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Volevo essere Giulietta (eLit): eLit
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Volevo la parte di Giulietta Capuleti più di ogni altra cosa al mondo, e per riuscirci ho studiato come una matta... e invece al provino ho fatto un buco nell'acqua. Odio il professor Gillinger! Ah, ma ora mi sono presa una bella rivincita. Come? Grazie a un incantesimo che promette di ottenere tutto ciò che si desidera. Solo che devo aver sbagliato qualcosa, perché non solo non interpreto Giulietta, ma ho richiamato dal XVI secolo nientemeno che... Shakespeare! No, non William. Edmund, suo fratello. Lui è davvero dolcissimo con me e... ecco, forse è un tantino troppo focoso, ma che problema c'è? Okay, quando vede passare un'auto si mette a strepitare di demoni e negromanzia e se squilla un cellulare va fuori di testa. Però è così carino, e in lui c'è qualcosa che mi fa camminare a un metro da terra! Spero solo che l'atterraggio, se ci sarà, non sia troppo tragico...
LanguageItaliano
Release dateNov 30, 2016
ISBN9788858962510
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    Volevo essere Giulietta (eLit) - Douglas Rees

    1

    «Miranda Hoberman.»

    Toccava a me. Era il mio turno. La mia opportunità. Il mio provino. Mi alzai, cercando di apparire disinvolta, quando invece mi sentivo una nullità, e mi arrampicai sul palcoscenico.

    Giù in prima fila, il signor Gillinger diede un'occhiata a me, quindi guardò il modulo con i miei dati prima di prestarmi nuovamente attenzione.

    «Ti presenti per la parte di Giulietta?» mi chiese con quella sua voce lenta e profonda.

    «Sì» deglutii.

    «Molto bene, vai.»

    Bobby Ruspoli fece un gran sorriso, mentre mi squadrava da capo a piedi. Si era già aggiudicato la parte di Romeo. Lo sapevano tutti, anche se la notizia non era stata ancora annunciata. L'indomani, oppure il giorno ancora seguente, il signor Gillinger avrebbe affisso il suo nome assieme al resto del cast alla porta dell'ufficio del teatro. Tutti noi sapevamo che lui sarebbe stato Romeo ancora prima che iniziasse il casting. Capita spesso che gli attori sappiano chi farà cosa perché tutto è già stato organizzato dietro le quinte. E quindi, con la mente libera da quel peso, l'avvenente Bobby ispezionava tutte le ragazze che sarebbero potute diventare la sua Giulietta.

    Come se non fossi già abbastanza nervosa. Come se non avessi studiato questa parte ogni giorno da quando era stato annunciato che avremmo messo in scena Romeo e Giulietta. Come se non avessi trascorso un'intera settimana di notti insonni a preoccuparmi, pensando a come dare il meglio di me stessa in quella situazione, dovevo sorbirmi Bobby che squadrava le mie tette e il mio culo. Come se...

    «Cominciate» ordinò Gillinger.

    Bobby alzò le spalle inspirando, come aveva visto fare agli attori veri nei DVD sulla recitazione che avevamo guardato in classe, e proclamò:

    «Irride delle cicatrici chi mai non conobbe ferita.»

    Poi guardò in su, come se io fossi appesa a una delle lampade di Fresnel che ci abbagliavano dall'alto, invece di essere di fronte a lui, tremante.

    «Oh, quale luce vedo sprigionarsi lassù, dal vano di quella finestra? È l'oriente, e Giulietta è il sole! Levati, o mio bell'astro, a cancellare la gelosa luna sbiancata e livida di rancore, perché tu, che sei sua ancella, sei bella, molto più bella di lei...»

    Recitò velocemente i diciannove versi successivi, esattamente come aveva fatto per tutto il pomeriggio fino a:

    «Un guanto vorrei essere, su quella mano, e toccar quella guancia!»

    Quindi parlai io. La mia battuta era: «Ahimè!».

    Sapevo che rischiavo di apparire poco credibile. Ma lo dissi come se volessi morire. Perché era proprio così che si doveva sentire Giulietta in quel momento. Avevo esagerato?

    Bobby proseguì: «Ecco, parla!».

    Qualcuno, tra il pubblico, ridacchiò.

    Bobby riprese.

    «Oh, parla ancora, angelo di splendore, gloria di luce a questa notte, che di lassù, sopra al mio capo, sfolgori più di quanto potrebbe un alato messaggero del cielo agli occhi dei mortali, che arretrano nel contemplarlo mentre varca le pigre nuvole e veleggia nell'immenso grembo dell'aria.»

    Toccava di nuovo a me. La mia prima vera battuta nella scena, che il regista aveva inteso in modo sbagliato. Ecco perché dissi: «O Romeo, Romeo! Dove sei tu, Romeo?».

    Si potrebbe pensare che Giulietta si stia chiedendo dove sia Romeo, giusto? Sbagliato. Lei non immagina affatto che lui sia nei paraggi. Lui era stato appena buttato fuori dalla festa che suo padre aveva organizzato. Era bello che andato. Lei si sta chiedendo perché il nome del ragazzo dovesse essere proprio Romeo, e i versi successivi lo chiariscono.

    «Rinnega tuo padre, rifiuta il suo nome, o, se non vuoi, legati a me anche solo con un giuramento, e io non sarò più una Capuleti.»

    «Devo ascoltare ancora, o risponderle?» chiese Bobby all'invisibile balcone dove si presumeva stesse Giulietta.

    Io continuai.

    «Solo il tuo nome è mio nemico; ma tu sei tu, non un Montecchi. Che cos'è un Montecchi?»

    «Grazie» disse Gillinger con un tono che voleva dire Fatela finita per favore.

    «Auh?» chiesi, sorpresa. Era stato un provino incredibilmente breve.

    «Vediamo. La prossima. Vivian Brandstedt. Anche tu Giulietta, giusto?» domandò Gillinger.

    Scesi dal palco. Avevo finito. Me ne sarei potuta andare, ma volevo farmi un'idea della concorrenza.

    Raggiunsi il fondo della sala e mi misi a sedere in un angolo.

    Vivian Brandstedt scivolò sul palcoscenico e cominciò a recitare Giulietta come se fosse la pupa più sexy di tutta Verona. Era divertente, solo che Vivian era davvero una tipa sexy, così nessuno pensava che fosse ridicola, tranne me. Bobby certamente non lo pensava. Sbagliò le sue battute due volte. Ovviamente doveva essere difficile per lui parlare con la lingua di fuori.

    Gillinger lasciò che Vivian andasse avanti fino alla conclusione della scena. Addirittura fu lui a leggere le battute fuori campo della balia per consentirle di arrivare al punto in cui Giulietta dice:

    «Buonanotte... buonanotte. Salutarti è così dolce pena che vorrei dirti buonanotte fino a domattina.»

    Vivian non era andata male. Solo che recitava come se stesse per lanciare a Romeo le sue mutandine e la chiave della sua stanza.

    Ma perché Gillinger non mi aveva fatto recitare tutta la scena? Ero andata male, o ero stata così brava che non aveva bisogno di vedere altro? Oppure il ruolo di Giulietta era già assegnato, come quello di Romeo?

    Udii un rumore provenire dal fondo della fila e vidi una figura venire verso di me. Era Drew Jenkins.

    Si sedette accanto a me e sussurrò: «Sei stata brava. Hai colto nel segno».

    Poi si alzò e tornò in prima fila, risistemandosi al posto che aveva appena lasciato.

    Mi sentii inspiegabilmente riconoscente. Drew Jenkins, per ragioni incomprensibili ai più, era in assoluto il miglior amico di Bobby Ruspoli e, se piacevo a Drew, forse piacevo anche a Bobby. E forse Bobby l'avrebbe detto al signor Gillinger e forse... forse Drew aveva informazioni riservate. Forse Hai colto nel segno voleva significare Ho appena visto gli appunti di Gillinger. Hai avuto la parte, e non solamente Hai colto lo spirito di Giulietta in questa scena. Oppure, Drew aveva una sorta di strano ascendente su Gillinger e l'avrebbe indotto a darmi la parte. Drew era un tipo misterioso, un cervellone nel corpo di un sedicenne. Sapeva un'infinità di cose. Forse aveva qualcosa su Gillinger, tipo un vecchio arresto per aver sposato il suo stesso ego.

    Mi imposi di farla finita con quei pensieri. Non volevo la parte perché piacevo a Bobby Ruspoli o Gillinger – il che era improbabile, dal momento che Gillinger pensava che avrebbe dovuto dirigere uno spettacolo a Broadway e non gli piaceva proprio nessuno. Io volevo interpretare Giulietta perché ero stata la miglior attrice ai provini, non perché un certo ragazzo, amico di un altro, pensava che fossi brava.

    Questo non voleva dire che avrei posto condizioni per accettare la parte. Si doveva recitare Giulietta in swahili? L'avrei imparato.

    Ma se non dovevo chiedermi se il parere di Drew poteva influenzare Bobby e quello di Bobby influenzare Gillinger o cose del genere, a cosa dovevo pensare? Al perché non mi era stato consentito di finire la scena? Naturalmente.

    Avevo detto Ahimè a voce troppo alta? Troppo bassa?

    Ero stata credibile quando avevo detto Dove sei tu, Romeo?. Si era capito che ne avevo colto il vero significato? Sì. No. Sì...

    Gli piaccio, non gli piaccio. Gli piaccio, non gli piaccio. Era questo che rimuginavo di continuo, e non riuscivo a smettere di ossessionarmi benché sapessi che ormai il risultato non dipendeva più da me.

    Quel pomeriggio si presentarono altre due ragazze per la parte di Giulietta.

    Entrambe terribili. Non lo dico tanto per. Erano terribili. Una parlava come se stesse leggendo da un ricettario di cucina: «Prendete una parte di Romeo e una parte di Giulietta e mescolate fino a ottenere un composto omogeneo. Poi separatele e...».

    L'altra recitava con incredibile enfasi.

    «O Romeo, Romeo, PERCHÈ SEI CHIAMATO ROMEO?»

    Sul copione non è scritto così, giusto?

    «RINNEGA tuo padre, RIFIUTA il suo NOME, o, se vuoi, legati A ME anche solo con un giuramento, e io NON SARÒ PIÙ UNA CAPULETI!»

    Quando ebbe finito, non prima di aver dato una bella lavata al palco con la sua saliva, Gillinger si alzò in piedi.

    Guardò tutti noi che stavamo lì seduti. Eravamo più o meno cinquanta persone: studenti dei suoi corsi di recitazione, gente che non frequentava la scuola e veniva durante il giorno per i provini. Appassionati di teatro che pendevano dalle sue labbra.

    E lui ne sembrava parecchio compiaciuto. Avevo sempre pensato che quei momenti, quando la sua opinione era la sola cosa che contasse, fossero il vero motivo per cui Gillinger aveva deciso di insegnare recitazione. O forse era il solo piacere che gli era rimasto dopo tanti anni che insegnava teatro. Comunque, io lo osservavo attentamente da un paio d'anni ormai e qualcosa nell'espressione del suo volto, un tempo attraente, diceva sempre Dio mio, sono veramente un grande. Non aveva nemmeno bisogno di aprire la bocca per essere arrogante.

    Gillinger sospirò. «Non vedo ciò che voglio, qui. Non vedo affatto ciò di cui ho bisogno. Alcuni di voi sanno che io non volevo mettere in scena questo testo. Sono stato costretto a farlo dall'amministrazione scolastica quando loro non hanno voluto approvare il mio progetto di rappresentare La tragica storia del Dottor Faust in cui si svolgevano scene di nudo. Hanno detto che avrebbero permesso la rappresentazione solo se tutti fossero rimasti completamente vestiti. Ho risposto che l'opera è stata rappresentata con successo svariate volte dal 1960 con i personaggi di Elena di Troia, e della Donna Diavolo, nudi. Hanno detto che ci sono dei ragazzini, con ciò intendendo voi, studenti delle superiori, coinvolti nella messa in scena. Ho risposto che avevo intenzione di scegliere l'interprete per il ruolo di Elena di Troia in base a ciò che in realtà è, ossia una donna tra i ventitré e i trentatré anni. E avrei fatto lo stesso per la Donna Diavolo che potrebbe avere qualsiasi età. Dopotutto, lei è un demone. E i demoni sono senza età.»

    Prese un respiro profondo, quindi continuò con maggiore enfasi: «Hanno detto che non aveva importanza e che ognuno doveva rimanere vestito. Ho chiesto se davvero pensassero che i ragazzini a cui alludevano non avessero mai visto un corpo nudo, quando potevano scaricare, sugli aggeggi elettronici che portavano in tasca, immagini raffiguranti ogni possibile declinazione della lussuria e studiarsele per bene. Hanno detto che non importava comunque, a patto che non lo facessero all'interno della scuola. Ho risposto che non avrei rappresentato il dramma in nessun altro modo. Hanno detto che, in tal caso, avrei dovuto mettere in scena qualcos'altro e io ho risposto che, in tal caso, loro avrebbero dovuto decidere cosa. In quello stesso momento. Che cosa, nella vostra infinita saggezza e profonda conoscenza del teatro classico, permetterete che si possa rappresentare in questa scuola? Quelli mi hanno citato il primo testo che gli è venuto in mente, ossia Romeo e Giulietta, l'opera più sopravvalutata della produzione in serie di William Shakespeare. Probabilmente la sola opera di Shakespeare di cui abbiano mai sentito parlare».

    Gillinger sospirò di nuovo e chiuse gli occhi. «Il punto è che, se io dovrò allestire questo spettacolo, allora lo farò nel modo migliore. Io non mi riterrò, ripeto, non mi riterrò, soddisfatto se non otterrò una rappresentazione quantomeno eccezionale. Il che richiederà, sfortunatamente, attori quantomeno eccezionali. Ora, ho visto pochi di voi che sono... buoni. Pochi altri che non sono male. E molti che interpreteranno il ruolo dei domestici. Quest'opera, dopotutto, è focalizzata sul ruolo dei servi. Ma ci sono dei ruoli chiave che non possono essere ricoperti da nessuno di coloro che ho visto finora. Fortunatamente, dal momento che questo allestimento è sovvenzionato dal Comune, la partecipazione è estesa, come sapete, a tutta la comunità cittadina. Pertanto, non sarò costretto a pescare talenti nelle basse acque del vivaio della cara vecchia Steinbeck High. Così, farò qualcosa che non vorrei, ma che la penuria di talenti in tutta questa comunità mi costringe a fare. Con somma disperazione, ho deciso di andare avanti con i provini per un altro giorno ancora. Tornate a casa e dite ai vostri amici, se hanno una qualche capacità recitativa, di venire qui e salvare questo spettacolo. Altrimenti...» Si strinse nelle spalle.

    Forse voleva dire «Altrimenti non dirigerò un bel niente e peggio per voi». Gillinger sparì con ampie falcate dietro le quinte con la giacca che gli fasciava le spalle come una cappa.

    Ecco quello che dovevamo fare. Per tutto il teatro si udirono colpi sordi di sedie smosse e di gente che si avviava verso le uscite.

    Mi infilai lo zaino e mi mossi lungo la fila di poltrone verso il corridoio.

    Bobby e Drew mi passarono accanto.

    «Spacca» disse Bobby con un sorriso a trentadue denti mentre faceva un cenno con la testa verso di me. Era la personale versione di Bobby del merda, merda, merda, l'augurio di buona fortuna che la gente di teatro si rivolge a vicenda prima di uno spettacolo; non era questa l'occasione giusta, ma Bobby diceva questo Spacca continuamente. Pensava che questo lo facesse apparire un vero attore.

    Drew mi salutò col pollice verso l'alto, poi mi fece segno con due dita, l'una accanto all'altra.

    Che cosa voleva dire?

    Me lo chiesi per tutto il tragitto verso casa.

    Se non era una bizzarra allusione sessuale, cosa del tutto impensabile, visto che Drew sembrava un tipo straregolare, allora poteva significare Io penso che tu sia la migliore. Ma la scelta è tra te e un'altra.

    Riflessioni che alimentavano il mio sogno, o meglio, la mia ossessione. Se una ero io, l'altra chi era? Vivian la bomba sexy? O qualcuna che aveva letto la parte il giorno prima, quando non ero potuta andare alle prove? Di chi si trattava? Una ragazza della nostra scuola?

    Bla, bla, bla. In un attimo di lucidità, desiderai avere un'altra testa, con più sale dentro. Ma siamo ciò che siamo e la mia mente stava solo cercando di pensare a cos'altro avrei potuto inventarmi per ottenere la parte.

    In realtà questo non dipendeva in tutto e per tutto dal fatto che ero una fanatica del teatro, che avrebbe fatto qualunque cosa pur di ottenere una parte. Era la ragione principale, certo... ma avevo anche un motivo particolare.

    Ovvero che... mia madre non aveva mai interpretato Giulietta.

    Ecco, ora penserete: E allora? Neanche mia madre ha mai interpretato Giulietta! Nessuno di quelli che conosco ha una madre che ha interpretato Giulietta. E nemmeno le madri delle loro madri. Quindi la mia, di madre, non è diversa da tutte le altre. Il che sarebbe vero, solo che, prima di diventare infermiera, mia madre era un'attrice.

    Certo, non avrete mai sentito parlare di lei, come della maggior parte degli attori americani, ma andò alla Juilliard e dopo il diploma si trasferì sulla costa occidentale e si unì a quella che chiamano La Compagnia di repertorio della I–5.

    La I–5 è l'autostrada che va da Seattle a San Diego e ci sono attori che si guadagnano da vivere – o almeno ci provano – facendo su e giù per quella strada. Ci sono molti teatri a Seattle, alcuni a Portland, e poi c'è il grande Festival shakespeariano che si tiene ad Ashland, nell'Oregon. Ci sono opportunità di lavoro a San Francisco e a Sacramento, a Los Angeles e a San Diego, per chi riesce a coglierle, e piazze di secondo piano come Austin.

    Questo è quello che fece mia madre per otto anni. Lei era brava, era bella e per due volte era stata sul punto di ottenere la parte di Giulietta, ad Ashland e, poi, a San Diego. A trent'anni non aveva trovato ancora un'occupazione stabile, così smise di recitare e si iscrisse alla facoltà di infermieristica. Il solo rimpianto che le rimase fu quello di non aver mai recitato quel ruolo.

    Si dedicò con impegno allo studio e una volta laureata trovò subito lavoro al Bannerman Hospital, qui a Guadalupe, dove conobbe mio padre ed ebbe me.

    Ho ereditato da lei la passione per il teatro, e insieme fummo molto più felici della maggior parte delle persone che conosco; fino a quando mio padre, che ha una laurea in psicologia, un giorno decise che aveva bisogno di ricercare il proprio io e disse a mia madre che se ne sarebbe andato. Non lo vedo da quando ho iniziato le superiori, il che è accaduto quasi due anni fa. Per quello che ne sapevamo era in giro per l'America, qualche volta lavorava, altre no. In un'occasione ricevemmo una cartolina. Mamma e io speravamo sempre che lui tornasse.

    Se mi avessero dato la parte di Giulietta, avrei dedicato la mia interpretazione a lei. Le avrei scritto una dedica nel programma di sala e avrei aggiunto qualcosa di carino. Non era chissà che, ma sarebbe stato un gesto significativo. Un modo per dirle Ti voglio bene a caratteri cubitali in stile elisabettiano.

    Quando rientrai in casa c'era silenzio. Niente di sorprendente. La mamma faceva il doppio turno al Bannerman Hospital e non mi aspettavo che tornasse prima del mattino seguente. Ma il bigliettino attaccato alla bacheca con il quale di solito comunicavamo, quello fu davvero sorprendente:

    È ARRIVATO L'ASSEGNO DI MANTENIMENTO! Tuo padre ha pagato.

    Vuol dire che questo è l'ultimo doppio turno che faccio all'ospedale.

    Domani mattina torno alle 7.30. Chissà? Forse riesco a vederti prima che tu vada a scuola. Sarebbe carino riuscire a fare due chiacchiere prima del tuo diploma.

    Ti voglio bene,

    Mamma

    I miei genitori non erano divorziati. In effetti, se lo fossero stati, sarebbe stato meglio per noi due. Almeno avremmo avuto la legge dalla nostra parte quando papà non pagava quello che aveva promesso per mantenermi. Ma erano solo separati. E lui versava quando ne aveva voglia o se ne ricordava. Il che stava a significare qualcosa tra l'ogni tanto e il mai. E quando lo faceva non era mai molto. Ma quel giorno c'era un assegno sul frigo, con una cifra bella grossa. Quasi un anno di arretrati per il privilegio di non vedermi.

    Provai a non pensare a quanto mi faceva stare male quella situazione e a concentrarmi sulle cose belle che avrei potuto fare con quei soldi. Sicuramente avrei portato mamma a cena fuori per festeggiare. Comprato vestiti nuovi per la scuola. E saldato alcuni conti. E mamma avrebbe lavorato otto ore al giorno, anziché sedici, almeno per un po'. Grazie, papà, ovunque tu sia. Per qualche minuto avevo smesso di chiedermi se avrei avuto o meno la parte di Giulietta. Poi ricominciai.

    L'assegno di mantenimento era un segno del destino. Per un attore, qualsiasi cosa è un segno. Gli attori sono le persone più superstiziose al mondo. E quello era ovviamente un buon segno. Qualsiasi cosa avessi fatto da quel momento in poi per spingere le cose nella giusta direzione avrebbe funzionato. Questo fu ciò che dissi a me stessa.

    E che mi fece pensare a qualcos'altro. Una nuova ossessione. Forse, se

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