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Visioni (eLit): eLit
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Visioni (eLit): eLit

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About this ebook

Ossessionata da sogni in cui compare un antico tempio, Lady Victoria Quinton Mallory fa un incontro destinato a sconvolgerle la vita. Lo sconosciuto giunto a Valle Del Sol in Perù sembra infatti legato proprio alle sue visioni di una vita passata. Potrà forse aiutarla a svelare i tanti misteri che la turbano?
LanguageItaliano
Release dateJun 29, 2018
ISBN9788858988640
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    Book preview

    Visioni (eLit) - Fiona Brand

    successivo.

    PARTE PRIMA

    Prologo

    Quindici anni prima, Valle del Sol, Perù

    Le sale comunicanti, disposte in file, si trovavano sepolte in profondità, sotto strati di terreno fertile e pietrisco granuloso, protette e circoscritte da blocchi compatti di granito: un complesso rivestimento dalla forma di labirinto, costruito con raffinata cura per celare il segreto custodito al suo interno.

    Erano passati millenni: civiltà erano sorte e decadute. Il paesaggio stesso era mutato, rimodellato da violenti diluvi che dalle Ande avanzavano carichi di pioggia, e dalla frantumazione lenta e antica delle placche tettoniche. Eppure, nonostante le forze di sollecitazione esterne, le sale occultate erano rimaste sottoterra, anche se con il passare del tempo lo scheletro esterno del labirinto, in via di disintegrazione, era a tratti scoperto.

    Il settore occidentale aveva subito il danno maggiore, situato com'era in fondo a una valle a forma di mezzaluna che, con l'erosione della pietra calcarea, più morbida, presente all'estremità sud, era diventata il letto naturale del fiume Agueda. Nel corso degli anni l'Agueda aveva assunto un percorso tortuoso, dilavando gli argini, allargandosi, erodendo avido il fertile terreno alluvionale del fondovalle, finché, in mezzo al disordine delle rocce che via via levigava, il fiume non aveva svelato gli angoli inconfondibili della pietra squadrata.

    Per quanto l'Agueda potesse essere distruttivo, al di sotto del fondovalle era all'opera una forza infinitamente più potente. Il danno fu invisibile ma profondo, quando il caldo mare interno del manto terrestre si piegò e si tese verso gli strati più freddi della crosta, indebolendo la fenditura secolare che fungeva da culla della valle.

    A causa della tensione che si era creata e della compressione delle rocce, i materiali più morbidi iniziarono a liquefarsi, mentre la comunità di rochi pappagalli parrocchetti, appollaiata sulla chioma fitta degli alberi che cingevano la vallata, ammutolì.

    La prima onda d'urto si propagò da un punto ad appena venticinque chilometri di distanza, e a soli tre chilometri sotto la superficie terrestre: vibrò verso l'alto, attraversando le immobili sale silenziose, e agitò depositi di polvere rocciosa leggera come talco, che luccicarono in pozze immobili di acqua fuoriuscita da acquedotti ostruiti. I blocchi di granito, incassati con arte a racchiudere le sale segrete, scricchiolarono sotto la sottile tensione, per poi tremare e crollare, senza riuscire a opporsi all'energia che era penetrata dalla Cordigliera delle Ande a più di seimila metri d'altezza.

    Passarono secondi interminabili, in cui i blocchi, deteriorati e deformi, si spostarono impercettibilmente di un solo grado, sufficiente però per vanificare l'abilità tecnica e ingegneristica che aveva prodotto una struttura che secolo dopo secolo aveva resistito alle onde sismiche.

    All'improvviso, su un pendio densamente coperto di alberi, un'intera muraglia crollò e il terreno stesso si lacerò, vomitando pietrisco misto a un intrico di sottobosco e rampicanti, e svelando l'ingresso nord del labirinto.

    Vivaci parrocchetti, minuscoli motmot e chiassosi jacamar scattarono all'improvviso nell'arco azzurro del cielo, protestando a gran voce il loro dispiacere, mentre con occhi attenti volteggiavano sopra la confusione.

    A parte i danni collaterali, nella profondità del pendio della collina, difese da strati di granito e di soffice terra malleabile - una sorta di ammortizzatore primigenio - le sale interne stesse rimasero, come sempre, protette... inaccessibili.

    1

    Il roco rimprovero dei parrocchetti interruppe il riposino di Lady Victoria Quinton Mallory, di tredici anni.

    Quin aprì gli occhi di scatto: gli uccelli le volavano in cerchio sopra la testa, rumorosi e agitati, e la ragazza notò che sia il terreno che le foglie, tanto fitte da ripararla dal sole del pomeriggio, stavano rabbrividendo.

    Un ara macao atterrò sul grosso ramo cilindrico di un albero della gomma e si unì a quel lamento: un verso acuto e preciso, simile alla voce di zia Olivia quando le ricordava tutte le cose che aveva il dovere di fare - e in particolare tutte quelle che non aveva fatto - e che quel giorno avrebbero formato una lista lunga come il braccio di Quin.

    La ragazza fissò l'uccello con un'occhiata torva, senza scomodarsi a cambiare posizione, distesa com'era su due rocce riscaldate dal sole che le facevano da poltrona. «Oh, fa' silenzio! Non è un vero terremoto. Scommetto che non arriva neanche al secondo grado.»

    Se un terremoto arrivava al secondo grado della scala Richter, nessuno si disturbava anche solo a commentarlo, sempre ammesso che lo notasse. Se era del terzo o del quarto, zia Hannah assumeva quel suo tipico sguardo ansioso, cominciando a preoccuparsi di salvare la porcellana. Con un quinto grado - ed era successo una volta - erano state invece costrette a uscire all'aperto e a rimanere lontane dagli edifici e dagli alberi alti. Nell'eventualità di un terremoto del sesto o del settimo grado - ma non si era mai verificata, per quello che ricordava Quin - secondo il loro giardiniere e tuttofare, Jose, era meglio non fare niente, se non piegarsi, baciarsi il culo e dirgli addio.

    Sentì una risatina salirle dallo stomaco al pensiero di Jose, basso, tarchiato e vicino ai settanta, che anche solo tentava di compiere quel movimento.

    Così, come per sentire l'effetto, ripeté ad alta voce il consiglio di Jose, continuando a sorridere: anche se era un'adolescente - un'adulta, ormai - non avrebbe dovuto pensare alla parola culo, figuriamoci pronunciarla.

    L'ara macao gracchiò di nuovo, questa volta con un suono così inspiegabilmente simile alla voce di Olivia che Quin per riflesso si piegò su se stessa, le scarpe da ginnastica piantate sull'erba morbida, i palmi aperti puntellati sulla roccia incrostata di licheni. Quando capì di essere sola nel boschetto, riprese a respirare. Non che Quin avesse paura di Olivia - al contrario, non c'era niente che la spaventasse - semplicemente nutriva un sano rispetto per entrambe le zie. Inoltre, gli intensi occhi azzurri di Olivia sembravano sempre sapere tutto, e questo teneva Quin sul chi vive.

    Per abitudine, scrutò il pendio, domandandosi se una delle due zie fosse davvero nelle vicinanze, anche se era improbabile che si spingessero fin lì a cercarla, ma come sempre il boschetto era isolato e immerso nella pace, celato com'era da alti alberi a cupola e cinto da morbide ombre. Là dove le foglie a tratti si diradavano, la calda luce del sole si allungava a macchie sul terreno, riscaldando le larghe rocce, disseminate lì intorno come se un pugno gigante avesse colpito l'antico scheletro della collina frantumandolo in detriti asimmetrici.

    Quin emise un sospiro di sollievo e tornò a sdraiarsi sul suo comodo sedile, risistemò le gambe fasciate dai jeans in posizione di riposo e spinse da parte la lunga treccia scura perché non le desse fastidio alla schiena.

    Socchiudendo gli occhi per proteggerli dalla luce, spinse lo sguardo oltre la vallata. Attraverso un varco tra gli alberi poteva vedere casa sua, la missione, rannicchiata sul versante occidentale. La luce del sole si rifrangeva sulle finestre incassate, tingendo di un color miele pallido le mura esterne coperte di calce. Da quella distanza le crepe nell'intonaco e il recinto sconnesso che delimitava il piccolo complesso di edifici non erano ben visibili, e lei poteva fingere che la costruzione fosse molto più di una semplice abitazione con una clinica medica annessa. Magari una sorta di... minuscolo castello, ancora in costruzione, naturalmente, o una scuola.

    Non che una scuola fosse uno scenario più attraente di un castello.

    Olivia le aveva spiegato perché lei non poteva andare in una vera scuola. Perché lei era diversa.

    Nella mente.

    Fino a che punto fosse diversa, Quin non lo sapeva con certezza, perché non aveva molte persone con cui confrontarsi. C'erano i cinque nipoti di Jose, ma erano tutti maschi, quindi era difficile giudicare, e gli altri bambini del villaggio, che si recavano alla missione per le settimanali visite di zia Hannah in ambulatorio, non rimanevano mai abbastanza a lungo perché lei potesse imparare qualcosa in più, a parte i loro nomi. In ogni caso, per nessun motivo al mondo avrebbe ammesso di possedere una diversità maggiore da quella già sottolineata dai suoi occhi azzurri e dalla pelle chiara, né avrebbe rischiato di essere classificata come bizzarra.

    Una leggera brezza fece stormire gli alberi, portando con sé il suono mesto di una campana. Quin sentì lo stomaco agitarsi. La campana, posta nella piccola torre sopra la cappella, in precedenza veniva usata per riunire le Sorelle della Misericordia nell'ora della preghiera, ma erano passati cinquant'anni da quando l'ordine aveva abbandonato l'isolato avamposto di Valle del Sol e si era ritirato nel monastero principale a Lima. Da allora la missione era passata attraverso diverse mani ed era stata usata in vari modi: come abitazione privata, scuola, casa, albergo, e ora, sotto l'amministrazione di Olivia e Hannah, centro medico.

    Adesso la campana rintoccava quasi esclusivamente per Quin, e di solito indicava che era l'ora di fare i compiti.

    L'ara macao gracchiò, incrinando col suo verso dissonante il suono pieno della campana. Quin intravide il suo variopinto piumaggio, quando l'uccello saltò su un ramo più basso, si girò e si appese a testa in giù, scrutandola con piccoli occhi lucenti e intelligenti. «Non cominciare!»

    Olivia sosteneva che se Quin doveva proprio essere una selvaggia, almeno sarebbe stata una selvaggia istruita, e con due zie che potevano vantare dottorati a Oxford - Hannah in medicina, Olivia in antropologia e storia antica - non c'era scampo.

    Non che Quin di solito si lamentasse. Studiare le piaceva, e amava con passione i libri e la storia. Ma soprattutto amava le storie che le raccontava Olivia.

    Olivia aveva viaggiato; le sue descrizioni erano così reali che Quin aveva l'impressione di sentire sotto le dita la ruvida roccia della Sfinge, battuta dalla sabbia, di annusare l'odore del fango umido del Nilo e di sentirlo letteralmente scivolare tra le dita.

    L'avevano allevata a pane e storia, consumata a ogni pasto e ascoltata come ninnananna la sera: erano racconti che andavano dalle antiche corti degli Inca alle piramidi di Giza. Ma, per quanto materiale Olivia le fornisse, le sue storie, i libri allineati nella biblioteca della missione e gli album di foto non erano mai sufficienti.

    Quin non voleva solo leggere o sentir parlare delle piramidi, voleva andarci di persona - un desiderio intenso e profondamente radicato nell'intimo. Voleva vedere, esplorare, toccare, immergere le sue mani nella terra che era stata coltivata da civiltà primitive, per setacciarla in cerca di frammenti del passato. Ma soprattutto desiderava risolvere gli infiniti misteri che erano stati lasciati scolpiti nella pietra e dipinti sulle pareti, inalterabili nei secoli.

    Ciò che la affascinava di più, comunque, e che sembrava soddisfare la sua mente arguta, erano i linguaggi e i simboli antichi. Provava piacere a osservare l'ambiente, a contemplare iscrizioni e geroglifici, a studiare attentamente i libri e gli appunti di Olivia, cercando una soluzione ai misteri con lo stesso impeto di un cane di fronte a un osso prelibato. E talvolta, grazie alla sua mente dalla natura misteriosa, con un brivido improvviso arrivava a comprendere il significato di quei segni senza avere la minima idea di quale fosse la traduzione letterale.

    Quin non riuscì a trattenere uno sbadiglio. Si allungò e cambiò posizione, allontanando il volto dal bagliore del sole e allentando i muscoli ancora indolenziti dallo sforzo impiegato per alimentare la caldaia della missione e pulire a fondo la dispensa.

    Gradualmente tutta la tensione si sciolse e le palpebre si chiusero.

    Quin dormiva in maniera irregolare. Di solito la notte dormiva a sufficienza, ma se perdeva qualche ora di sonno si trovava in difficoltà, perché alla missione durante il giorno, per quanto ci provasse, non riusciva ad addormentarsi. Aveva scoperto che più persone c'erano in giro, meno lei riusciva a dormire, come se la presenza di tutte quelle diverse soggettività in un unico posto si trasformasse in un assedio che non le permetteva di rilassarsi. Negli ultimi tempi, a causa di un'epidemia di influenza, alla missione c'era un viavai continuo: intere famiglie arrivavano dai villaggi vicini per essere curate, e alcune preferivano fermarsi per la notte invece di arrischiarsi a passare al buio il ponte di corde che attraversava l'Agueda.

    Lì, nel boschetto, non c'era alcuna interferenza causata da altri esseri umani e, a parte la solitudine, c'era un elemento in più... una pace che lei non riusciva a spiegare e che non aveva provato in nessun altro luogo. Inoltre faceva sempre caldo, come se dal terreno sgorgasse qualche nascosta sorgente di energia, filtrando attraverso le rocce, il fango, le foglie cadute e permeando l'aria, che elusiva fluttuava e ondeggiava simile alla canicola che in estate avviluppava le colline. Quando Quin si lasciava andare, le ombre diventavano fluide, e sembravano spostarsi e muoversi intorno a lei, mentre si appisolava e magari riusciva persino a dormire per qualche minuto.

    Talvolta vedeva delle persone - figure tenui, inconsistenti - che andavano e venivano, silenziose e discrete, trasparenti come veli, ma lei non si sentiva minimamente minacciata. Le vedeva da sempre.

    Sbadigliò di nuovo. Il calore del boschetto la avvolgeva, e lei si sentiva appagata e indolente, come se potesse sciogliersi nel granito riscaldato dal sole, dissolversi nel silenzio e sonnecchiare per tutto il tempo che le andava...

    Non poteva permetterselo, però; doveva muoversi. La campana aveva suonato e Olivia si sarebbe preoccupata. Ma Quin sentiva il corpo di piombo, le palpebre erano chiuse, come incollate.

    Mentre scivolava in un sonno sempre più profondo, per un attimo trasalì di fronte a un barlume dorato, seguito dallo scintillio di un gioiello azzurro sospeso a mo' di goccia su una fronte abbronzata. Disorientata, per una frazione di secondo ebbe l'impressione di guardare in uno specchio: occhi misteriosamente uguali ai suoi la fissavano, solo che lo sguardo era più tagliente, freddo, il volto decisamente adulto. Poi quell'attimo si dissolse, mentre le tenebre la cingevano, e lei vi sprofondò, scendendo a spirale come un nuotatore catturato da una risacca.

    1200 a.C.

    Tempio del Sole

    Cuin, la quarantatreesima Cadis del Dio Sole, e probabilmente l'ultima, attendeva pazientemente nelle stanze private, mentre il suo seguito la aiutava a indossare uno dei suoi più elaborati abiti da cerimonia: un tessuto di rigido lino, pesantemente tempestato di sottili lamine d'oro, iridescenti perle marine e una scintillante quantità di gemme multicolori, le scivolò sulle braccia adagiandosi sulle sue spalle e rubandole tutto il calore dalla pelle.

    Chuli, medico di Cuin, le allacciò l'alto colletto della veste con sottili fermagli dorati che mandavano bagliori meravigliosi nella luce del tardo pomeriggio.

    «Ahi» mormorò Cuin, mentre il rigido colletto le sfregava la morbida pelle della nuca.

    Chuli espresse con un cenno del capo la propria soddisfazione per il risultato: con quella tunica Cuin appariva ancora più alta. «Davvero imponente.»

    «Vuoi dire soffocante.»

    Malia, sorella di Chuli e consigliere capo di Cuin fin da quando, all'età di tredici anni, Cuin era diventata la Cadis - grande sacerdotessa del Dio Sole - le sistemò con uno strattone la tunica intorno ai fianchi, brontolando nel vedere che un fronzolo si era allentato. Brusca, ordinò a Cuin di rimanere assolutamente immobile, poi salì sul panchetto che aveva portato per controllare che il copricapo di Cuin fosse sistemato bene e diritto.

    «Dovrò procurarmi uno sgabello più alto» mormorò. «Sei cresciuta ancora»

    Cuin sorrise - un breve slancio di buonumore che la colse di sorpresa. Era da molto che non avevano motivi per sorridere. «Già, oppure sei tu che ti stai accorciando.»

    «Bah.»

    Chuli e Malia erano considerate di statura notevole tra le donne del tempio, ma Cuin superava addirittura la più alta delle sacerdotesse di almeno due spanne. Persino nella sua stessa stirpe - i Cadian - ormai quasi estinta, era considerata alta e dai tratti marcatamente distinti. Con la pelle chiara e gli occhi azzurro-cielo, ricordava l'aspetto dei suoi antenati, prima che il loro sangue si mescolasse alle tribù locali e andasse quasi perduto.

    Chuli maneggiò uno dei fermagli del colletto con dita abili e svelte, la fronte corrugata per la stanchezza. «Non mi dirai che stai prendendo peso?»

    «Con la stessa probabilità con cui sono cresciuta.» Cuin lanciò un'occhiata al profilo sottile riflesso in un lucente specchio dorato appeso alla parete, prima che Chuli le chiedesse di sollevare il mento per riuscire a inserire l'ultimo fermaglio. «Magari potessi.»

    Come chiunque altro al tempio, non correva il rischio di ingrassare. Erano tutti affamati - lo stomaco quasi arrivava a toccare la colonna vertebrale - e stanchi di integrare una dieta di frutta secca e manioca, insapore e infestata da parassiti, con altra frutta secca e manioca altrettanto insapore e pullulante di parassiti.

    Malia schioccò la lingua in segno di disapprovazione, poi sistemò la parte anteriore del copricapo, in modo che il fragile zaffiro a goccia si trovasse al centro esatto della fronte di Cuin. L'azzurro vivace e scintillante della pietra si accordava ai suoi occhi e ricordava chiaramente al governatore della Provincia di Ar il motivo per cui lei fosse la Cadis.

    In un mare di occhi scuri e pelle scura, Cuin si era distinta fin dalla nascita: esangue e ossuta, dai tratti rigorosi e le gambe lunghe, era goffa e sgraziata come una piccola gru. Era l'unica bambina nata con gli occhi azzurri nell'arco di più di dieci generazioni: un richiamo alla stirpe antica che aveva costruito il tempio. Diversa o meno, brutta o no, i suoi occhi avevano impedito che venisse abbandonata in pasto ai corvi e le avevano preparato la strada fin dalla nascita, segnando il suo destino come sacerdotessa del tempio.

    Malia diede un ultimo ritocco al copricapo, poi scese dallo sgabello. «Tutto questo trambusto per quel serpente di Chumac.»

    «Piuttosto per fermare Chumac» la corresse Cuin.

    Se era possibile.

    Da tempo la corte era corrotta, e l'attuale governatore era fino a quel momento il peggiore della storia - sguardo acuto, ambizioso, con gli occhi puntati sul trono del re Chataluk, ormai in declino.

    La corruzione della corte era sempre stata leggendaria, ma nel corso del lunghissimo regno di Chataluk aveva raggiunto proporzioni vastissime, diffondendosi gradualmente nelle province e persino nel tempio.

    Secondo Cuin, era andata perduta la semplicità, minata dall'eccessivo fasto e dalle formalità, dai troppi riti e dal troppo oro. Il tempio non avrebbe dovuto prosperare nella ricchezza, mentre il popolo moriva di fame: uno dei primi decreti che lei aveva emanato dopo aver assunto il ruolo di sacerdotessa stabiliva che l'oro di proprietà del tempio doveva essere usato per comprare cibo dalle province del nord, più ricche, nei periodi di carestia. Negli ultimi tempi, però, grazie agli imbrogli di Chumac, l'oro del tempio non era più una moneta solvibile, qualunque fosse lo scopo a cui era destinato.

    Il governatore aveva gradualmente isolato il tempio, minacciando i mercanti e gli agricoltori che di solito lo rifornivano di derrate alimentari. E anche quando si poteva acquistare cibo, era in vendita a un prezzo gonfiato e quasi esclusivamente disponibile presso i mercanti abusivi. In altre parole, era un vero e proprio assedio.

    Chuli le mostrò un coltello incastonato di gioielli, l'espressione torva. «Oggi dovresti portarlo con te.»

    Cuin squadrò la lama con disgusto e scosse la testa. Neanche per Chumac avrebbe portato con sé quel coltello. Era stato ordinato, e usato, da una precedente gran sacerdotessa, che aveva ceduto alla pressione di un nuovo e potente culto che comportava l'istituzione di un sacrificio rituale. «Morte e sangue non trovano spazio in questo tempio.»

    Ma se Chumac avesse vinto, morte e sangue avrebbero dominato.

    Cupa in volto, fece segno di allontanare la lama dalla sua presenza. «Le uniche armi con cui oggi lotterò saranno le parole.»

    Parole inutili, vuote, perché, con l'esercito assottigliato dall'azione corruttrice dei tesorieri di Chumac, nonostante le quantità di oro che si trovavano nei depositi, la sola forza di Cuin era costituita dal potere e dal carisma del tempio, nei cui confronti Chumac ormai aveva perso tutto il rispetto. Negli ultimi mesi il loro era stato un gioco al massacro combattuto con strategia e intelligenza, e Chumac assomigliava sempre più al classico gatto che aveva catturato il topo.

    Alcuni minuti dopo, Cuin entrò nella solenne sala dei ricevimenti e salì i gradini della pedana, fiancheggiata da sacerdotesse, da iniziati e dalle guardie del tempio, che in quei giorni erano solo sei, due delle quali Cuin sospettava fossero sul punto di abbandonare il loro posto.

    Chumac, basso e muscoloso, entrò indossando l'abito delle grandi occasioni. Era seguito dal suo solito codazzo, che quel giorno includeva il suo maestro di guerra, Hotec, quasi il governatore sentisse il bisogno di un sostegno aggiuntivo. O più probabilmente voleva solo intimidirla.

    Chumac era un uomo tanto mellifluo quanto Hotec era invece brutale. Eccezionalmente alto, le spalle possenti, Hotec nutriva una smania di violenza e morte, testimoniata dalla collezione di resti umani essiccati che pendeva dalla sua cintura. Negli ultimi tempi si era sparsa la voce che avesse commesso l'atrocità più efferata: aveva mangiato le sue stesse

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