fine, si era rassegnato a riportarla indietro. In realtà, si era limitato a seguirla mentre si spostava da un posto all’altro in un battito di ciglia, e l’aveva curata meglio che poteva.

    Non era bastato, però. Non sarebbe mai bastato.

    «Non mi interessano i motivi, solo il risultato» disse la donna. «Cosa sta facendo adesso Mari?»

    Si sta decomponendo.

    Non posso dirlo. Non posso proprio. Torin si tolse i guanti in silenzio e usando le mani come vanghe gettò manciate di terra al di sopra della spalla. Non era la prima tomba improvvisata che scavava, ma in quel momento giurò che sarebbe stata l’ultima. Basta con le amicizie estemporanee, basta con le speranze e i sogni impossibili. Era finita.

    «Mi stai ignorando? Hai la minima idea dell’essere che stai provocando?» chiese la donna.

    Torin non si fermò. Avrebbe sepolto Mari, trovato il modo di fuggire da quel buco infernale e ripreso il compito che aveva abbandonato quando aveva scelto di seguire la ragazza. Doveva ritrovare e liberare Cameo e Viola, due amiche scomparse varie settimane prima che comprendevano il suo bisogno di tenere gli altri a distanza.

    «Sono Keeleycael, la Regina Rossa e sarò ben felice di estrarre i tuoi organi interni dalla bocca usando un appendiabiti.»

    Malattia rimase immobile e silenzioso. Anche quella era una novità.

    La Regina Rossa. Il titolo gli suonava familiare. Forse l’aveva visto in un libro per bambini, ma c’era dell’altro. Lo aveva sentito... dove? Un’immagine si formò nella sua mente: un bar fatiscente nei cieli. Ma certo! Quando lavorava per Zeus, il Re dei Greci, aveva rintracciato molti fuggiaschi in quel locale. Il nome della Regina Rossa veniva citato in un sussurro tremante da uomini e donne spaventati, insieme agli attributi pazza e crudele.

    Gli era sempre piaciuto affrontare i predatori più forti e malvagi e una reazione così viscerale l’aveva incuriosito, ma quando aveva chiesto chi era e cosa poteva fare tutti si erano zittiti.

    Forse la donna era la temibile regina di cui parlavano, o forse no; ormai non aveva importanza. Torin non intendeva combattere con lei.

    «Keeleycael» ripeté. «Un nome impegnativo. «E se ti chiamassi Keeley?»

    «È un onore riservato agli amici. Fallo a tuo rischio e pericolo.»

    «Grazie. Lo farò.»

    «Puoi chiamarmi Vostra Maestà» sbuffò lei. «Io ti chiamerò La mia prossima vittima.»

    «Preferisco Torin, Figo o Grandioso.» Nomignoli che potevano aiutare a sorridere nel dolore. Forse sarebbe meglio Proctalgia Fugax. In fondo sono specializzato in dolori del genere, sono una vera spina nel culo.

    «Perché Mari non parla più, Torin?» chiese Keeley, come se stessero discutendo del menu della cena prevista per l’indomani (topo in casseruola).

    Sapeva che la sua amica era morta, vero? Farglielo ammettere era una sorta di punizione.

    «Prima di rispondermi, sappi che preferisco risparmiare il nemico che mi dice la verità, piuttosto che l’amico che mi racconta bugie.»

    Non male come motto. Menti e muori era il suo.

    In effetti, nella sua situazione anche lui avrebbe voluto delle risposte. E se fosse stata lei la responsabile della morte di uno dei suoi amici, avrebbe mosso cielo e terra per fare giustizia. Intrappolati com’erano in quelle celle create per i più forti tra gli immortali, però, non c’era niente che lei potesse fare se non ribollire di rabbia e impotenza. L’emozione sarebbe cresciuta a dismisura, diventando sempre più oscura, fino a condurla alla pazzia. Era un destino crudele.

    E anche una scusa.

    Era ora di ammettere la verità. «Mari è... morta.»

    Silenzio.

    Un silenzio opprimente accompagnato dall’oscurità, come se fossero caduti in una vasca di deprivazione sensoriale.

    Torin prese a parlare, nel disperato tentativo di attenuare il dolore crescente. «Visto che sei al corrente del patto di Crono con Mari, saprai anche che sono uno dei Signori degli Inferi, i guerrieri che hanno rubato e perso il vaso di Pandora, liberando i demoni racchiusi al suo interno. Come punizione siamo stati maledetti e costretti a custodirne uno nel nostro corpo. Io ho avuto in sorte Malattia; basta un contatto con la pelle per ammalarsi. Non c’è rimedio. L’ho toccata... ci siamo toccati e lei è morta» concluse con voce spenta.

    Ancora silenzio.

    Torin chiuse la bocca per non rivelare che gli altri guerrieri custodivano demoni come Violenza, Morte e Dolore, che migliaia di innocenti erano morti per mano loro e altrettanti avevano sofferto per le loro infami azioni. Nonostante tutto, però, i suoi amici non erano spregevoli come Malattia: loro sceglievano le vittime, Torin no.

    Sono proprio un bel premio.

    Chi mai l’avrebbe voluto? Immortale maschio e single cerca qualcuno da amare – e uccidere.

    Non poteva neanche consolarsi con il ricordo di amanti passate. Quando viveva nei cieli era tutto preso dai suoi doveri di guerriero e le donne non gli interessavano... fino a quando il corpo faceva valere le sue esigenze. Ogni volta che sceglieva un’amante, però, l’istinto di dominare e sottomettere lo travolgeva e la sua involontaria brutalità faceva sì che quelle fuggissero piangendo ancor prima di spogliarsi. Il che significava che non si toglievano mai i vestiti.

    Forse avrebbe potuto convincerle a continuare, ma a quel punto il disgusto per se stesso era troppo grande. Eccelleva sul campo di battaglia, ma nel sesso era un disastro. Davvero umiliante.

    Ormai era disposto a scambiare il poco che era rimasto della sua integrità per un contatto pelle contro pelle con qualsiasi cosa. Provava un desiderio disperato di sperimentare ciò che un tempo aveva disdegnato, incapace com’era di combattere i suoi nemici con gli sporchi trucchi che un tempo amava... anzi, che amava ancora.

    «Torin...» cominciò Keeley. Nonostante la tensione, la sua voce gli provocò la solita, avida reazione. «Ti rendi conto di aver ucciso una ragazza innocente, vero?»

    Lui sedette nel buco che aveva scavato, infilò i guanti e appoggiò la testa alle mani. «Sì.» Lanciò un’occhiata a Mari. Probabilmente conosceva la sua condizione, eppure si era fidata di lui, sicura che l’avrebbe protetta.

    E guarda com’era finita.

    «Torin, ti rendi conto che ti punirò per il tuo crimine?» riprese Keeley.

    «Non puoi farmi soffrire più di quanto soffra adesso» rispose.

    «Ti sbagli. Ho sentito parlare di te e dei tuoi amici.»

    E questo cosa c’entrava? «Spiegami cosa intendi e potrei continuare questa conversazione.» Altrimenti avrebbe trovato il modo di uscire da quella cella.

    «Sarai anche il più grande pericolo al mondo per le malattie che provochi, ma nessuno può rivaleggiare con i miei scatti d’ira.»

    Interessante, ma non pertinente. «Vuoi punirmi, o diventare la mia amica del cuore?»

    «Silenzio!»

    Malattia si ritrasse, da vero vigliacco.

    «Hai di certo sentito parlare di Atlantide» continuò lei disinvolta. «Quello che probabilmente non sai è che l’isola è stata inghiottita dal mare perché ero arrabbiata con il suo re.»

    Era la verità, o un’esagerazione?

    In ogni caso quella rivelazione lo eccitava come la sua voce. Finalmente aveva trovato l’avversario dei suoi sogni.

    «Sono molto più che arrabbiata con te, guerriero. Avevo una sola amica qui. Lei è... era... la mia famiglia. » Keeley si interruppe per tirare su col naso. «Non era un legame di sangue, ma qualcosa di molto più grande. Un tempo ero una creatura piena d’odio e lei mi ha insegnato ad amare. E ora tu me l’hai portata via.»

    Il suo dolore lo trafisse.

    «Torin» ripeté. Lui capì d’istinto che quella era la calma prima di una tremenda tempesta.

    «Sì, Keeley.» Se gli avesse chiesto il suo cuore – una vita per una vita – gliel’avrebbe dato.

    La tempesta si scatenò.

    «Ti ucciderò!» urlò lei scuotendo le sbarre della cella con forza crescente. «Sperimenterai un dolore che non hai mai immaginato. Ti farò quello che ho fatto a molti altri. Ti spellerò con una grattugia e farò un frullato con i tuoi organi. Ti sbatterò il cranio così forte che il cervello uscirà dalle orbite.»

    «Io... non so come rispondere.»

    «Non preoccuparti. Tra poco ti mozzerò la lingua e la userò come straccio per i pavimenti, così non dovrai più rispondere a nessuno!» Una pietra scivolò nella sua cella, la prima di una valanga. La rabbia e il dolore le conferivano una forza che secoli di prigionia dovevano averle rubato.

    Sono distrutto. Aveva derubato quella donna della sua migliore e unica amica, lasciandole solo dolore e disperazione.

    È la storia della mia vita.

    Avrebbe voluto che il suo atto successivo lo uccidesse, ma sapeva che, invece, gli avrebbe fatto solo desiderare la morte: ogni ferita danneggiava la sua resistenza al demone, permettendogli di infettarlo, almeno per un po’. Torin non si scostò dal suo proposito: infilò la mano nel petto, ne estrasse il cuore e lo fece rotolare nella cella di Keeley.

    2

    Keeley non era sicura di quanti giorni o settimane fossero passati da quando il guerriero le aveva offerto il proprio cuore ancora pulsante, un macabro regalo che le parti più oscure di lei avevano apprezzato. Sapeva solo che lui aveva passato tutto il tempo a gemere di dolore e a tossire quasi stesse sputando pezzi di polmoni.

    Il suo stesso demone lo aveva fatto ammalare? Be’, se lo meritava.

    Tanta sofferenza aveva attenuato la sua rabbia, ma intendeva lo stesso ucciderlo. Non dimenticherò. No, no, no.

    «È la cosa giusta da fare, non lo credi anche tu, Wilson?» chiese alla pietra che amava seguire ogni sua mossa.

    Come al solito, quello rimase in silenzio. Quell’atteggiamento freddo e indifferente era la sua specialità, ma in fondo la cosa non le pesava; non erano mai andati molto d’accordo.

    «Volevo liberare Mari, sai? Avevo solo bisogno di qualche altra settimana.» O mese, o anno. Il tempo aveva smesso di esistere, ma Mari non si era mai curata di se stessa. Teneva solo a Keeley.

    La ragazza sapeva ciò che lei faceva a se stessa giorno dopo giorno, o meglio, lo sospettava e odiava l’idea che soffrisse. E così la dolce Mari aveva deciso di agire, accettare l’offerta suicida di Crono e fornirle l’unica possibilità di essere liberata, nonostante le veementi proteste di Keeley.

    «Crono non ha rispettato la sua parte dell’accordo» spiegò a Wilson. Mari era morta mantenendo fede alla sua, eppure lei era ancora in prigione.

    Un odio profondo era ormai radicato nella parte più oscura della sua anima e si nutriva della sua amarezza. C’era ancora tanto da fare. Prima di tutto si sarebbe occupata di Torin, poi avrebbe offerto al Re dei Titani lo stesso trattamento un tempo riservato a Prometeo, che non era affatto buono come tutti pensavano. Non aveva regalato il fuoco al mondo, ma provato ad avvolgerlo nelle fiamme.

    «Io, però, l’ho punito» ricordò con una risata maniacale. «Gli ho estratto il fegato ogni volta che ricresceva e l’ho dato in pasto agli uccelli.» Giorno dopo giorno, anno dopo anno.

    Naturalmente Zeus si era assunto il merito della faccenda. Questa volta non andrà così. Sono la Regina Rossa e tutto il mondo finalmente mi conoscerà e temerà.

    «Presto» si ripromise.

    Forse Wilson sbuffò.

    Keeley si rannicchiò in un angolo della cella e trafisse la parte inferiore del braccio con la pietra aguzza come una lama. Il sangue sgorgò dalla ferita e una ragnatela di puntini neri le oscurò la vista. Lei, però, continuò a tagliare in profondità.

    Ho patito cose ben peggiori.

    Come perdere Mari, l’unico raggio di sole in una vita scura come la pece.

    «Mari offriva conforto, non critiche. Non mi ha mai detto una parola crudele.» Keeley puntò il coltello insanguinato verso Wilson. «Tu, invece... Non puoi negare di avermi procurato solo dolore.»

    Il bastardo sogghignò.

    «Mi hai sempre schernito, mentre lei mi riforniva di continuo di cibo. Ho perso il conto di tutti i roditori che mi ha gettato.» Quante persone erano disposte a cedere l’unico pasto che avrebbero potuto trovare, pur sapendo che alla fine sarebbero morte di fame? Nessuno sarebbe mai stato altruista come Mari.

    C’era da stupirsi se tra loro si era formato un forte vincolo? D’altra parte, i vincoli erano la linfa vitale del suo popolo, i Curatori, o, come li chiamavano altre razze, i Parassiti. Quei legami non si potevano vedere a occhio nudo; si attaccavano agli altri come mistici tentacoli e, con o senza la loro approvazione, ne risucchiavano la forza... o qualsiasi altra cosa avessero da offrire.

    Più legami Keeley riusciva a stabilire, più cresceva il suo potere e il controllo su di esso. Doveva stare attenta, però: i vincoli funzionavano nei due sensi. Prendeva, ma anche dava. Non era divertente quando la sua forza veniva usata contro di lei.

    Il legame non aveva aiutato Mari e ora non avrebbe più potuto farlo.

    La rabbia di Keeley tornò, cento volte più forte. Lasciò cadere il coltello con un urlo. La prigionia aveva eliminato la sua umanità. Le guance rigate di lacrime brucianti, strappò pezzi di pietra dai muri fino a distruggersi le unghie.

    Una regina non piange.

    Una regina. Non. Piange.

    Le lacrime erano una debolezza che non poteva permettersi. Keeley si asciugò gli occhi. Le tremavano le braccia e l’ultima ferita protestò sanguinando ancora di più. Inspirare... espirare.

    Le restava un unico vincolo, quello che la legava alla terra tutt’intorno. Doveva farselo bastare per tutto ciò che aveva pianificato.

    Si lasciò cadere vicino a Wilson. «Mi rafforzerò. Ci riuscirò» proclamò decisa.

    Lui non pareva convinto.

    Keeley sollevò il mento. «Nessuno mi deruba e vive abbastanza a lungo da raccontarlo in giro.»

    Aveva posseduto così poche cose di cui fare tesoro. Un reame, fino a quando tutti i suoi abitanti l’avevano respinta. Un fidanzato, fino a quando non l’aveva ingannata e tradita e poi Mari, che non l’aveva mai fatta soffrire.

    E ora era scomparsa per sempre.

    Un singhiozzo la scosse.

    Una regina non piange. Una regina sopporta.

    «Sono solo una ragazza.» Quell’ammissione le bruciò la gola come se avesse inghiottito dell’acido. «Una ragazza rimasta senza la sua amica.»

    «Mi dispiace. Mi dispiace tanto» rantolò Torin.

    Era già guarito? Troppo presto. «Le tue scuse non basteranno mai.» Scagliò altre macerie nella sua cella e Wilson rotolò fuori.

    Lo chiamò frenetica, ma quello rimase nel corridoio, fuori portata.

    «E va bene» sbottò, con il mento che tremava. «Resta pure lì. Tanto non sei nulla senza di me. E comunque non mi sei mai piaciuto.»

    «Keeley?» la chiamò Torin.

    Rifiutata da una pietra. «Stanne fuori, guerriero. Questa è una faccenda tra me e Wilson.» Troppo agitata per sedersi, Keeley si spostò verso il centro della cella. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

    Almeno in teoria. Sono sola. Di nuovo.

    «Sono qui da secoli e Wilson è sempre rimasto con me» borbottò rivolta a se stessa. «Perfino quando ero incatenata al muro.» Disarmata, si era vista costretta a divorarsi i polsi per liberare le braccia. Quando le mani erano ricresciute aveva affilato ossa e pietre per tagliarsi i piedi e liberare anche le gambe. «E ora mi abbandona? È proprio un bastardo come Crono.»

    Be’, si sarebbe perso il gran finale. Avrebbe finito di eliminare le cicatrici procurate dai cristalli di zolfo – un processo lungo e doloroso – e poi... boom!

    Le cicatrici avevano un nome: protezioni. Sì, così le chiamava il suo popolo.

    Dovette fare vari tentativi, tanto erano gonfie le dita, ma alla fine riuscì a stringere il coltello. «Stupide protezioni e stupidi cristalli di zolfo» borbottò.

    In un certo senso erano la Kryptonite della sua razza, il suo peggior incubo.

    Passare i cristalli solforici sullo spirito o la carne avrebbe sfigurato perfino un immortale, ma nel suo caso le cicatrici causavano anche debolezza. Se avessero raggiunto un certo numero avrebbero annientato il suo potere, per quanto immenso fosse.

    Non poteva punire Torin e Crono fino a quando non avesse rimosso ogni cicatrice. E sì, quei due andavano assolutamente puniti.

    Dato che a volte la carne si riformava lasciando intatte le cicatrici, era un lavoro meticoloso e frustrante. Tutto dipendeva dalle condizioni del suo corpo; se era ben nutrita poteva creare nuove cellule, ma se moriva di fame riusciva giusto a rigenerare quelle vecchie.

    È per questo che nelle ultime settimane ho conservato ogni insetto capitato nella mia cella. Anche gli scarafaggi morti. Stamattina ho fatto proprio una bella colazione.

    Un tempo le cicatrici la ricoprivano tutta. Per rimuoverle dalla schiena aveva dovuto strofinarsi contro i muri. Il viso, il torace e le gambe erano stati più facili, ma il processo non si era rivelato meno doloroso. Ora le restava qualche piccola cicatrice su un braccio, dopo averlo rigenerato più e più volte.

    Non questa volta.

    «Mi dispiace moltissimo» ripeté Torin.

    Se non lo avesse odiato tanto, la sua voce roca e virile l’avrebbe eccitata. Il suo rimorso era sincero?

    «Almeno hai ancora Wilson, chiunque sia» aggiunse.

    «La mia pietra preferita. Ci siamo separati da poco. Ognuno per la sua strada.»

    «Oh, mi... mi dispiace anche per questo.»

    «Non è il caso. Lo abbiamo deciso di comune accordo.»

    Una pausa. «Mi dispiace lo stesso.»

    «Risparmia il fiato, visto che tra poco non ne avrai più.» Strinse il coltello. Ciò che era stato non si poteva più cambiare. Mai. «Ho già commesso una volta l’errore di perdonare qualcuno che mi aveva fatto un torto.» L’uomo che amava e voleva sposare. «Da allora ho dovuto sopportarne le conseguenze.»

    Anche se... forse avrebbe dovuto essere grata ad Ade. Prima di conoscerlo controllava a stento le proprie capacità. Con un’unica esplosione di potere aveva massacrato metà del suo popolo in meno di un secondo. Gli altri avevano cercato vendetta.

    Ade era venuto in suo soccorso e l’aveva portata negli inferi, la sua casa. Le aveva insegnato tutto ciò di cui aveva bisogno non solo per sopravvivere, ma anche per prosperare. L’aveva perfino lodata quando aveva raso al suolo il suo palazzo, costringendolo a costruirne un altro. La mia meravigliosa, intrepida ragazza.

    Keeley affondò il coltello fino all’osso.

    «So che brami vendetta...» La voce di Torin si inserì come una scialuppa di salvataggio nel mare agitato della sua ira. «... ma anche se potessimo uscire, non potrai ottenerla. Se mi tocchi ti ammalerai.»

    Sembrava che avesse dei rimorsi anche riguardo a quello. Era di sicuro una bugia.

    «Ucciderti non è l’unico modo di ottenere vendetta, guerriero.»

    Una pausa carica di tensione. «Cosa vuoi dire?»

    «Ti ho raccontato che ho sentito parlare di voi, no?» Galen, custode del demone della Speranza e acerrimo nemico dei Signori degli Inferi era stato prigioniero là per mesi. Avevano passato le prime settimane scambiandosi informazioni e avrebbero continuato a farlo, se lui non fosse deperito per la fame e la malattia, chiudendosi in un cupo silenzio.

    Un vero peccato. La conoscenza era più preziosa dell’oro e Keeley voleva accumularne sempre di più. Era per questo che aveva organizzato una rete di spie da un capo all’altro del mondo. Sapeva cose che perfino i Titani e i Greci ignoravano. Doveva solo ricordarsele.

    «Tu ami i tuoi amici» aggiunse. «Ti dai da fare per loro. Li proteggi.»

    «E questo cosa c’entra?»

    Come ex soldato della guardia reale greca, al cui confronto i gladiatori romani erano dei buoni a nulla, doveva sapere dove voleva andare a parare. «Fermami se l’hai già sentita, ma... posso ucciderli.»

    Le sbarre della gabbia di Torin tremarono.

    Colpito in pieno.

    «Non ti avvicinerai a loro!» sbraitò. O gli erano tornate le forze, o era la rabbia a spronarlo. «Non ti hanno fatto niente.»

    «Come Mari a te?»

    «Non eri presente. Non sai come sono andate le cose, eppure mi incolpi per l’incidente.»

    «Sappiamo tutti e due che sei tu a sentirti in colpa. Perché non dovrei accusarti?»

    Passò un momento. Quando Torin riprese a parlare, il suo tono era freddo, controllato e quasi languido. «Non fare la strizzacervelli con me, principessa. Mi sento in colpa, certo. Puoi anche prendertela con me, ma con nessun altro.»

    Lei sollevò il mento anche se lui non poteva vederla. «Sono una regina. Chiamami di nuovo principessa e prima di ucciderti ti castrerò.» Per molti anni la castrazione era stata il suo castigo preferito. Il segreto stava nella rotazione del polso.

    «Dovresti essere contenta che ti chiami così» borbottò lui.

    «E tu dovresti sapere che farò tutto quello che mi sembrerà adeguato a chiunque se lo meriti.»

    «Il tuo comportamento mi fa pensare che non ti renda conto dell’enorme errore che stai commettendo.» Era passato dalla calma al fascino, ma nella voce si sentiva una nota d’acciaio. «Puoi anche essere la Regina Rossa temuta dagli immortali, ma io sono un guerriero da cui guardarsi. Sul campo di battaglia adoro fare a pezzi i miei avversari e l’odore del sangue mi piace. Mi rinvigorisce. Le grida di dolore mi sembrano la colonna sonora ideale mentre mi esercito.»

    Nel loro mondo la forza era importante e il modo in cui si era appena descritto...

    Sexy.

    No, non sexy!

    «Mi fai sbadigliare.»

    Le sbarre vibrarono ancora più forte. «Che cosa?»

    «Per tua informazione, mi sono mangiata a colazione moltissimi guerrieri come te.»

    Lui non fece una piega. «Hai sputato o inghiottito? Non importa. Le tue perversioni sessuali ora non c’entrano. Se potessi concentrarti lo apprezzerei.»

    Lei arrossì. «Non parlavo di quello

    «Non sono qui per giudicarti. Sono qui perché speravo...» Si fermò e un senso palpabile di meraviglia appesantì l’aria che non perdeva mai del tutto la puzza di sporcizia e corpi non lavati.

    Cosa stava succedendo? «Speravi... cosa? Di aiutare Mari? Be’, è troppo tardi. Non lo hai fatto. Lei non c’è più e...» Il mento le tremava con tale violenza che faticò a pronunciare le parole successive. «Qualcuno deve pagare per questo. Più di uno.»

    «Fidati di me. Sto... pagando.» L’ultima parola fu accompagnata da un cigolio di cardini arrugginiti, seguito da un rumore di passi.

    Keeley aggrottò la fronte confusa. Possibile che fosse... scappato?

    Balzò in piedi e il coltello le sfuggì di mano. Torin era in piedi davanti alla sua cella, con uno zaino che gli pendeva dalla spalla ed era... tutto ciò che una ragazza poteva desiderare e anche di più. Era la perfezione assoluta, con il suo aspetto da mercenario e spietato assassino. Il mio genere preferito. Il mio debole.

    Aveva passato secoli senza vedere e toccare un’altra persona. Perché Torin doveva essere così magnifico? I capelli erano candidi, le ciglia e le sopracciglia scure e il contrasto era una vera delizia sensuale, ma erano gli occhi a costituire il suo tratto più incredibile. Sembravano smeraldi purissimi e perfetti, screziati da diverse sfumature di verde.

    Terminazioni nervose estinte da tempo tornarono alla vita, la bocca si inumidì e il sangue parve ribollire nelle vene come lava.

    Copri la distanza... Toccalo.

    No, assolutamente no. Be’, forse. Uno strappo nella maglietta lasciava vedere un petto muscoloso del tutto guarito dall’improvvisato intervento chirurgico che aveva eseguito su se stesso. Assapora...

    «Come hai fatto a uscire da una prigione da cui non si può scappare?» chiese. Sono stata in astinenza per troppo tempo, ecco tutto. Un armadillo le avrebbe fatto lo stesso effetto.

    «Un segreto che ho dimenticato» rispose.

    «Questa non è una risposta.»

    «Non voleva esserlo.» La scrutò aggressivo, facendola barcollare. Le pupille si dilatarono e il nero sostituì in fretta il verde in una squisita eclisse causata dal... desiderio? Quel cattivo ragazzo la trovava attraente nonostante le sue stranezze?

    Il sangue pulsò con rinnovata forza.

    E il suo crimine?

    Quella sensazione si attenuò. «Faresti meglio a scappare finché puoi, guerriero.»

    «Altrimenti, principessa?»

    «Altrimenti ti farò ancora più male.»

    Lui si passò la lingua su un incisivo. Stava forse lottando per recuperare la tranquillità? «Ti darò un avvertimento. Uno solo. Non minacciare mai più i miei amici. Se ci provi ti faccio fuori. Non vorrei e magari dopo mi odierò, ma non avrò esitazioni. Sono stato chiaro?»

    Oh, sì, Chiarissimo. «Sei ancora più protettivo di quanto pensassi.»

    Per un attimo sperimentò un’acuta gelosia nei confronti dei suoi amici. Quell’uomo li amava con tutto il cuore. Ora che Mari non c’era più – il dolore è come una lama che mi squarcia il petto – nessuno al mondo l’avrebbe difesa. Non che ne avesse bisogno – Sono e sarò sempre una polveriera pronta a esplodere – ma il gesto le avrebbe fatto piacere.

    Torin scosse le sbarre. «Ti ho chiesto se sono stato chiaro» ripeté.

    Così feroce...

    Keeley fece un respiro profondo. Il suo odore di

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