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La dolce Sophie: Harmony Destiny
La dolce Sophie: Harmony Destiny
La dolce Sophie: Harmony Destiny
Ebook138 pages1 hour

La dolce Sophie: Harmony Destiny

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About this ebook

È giusto che un uomo risarcisca dei danni materiali e morali la fidanzata lasciata all'altare? Sophie è membro della giuria nel processo che deve appunto pronunciarsi in un simile verdetto e, neanche a dirlo, si schiera subito a favore della parte lesa. Ma non tutti la pensano come lei... ad esempio l'affascinante Gary Brett, che forse per solidarietà maschile, forse perché ne è convinto veramente, solidarizza con l'accusato. Ma chi dei due ha ragione? Soltanto dopo lunghe discussioni entrambi capiscono che...
LanguageItaliano
Release dateMay 10, 2017
ISBN9788858965566
La dolce Sophie: Harmony Destiny
Author

Judith Arnold

Dopo un master in scrittura creativa, è diventata specialista della commedia brillante e ironica. I suoi libri hanno venduto oltre otto milioni di copie e le hanno permesso di aggiudicarsi numerosi premi letterari.

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    La dolce Sophie - Judith Arnold

    successivo.

    1

    Quei passi erano reali o soltanto frutto della sua immaginazione?

    Il cielo era appena striato dalle prime luci dell'alba e Gary, nonostante la doccia fredda, non si era ancora scrollato di dosso il torpore del sonno. Con qualche difficoltà indossò la giacca e, rimirando la propria immagine nello specchio, si rattristò.

    Scese le scale e per miracolo non si ruppe l'osso del collo inciampando sulla soglia della porta della cucina. Maneggiò, maldestro, la caffettiera. Incredibile, pensò, come uno stupidissimo pezzo di carta abbia potuto sconvolgere il mio tranquillo tran tran! Era vero: da qualche giorno aveva i nervi a fior di pelle! Senza contare che, di lì a poco, avrebbe persino dovuto annodarsi la cravatta che ora gli penzolava dal collo.

    Non era di certo un buon giorno, quello!

    Udì nuovamente i passi. Un fruscio, quasi. Di sicuro, era uno dei cani.

    Dopo aver avvitato la caffettiera, la vuotò di nuovo e cercò di concentrarsi. Non ricordava neppure se aveva riempito o no il filtro. Erano solo tre, in famiglia, e l'ultima volta che aveva chiesto a Tim se voleva una tazza di caffè, si era sentito rispondere che lui non si sarebbe mai sorbito quella brodaglia, o qualcosa di simile. Gary non prestava più molta attenzione al linguaggio di suo figlio, diventato ormai un gergo incomprensibile.

    I passi erano adesso vicinissimi. Gary si augurò che si trattasse di Platone o Socrate: non era in vena di socializzare con altri esseri umani.

    «Ehi, papà, già sveglio?» domandò invece Tim con voce assonnata, stropicciandosi gli occhi.

    Gary si voltò a guardarlo. Era incredibile: sembrava cresciuto di un altro palmo nel corso della notte! A quattordici anni era già alto quasi come lui e, se fosse andato avanti di quel passo, l'avrebbe presto superato.

    «A dire la verità, non sono proprio sveglio. Vuoi del caffè?»

    «Certo!» accettò con entusiasmo il ragazzino avanzando nella cucina con i capelli castani scompigliati e gli occhioni chiari e luminosi come il sole a mezzogiorno.

    «Da quando in qua ti sei messo a bere caffè?»

    «Oh...» bofonchiò Tim, «da tempo. Ma tu, piuttosto, non vorrai metterti quella cravatta?»

    «Sì, devo» precisò Gary con aria rassegnata.

    «E devi proprio andarci?»

    «Direi di sì.»

    «Ma... ma potrebbe succedere di tutto, mentre sarai via!»

    «Non credo. Tuo nonno è qui apposta per te nere la situazione sotto controllo e poi, in questa stagione, non c'è molto da fare alla fattoria.»

    «Guarda che alle quattro ho la partita di baseball!» giocò l'ultima carta.

    «Ci sarò» gli promise Gary, trascinando una sedia accanto al figlio. «Lo sai cosa succederà? Andrò fino a Cambridge, starò seduto in un'aula per tutta la mattina, mi liquideranno in tutta fretta e sarò di ritorno per pranzo.»

    «E come sai che non ti sceglieranno?» insistette Tim.

    «Sento che oggi è la mia giornata fortunata. Adempirò ai miei obblighi di bravo cittadino e tornerò in tempo per la tua partita. Devi sapere che in un paese democratico come gli Stati Uniti...»

    «Bleah!» fece una smorfia il ragazzino, incrociando le dita davanti al padre come se si trovasse di fronte a Dracula in persona. «Piantala con questi discorsi!»

    «È un discorso giusto» tentò lui di riportarlo alla ragione.

    «Forse lo era la prima volta! Adesso è solo una barba» esplose Tim. Si drizzò in piedi, mise una mano sul cuore e cominciò a canticchiare l'inno americano. Gary gli lanciò addosso il tovagliolo e il ragazzo si chinò per raccoglierlo.

    «Ma... ma ti sei messo i jeans!» notò sbirciando sotto al tavolo.

    «Sono i pantaloni più belli che ho... cosa c'è che non va?» si preoccupò Gary.

    «Non vorrai metterti in jeans e cravatta?» infierì Tim. «Per me non c'è niente di male, ma questo paese, questa grande democrazia...» lo scimmiottò.

    «Se non farò buona impressione, tanto meglio. Vorrà dire che avrò più possibilità di tornare in tempo per la tua partita.»

    A dire il vero, Gary stesso faticava ad afferrare il senso di quella giornata insolita. Lui era abituato a svegliarsi alle prime luci dell'alba per occuparsi della fattoria, dove era cresciuto e che aveva trasformato in una attività redditizia.

    «Senti amico» tornò ad affrontare il figlio, «vorrei tanto restare qui mentre ti scoli tutto il tuo caffè, ma devo essere a Cambridge per le otto e non vorrei restare imbottigliato nel traffico» lo avvisò.

    Gary sciacquò la sua tazza mentre Platone e Socrate facevano il loro ingresso in cucina. Due magnifici esemplari di labrador da riporto, tanto robusti quanto tardi e poltroni.

    «Scappo!» annunciò Gary, arruffando il pelo a Platone mentre gli passava accanto. «Da' da mangiare agli animali, chiama il nonno se non sente la sveglia e non perdere l'autobus per la scuola.»

    «Okay...»

    «E riempi le ciotole d'acqua per i cani. Il nonno se ne dimentica sempre.»

    «Non è che se ne dimentichi: è solo che non li sopporta. Vuole farli morire di sete, dice che è una morte lenta e penosa.»

    Gary scoppiò a ridere, e Tim con lui. Avevano lo stesso colore dei capelli, mogano chiaro, e degli occhi, di un grigio verde cangiante. Eppure, di tanto in tanto, Gary riconosceva in lui l'ombra di Meg. Forse nelle curve delle labbra, o nella rotondità del volto. Era... era sconcertante quella rassomiglianza.

    «Ciao, divertiti» lo salutò Tim.

    «Ci vediamo alla partita.»

    «Lo spero bene.»

    Gary gli assestò un lieve pugno sulla spalla, il gesto più affettuoso che gli fosse concesso. Nell'atrio, si aggiustò il nodo della cravatta e sbuffò. Se soltanto nella lettera del Tribunale non avessero specificato che era obbligatorio un abbiglia mento formale, ne avrebbe volentieri fatto a me no.

    Invece aveva ubbidito, da bravo cittadino. Rassegnato, uscì e si inebriò dell'aria fresca di quella mattinata di primavera, pronto a compiere il proprio dovere.

    Sophie si rimirò nello specchio dell'armadio a muro. Il tailleur, di un azzurro polvere quasi incolore, con le sue linee severe e la lunghezza un po' rétro della gonna, le dava un'aria da volontaria dell'Esercito della Salvezza. L'aveva comprato in occasione della cena ufficiale con i genitori di Mitchell. Perfetto per un'occasione simile, lo sarebbe stato anche per presentarsi in tribunale.

    «Mi rifiuto!» sbottò invece Sophie con uno scatto di nervosismo.

    «Va' e non pensarci più!» l'aveva incoraggiata Lynn. «Sono stata convocata anch'io, l'anno scorso. Non fai altro che stare seduta per delle ore in un'aula, poi ti mandano a casa. E per tre anni il tuo nome scompare dalla lista. Portati un libro e immagina di essere in spiaggia.»

    Sophie lanciò un'occhiata alla pila di libri che si era comprata il giorno prima, una sorta di consolazione per la tortura che avrebbe dovuto sopportare. Nessuno, però, le parve adatto. Con un giallo avrebbe dato l'impressione di essere un'appassionata di vicende giuridiche e di sicuro avrebbe corso il rischio di essere prescelta per far parte della giuria. Un libro di fantascienza invece l'avrebbe marchiata come un tipo un po' strambo, mentre i romanzi d'amore la facevano arrossire.

    «Mi rifiuto proprio!» insistette. L'ultima volta in cui si era scervellata tanto era stato proprio in occasione dell'incontro con i genitori di Mitchell. E il risultato... un disastro!

    «Non voglio!» protestò ancora come una bambina capricciosa. Con un gesto nervoso raccolse i capelli lunghi e inanellati, di un caldo biondo cenere, che andavano a coprirle il viso e se li puntò con un paio di forcine. «Non voglio, non voglio!» si ripeté. Raggiunse il telefono e compose il numero di Lynn. «Ciao, sto uscendo.»

    «Brava. Non ti preoccupare, ci penserò io ad aprire il negozio.»

    «Dovrei tornare per l'una. Hai detto che a mezzogiorno sarà tutto finito, vero?»

    «A meno che non ti selezionino.»

    «Be', posso sempre trovare delle scuse per fuggire. Per esempio che, senza di me, il negozio fallirà e tutti i miei dipendenti si ritroveranno senza lavoro...»

    «Siamo solo in due, Sophie. Non abbiamo dipendenti.»

    «Forse potrei recitare la parte dell'oca giuliva.»

    «Rischieresti di ritrovarti attorniata da un nugolo di avvocati. Se fossi in te non ci proverei.»

    Sophie sospirò. «Temo non mi resti che affrontare la situazione.»

    «Sorridi e torna vincitrice, Sophie.»

    «Tornerò vincitrice, ma scordati che sorrida.»

    Guardandosi attorno, decise che non valeva proprio la pena di sorridere. Era incredibile che, per avere l'onore di sedere in giuria, un onore cui avrebbe volentieri rinunciato, dovesse pazientare in fila per ben tre volte. La prima all'entrata del tribunale, dove era passata sotto l'occhio indiscreto del metal detector e dei poliziotti che le avevano perquisito la borsa alla ricerca di chissà quali armi. Una seconda davanti alle porte del solo ascensore funzionante. Infine, all'entrata dell'aula dove l'avevano rifornita di un cartellino su cui c'era scritto che lei era il giurato numero uno del gruppo cinque.

    Sophie, nonostante l'affollamento, riuscì ad accaparrarsi una sedia. Ti prego, fa' che mi mandino a casa, invocò. Cercò di estraniarsi dal vociare e dall'aria viziata che regnava nello stanzone. Aprì il libro, un romanzo dell'Ottocento, e vi si buttò a capofitto. Se tutto fosse andato liscio, di lì a poche ore sarebbe stata libera di tornare al negozio.

    «Benvenuti al Tribunale del Middlesex» rimbombò all'improvviso la voce di un funzionario. «Alle otto e mezzo vi mostreremo un video sulle norme giuridiche che regolano le giurie. Poi ci sarà una pausa per il caffè. Verso le nove, cominceremo a convocare i gruppi dei giurati, quindi non perdete d'occhio il tesserino. Grazie per l'attenzione.»

    Sophie l'avrebbe mandato a quel paese. Dopo avergli lanciato un'ultima occhiata distratta, si accinse a riaprire il libro.

    E sussultò alla vista dell'uomo accanto a lei. Ne notò il profilo che sembrava scolpito, il volto illuminato dallo sguardo magnetico di due incredibili occhi tra il grigio e il verde. Le labbra, poi,

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