Destini incrociati: Harmony Destiny
By Joss Wood
5/5
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About this ebook
I signori dei diamanti 3/3
Tate Harper si ritrova improvvisamente a doversi occupare della nipotina e la sua vita in giro per il mondo viene sconvolta da questa novità. Anni prima, la stessa sorte era toccata a Linc Ballantyne, imprenditore milionario nel campo dei gioielli ed ex di sua sorella, vera causa del loro comune destino. Tate si rivolge quindi proprio a lui in cerca d'aiuto, ma non le sarà facile destreggiarsi in quella nuova veste, dovendo per di più anche gestire la crescente attrazione che prova per Linc.
Il rapporto tra i due diviene sempre più stretto e appassionato, finché i fantasmi del passato tornano a farsi vivi mettendo Tate davanti a una dura scelta: riprendere la sua vita da globetrotter o scoprire cosa significhi far parte di una famiglia?
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Destini incrociati - Joss Wood
1
Tate Harper aveva mangiato grilli fritti in Tailandia e porcellini d'India in Perù. Si era persa nella giungla della Costa Rica e ballato per notti intere in locali fatiscenti nelle favelas di Rio. Aveva ricevuto proposte di matrimonio da uomini ricchi e poveri di ogni parte del mondo. Come conduttrice di un programma di viaggi per esplorare diverse culture alimentari, si era ritrovata in ogni tipo di situazioni insolite.
Nulla di questo, tuttavia, le provocava la stessa angoscia di un incontro con Kari.
Premette una mano contro il petto e afferrò la maniglia della porta del piccolo ristorante. Era un gelido mercoledì pomeriggio d'inizio gennaio ed era atterrata all'aeroporto JFK alle sei di mattina. Dopo aver trascorso le ore successive a discutere di una nuova serie di tour con i produttori del canale dedicato ai viaggi per cui lavorava, era esausta. Mentalmente e fisicamente. Non aveva più energie per affrontare quella donna che, sebbene di qualche anno più grande, si comportava come una bambina. Cugina, sorella adottiva. Qualunque cosa fosse.
Per la milionesima volta, Tate si rammaricò che lei e Kari non fossero legate. Nonostante fossero cresciute nella stessa casa da quando aveva otto anni, non erano mai entrate in sintonia.
Quell'antico risentimento le annodò lo stomaco. Voltandosi a osservare la strada ricoperta da una leggera coltre di neve, considerò di andarsene. La tentazione fu forte. La sua esistenza sarebbe stata molto più facile senza la presenza di Kari. Scosse la testa. Non era abbastanza coraggiosa da ignorare la sua richiesta d'incontro. Sebbene sapesse di ricevere l'ennesima delusione, una parte di lei sperava ancora che potessero stabilire un legame emotivo, essere una famiglia. Rassegnata, aprì la porta del piccolo locale e si lasciò avvolgere dal calore al suo interno. Si sfilò il cappotto, si tolse il cappello di feltro bordeaux e si guardò attorno. Poiché le loro madri erano gemelle, lei e Kari si assomigliavano più di molte sorelle. Avevano i medesimi lunghi e ondulati capelli, la struttura longilinea, ma l'ultima volta che Tate l'aveva incontrata, Kari si era tinta i capelli color platino e mostrava con orgoglio un seno di diverse taglie superiori a prima, probabile regalo di qualche fidanzato. Entrambe avevano labbra generose e zigomi alti. Gli occhi, invece, erano diversi. Quelli di Kari erano azzurro cielo come quelli delle madri gemelle, mentre Tate aveva ereditato il color ambra dal padre, così come il naso sottile e proporzionato.
Non vedendo Kari, fermò una cameriera che le passava accanto. «Mi scusi. Sto cercando una persona che mi assomiglia molto. Dovevo incontrarla qui, ma mi pare che non ci sia.»
La ragazza annuì. «Si è seduta in un séparé vuoto. Credo che si sia recata alla toilette. Prego, si accomodi. Vedrà che non tarderà.»
Dopo averla ringraziata, Tate si diresse dove le aveva indicato la cameriera e scorse una bellissima bambina mulatta che dormiva in un passeggino, tra il séparé e quello accanto, occupato da una coppia. A giudicare dai lineamenti della piccola, aveva preso il meglio dell'affascinante papà afroamericano e della splendida mamma nordica.
Si sedette e accettò volentieri il caffè che le veniva offerto da un'altra cameriera. Aveva proprio bisogno di una bella tazza di bevanda fumante su cui riscaldarsi le mani congelate. Spostò lo sguardo fuori dalla finestra, felice di essere al riparo dalla tormenta di neve. Erano anni che non trascorreva l'inverno in città e non rammentava quanto fosse malinconico.
Accanto a lei, udì il rumore di sedie che si spostavano e vide la bella coppia alzarsi, infilarsi i cappotti, e afferrare i sacchetti della spesa. Dai sorrisi e dagli sguardi languidi, Tate concluse che i due condividessero un legame profondo. L'alchimia fra loro era palpabile e lei arricciò il naso per l'invidia che le solleticò l'anima.
Nessun uomo l'aveva mai guardata così, come se lei fosse l'unico motivo per cui la terra ruotava sul proprio asse e la luna provocasse le maree.
Devi metterti in gioco se vuoi vincere la partita, si rimproverò. Ma hai preferito l'indipendenza, la libertà e vivere sulla tua isola sperduta. La conseguenza di quella scelta era una certa sicurezza emotiva e la vita sessuale di una monaca.
Questo non significava che disdegnasse un bel fondoschiena maschile fasciato da un paio di jeans. Perché quello che stava ammirando era un signor fondoschiena, ammise mentre la coppia si allontanava. Abbassò quindi lo sguardo sul passeggino e balzò in piedi.
«Ehi, aspettate!»
I due si volsero con aria interrogativa.
Lei indicò la bambina. «Vi state dimenticando vostra figlia.»
La coppia si scambiò un'occhiata perplessa e fu lui a prendere la parola. «Non è nostra. È della signora che era seduta al suo posto.»
Tate colse lo sguardo della cameriera e il sangue le si gelò nelle vene. «Chi era la donna con la bambina?»
«Quella di cui mi ha chiesto e che le assomiglia. Lei è arrivata con la piccola.»
Oh. Mio. Dio. Le mancò l'aria e faticò a ricomporsi, poi domandò alla ragazza di controllare cortesemente la toilette, per vedere se Kari si trovasse ancora là.
Spostò freneticamente lo sguardo fra lo stretto corridoio e la bambina, e quando la cameriera riapparve scuotendo la testa, Tate prese a tremare.
Un déjà vu, pensò terrorizzata. Era certa, anzi certissima, che Kari fosse sgattaiolata via senza farsi notare. Mio Dio, Kari, no. Dimmi che non hai abbandonato un'altra volta tuo figlio. Vieni fuori, offrimi anche una debole spiegazione e fingeremo che questo non sia mai accaduto. Ti prego, non fuggire. Non peggiorare la situazione.
Tate si volse a fissare la porta d'entrata del ristorante, attendendo che si aprisse da un momento all'altro e che quell'incubo finisse. Dopo qualche minuto, sospirò e si deterse le lacrime dal viso. Non poteva crollare. Quando trascorsero altri dieci minuti senza che si compisse alcun miracolo, la nebbia della mente si diradò e si costrinse a riflettere. Legalmente, la bambina era sua nipote e lei ne era responsabile. Benché desiderasse scappare da quella situazione, non poteva permettere che quella creatura venisse abbandonata due volte.
Non sapendo da che parte cominciare, scorse la borsa dei pannolini sotto il passeggino. La sollevò, tentando di tenere a freno il panico che la stava soffocando. Osservò la piccola che dormiva serena. Il visetto angelico, del colore dello zucchero caramellato, era incorniciato da soffici boccoli neri. Il mento appuntito e le labbra tumide la rendevano inequivocabilmente una Harper.
Tate aprì la borsa e sbirciò all'interno. Quando vide una busta, la estrasse in fretta con il cuore che le martellava in petto. Con mani tremanti, lesse i fogli che essa conteneva. Si trattava del certificato delle vaccinazioni e quello di nascita che attestava che la piccola fosse Ellie Harper. Madre, Kari Harper e padre sconosciuto.
Santo cielo, Kari. Com'è possibile che tu non sappia chi sia il padre di tua figlia? O forse lo sapeva, ma aveva deciso di non informare lo stato. L'ultimo foglio era una lettera scritta a mano da Kari.
Tate, so cosa starai pensando e non ti biasimo. La situazione sembra terribile e lo è. Ho bisogno che tu ti prenda cura di Ellie. È accaduto qualcosa che m'impedisce di tenerla. Sono certa che saprai come comportarti con lei.
Se non sai da che parte sbattere la testa, chiama Linc Ballantyne, il padre di tuo nipote. Il numero l'ho annotato in fondo alla pagina. Ellie è la sorellastra di Shaw. Linc ti aiuterà.
So che non ci crederai, ma sappi che voglio bene a Ellie.
K.
Gli occhi incollati alla lettera, Tate rovistò nella propria borsa alla ricerca del cellulare. Con un macigno che le schiacciava il cuore.
Compose il numero di Linc e poi rimase a fissare il display.
Che cosa stava facendo?
I suoi rapporti con lui erano sempre stati minimi e formali. Era stato l'ex di Kari ed era il padre di suo nipote. Forse, visto che si era ritrovato nella sua stessa situazione, avrebbe potuto aiutarla a dare un senso all'ennesima follia della sorella. Non era il tipo da chiedere aiuto, ma la situazione era disperata e doveva mettere da parte l'orgoglio.
Attese che il telefono squillasse e poi di venir passata da un'efficiente dipendente della Ballantyne all'altra prima che una profonda voce maschile borbottasse una sorta di saluto. Mentre Tate avvertì un fremito a quel tono sexy e caldo, Ellie aprì gli occhi. Due incantevoli laghi blu cobalto.
Proprio come quelli di Kari.
«Sono Tate Harper, la sorella di Kari, e ho un grosso problema. Possiamo vederci?» gli domandò.
In certe giornate, dirigere una compagnia multimilionaria provocava a Linc una lancinante emicrania. E ultimamente capitava spesso. Alla ricerca di un'aspirina, entrò nell'ufficio che collegava il suo a quello del fratello Beck. Ignorando l'espressione attonita di Amy, aprì un cassetto della sua scrivania e afferrò il tubetto delle aspirine. Ne ingoiò una senza bere un goccio d'acqua, abituato a quel sapore amaro.
Segretaria di entrambi i fratelli, Amy trattenne il telefono fra l'orecchio e la spalla per sospingere verso di lui una bottiglietta d'acqua già aperta. Con un mezzo sorriso, lui l'accettò e ne ingollò un lungo sorso, gettando lo sguardo dall'altra parte della vetrata. Scorse subito la madre, in perfetta forma ed elegante, che procedeva lungo il corridoio e, ancora una volta, ringraziò il cielo di averla spinta tra le braccia di Connor Ballantyne.
Non proprio tra le braccia - per quanto ne sapesse, non c'era mai stato alcun legame romantico fra i due - ma, almeno, nella sua casa. Trasferirsi nell'imponente casa di pietra soprannominata il Den, la tana, e conoscere i bambini che sarebbero diventati i suoi fratelli era stato il giorno più bello della sua vita. Perdere Connor, il peggiore.
Linc si precipitò ad aprirle la porta e si sporse per baciarla su una guancia. «Ciao.»
«Ciao, tesoro» lo salutò Jo. Aveva i suoi stessi occhi grigi, forse con una nota più delicata rispetto a quelli di lui che erano puro granito scuro. «Mi dispiace di essere venuta senza avvisarti.»
«Non è certo un problema» la rassicurò Linc.
Jo salutò Amy con un abbraccio e un bacio, poi indicò al figlio il suo ufficio. «Hai un minuto per me?»
«Sempre.»
Una volta entrati, Jo si accomodò su una sedia mentre Linc si appollaiò sul bordo della scrivania. Incrociò le braccia e avvertì un certo bruciore ai muscoli. Aveva esagerato con l'allenamento la sera prima, ma aveva sperato che l'esercizio fisico gli garantisse una buona notte di sonno. Almeno aveva dormito quattro ore di seguito, fino a che Shaw non lo aveva svegliato perché aveva avuto un incubo. Calmarlo non era stato facile e lui non era più riuscito a riappisolarsi.
«Gary mi ha chiesto di andare a vivere con lui.»
Sbigottito, Linc fissò la madre, trattenendo a stento lo shock. «Vuoi lasciare il Den? Come mai così presto?»
«Ci frequentiamo da sei mesi. Non sono più una ragazzina. Inoltre, lui ti piace. Me lo hai confessato tu stesso.»
Questo prima che t'incoraggiasse ad abbandonare la nostra casa, brontolò tra sé. Ogni volta che la madre menzionava Gary, il volto le s'illuminava. Se avesse creduto nell'amore e in tutte quelle stupidaggini sentimentali, avrebbe giurato che Jo aveva perso la testa per l'ex banchiere. Ma, poiché non era così, li vedeva più come due persone ben assortite sia a livello intellettuale che sociale, che godevano della reciproca compagnia. A dire il vero, a Linc non piaceva che la madre preferisse Gary a Shaw, il nipote che aveva cresciuto fin da quando aveva pochi mesi.
«Penso che, alla fine, ci sposeremo. Vivo nel Den da venticinque anni e amo quella casa, ma ora ne voglio una tutta mia, Linc. E voglio viaggiare.» Sollevò gli occhi. «Sai bene che adoro Shaw e sono stata felice di aiutarti ad allevarlo. Voglio ancora farlo, però...»
«Non tutti i giorni» concluse Linc per lei.
Jo annuì e lui imprecò dentro di sé. Hai scelto il momento peggiore, mamma. Stavano rinnovando l'immagine dell'azienda, considerando d'investire in un giacimento di diamanti in Botswana, c'era il rischio di uno sciopero in una miniera in Colombia, stavamo inaugurando nuovi negozi ad Abu Dhabi e a Barcellona, ristrutturando quelli di Hong Kong, Los Angeles e Tokyo...
La sua attività era frenetica e stressante, ed era in grado di gestirla solo perché non doveva preoccuparsi di Shaw. La sua esistenza era programmata al millesimo di secondo. Accompagnava il figlio all'asilo, Jo lo andava a prendere, trascorreva il pomeriggio con lui, gli preparava la cena e lo lavava. Funzionava tutto dannatamente alla perfezione perché