I sospetti del milionario: Harmony Collezione
By Daphne Clair
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Daphne Clair
Autrice residente in Nuova Zelanda, ha scritto la sua prima novella alla tenera età di otto anni.
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I sospetti del milionario - Daphne Clair
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
Salzano’s Captive Bride
Harlequin Mills & Boon Modern Romance
© 2009 Daphne Clair de Jong
Traduzione di Carla Ferrario
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
Harmony è un marchio registrato di proprietà
HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.
© 2010 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-5898-796-4
1
Amber Odell aveva già cenato e terminato da poco di farsi una doccia quando il campanello della porta squillò perentorio.
Chiuse lo sportello del pensile con un clic del chiavistello antiquato, appese il canovaccio al suo gancio e corse alla porta.
Le assi di legno del pavimento, coperte dalla moquette sbiadita, scricchiolarono sotto i suoi piedi nudi. Il vecchio edificio, nel sobborgo di Auckland un tempo alla moda, aveva alle spalle una carriera di alti e bassi, da magione di lusso a orfanotrofio a pensione privata finché, verso la fine del Ventesimo secolo, alcune brutali ristrutturazioni l’avevano trasformato in un condominio. Amber era riuscita ad affittare a un costo ragionevole un appartamento a piano terra, in cambio di un’imbiancatura assolutamente necessaria.
Accese le luci del portico, ma esitò scorgendo una grande ombra scura dietro i pannelli di vetro rossi e blu che costituivano la parte alta della porta. Dopo qualche secondo di attesa, la sagoma mosse una mano, battendo con forza sul pannello di legno.
Amber aprì con cautela, pronta a richiudere subito.
Alla luce del portico scorse un uomo dal volto attraente, zigomi pronunciati e naso deciso, con una massa ondulata di capelli neri pettinati all’indietro. I lineamenti severi e le guance non rasate di recente contrastavano con la bocca sensuale, in quel momento stretta con ostinazione e priva di sorriso.
Amber intuì più che vedere le spalle ampie e il petto muscoloso sotto la maglietta bianca, e le lunghe gambe infilate in un paio di pantaloni verdi. Nonostante l’abbigliamento informale, l’aspetto dello sconosciuto indicava stile e ricchezza.
L’attenzione di Amber però fu catturata dallo sguardo degli occhi scuri brucianti di collera. Assurdo, rifletté. Non ho mai visto quest’uomo in vita mia! Non è proprio il tipo che passa inosservato...
Sistemò i capelli biondi che le accarezzavano le spalle lasciate nude dal top, imbarazzata dall’attento esame al quale l’uomo la sottoponeva, a partire dalla fascia di cotone a coste che le copriva il seno, alla striscia di pelle pallida compresa fra il top e i pantaloncini blu, fino alle lunghe gambe ben fatte.
Amber ribolliva di collera per quell’esame sfrontato, e di sgomento per il modo in cui il suo cuore aveva cominciato a galoppare.
Sollevò il mento decisa, movimento necessario per fissare l’uomo negli occhi, e stava per chiedergli finalmente che cosa volesse, quando lui la precedette domandando bruscamente: «Dove lo hai nascosto?».
Lei sbatté le palpebre, sconcertata. «Temo che lei abbia...» stava per dire commesso un errore, ma l’uomo non le lasciò il tempo di finire la frase.
«Ho chiesto dove lo hai nascosto» ripeté irritato. «Dove hai nascosto mio figlio?»
«Certamente non qui» replicò Amber con lo stesso tono. «Ha suonato all’appartamento sbagliato, mi dispiace.»
Stava per chiudere la porta, ma l’uomo glielo impedì infilando un piede all’interno dell’appartamento.
Istintivamente Amber indietreggiò, rendendosi conto troppo tardi che era la cosa peggiore. Lo sconosciuto si chiuse la porta alle spalle e quando lei cercò di allontanarsi lungo il corridoio la afferrò per un braccio e la costrinse a voltarsi.
Aprì la bocca per gridare, sperando nell’aiuto dei vicini, ma riuscì solo a emettere un grido sordo, perché l’uomo le posò una mano sulle labbra e la spinse contro il muro. Sentì il calore del suo corpo solido, così vicino da sfiorarla, e un profumo di cuoio con un accenno di erba appena tagliata.
«Non essere sciocca, non hai motivo di temermi» cercò di rassicurarla, moderando la voce che tradiva un leggero accento straniero.
In quel momento pareva esasperato più che in collera. Amber valutò la possibilità di tirargli una ginocchiata per liberarsi, ma l’uomo improvvisamente la lasciò andare. «Cerchiamo di ragionare.»
Già, facciamolo!, pensò lei cupa. «La cosa migliore sarebbe andarsene prima che chiami la polizia.»
L’uomo corrugò la fronte e una fiammata di collera gli accese di nuovo gli occhi, ma si limitò a dire: «Chiedo solo di vedere mio figlio. Tu...».
«Ti ho già detto...» sulla spinta dell’irritazione Amber passò al tu, «che tuo figlio non è qui!»
«Non ti credo.»
«Ti sbagli.» Si mosse verso la porta, continuando a parlare. «Non posso aiutarti. Adesso vattene.»
«Andarmene?» L’uomo le lanciò un’occhiata offesa. «Dopo essere venuto fin qui dal Venezuela? Non dormo da...»
«Non è un mio problema» tagliò corto Amber. Allungò la mano per aprire la porta ma lui la tenne chiusa. «Se il bambino non è qui» cominciò a bassa voce, nel tentativo di controllarsi, «che cosa ne hai fatto?»
La sua espressione si caricò di una nuova emozione che somigliava a una sincera ansia.
«Niente!»
Lui corrugò le sopracciglia, facendole pensare che Lucifero doveva aver posseduto la stessa bellezza terribile e feroce.
«A che gioco stai giocando?» Ancora una volta la studiò con espressione ostile. «Se hai avuto un figlio il tuo fisico non ne porta i segni.»
Amber restò a bocca aperta. «Io non ho mai avuto un figlio!» Non tutte le persone malate di mente sono pericolose, pensò, cercando di calmarsi.
Quando l’uomo l’afferrò per un braccio ricordò che alcuni invece lo sono. Non devo reagire, potrei scatenare la sua violenza. Se manterrò la calma forse riuscirò a convincerlo ad andarsene.
L’uomo borbottò qualcosa in spagnolo, poi scoprì i denti bianchissimi in un sorriso che ricordava il ringhio di un animale feroce. «Dove vuoi arrivare? Perché scrivermi e poi fingere di non conoscermi?»
«Perché avrei dovuto scriverti?» Amber alzò la voce, incredula. «Io non ti conosco!»
Le mani dell’uomo si strinsero sul suo braccio e solo quando lei sussultò mollarono la presa. «In un certo senso è vero» dichiarò con alterigia, le ciglia lunghe e folte come Amber non ne aveva mai viste. «Per una serata però ci siamo conosciuti molto intimamente, questo non puoi negarlo.»
Sul punto di negare con decisione, Amber esitò, mentre un tremendo sospetto si faceva strada nella sua mente. Venezuela. Sudamerica.
No. Scosse la testa per allontanare quel dubbio. Quest’uomo sta delirando.
«Bene» dichiarò lui con impazienza, male interpretando i suoi gesti. «È una questione semantica. Non si è trattato di intimità... emotiva. Ma comunque sia, non hai dimenticato. Che cosa pensavi quando hai scritto quella lettera? Che ti avrei mandato del denaro e tutto sarebbe finito lì?»
«Lettera? Quale... quale lettera?» balbettò.
«Quale? Vuoi dire che ce ne sono state altre?» Sollevò le sopracciglia con espressione cinica. «Mi riferisco a quella» continuò con esagerata pazienza, «in cui chiedevi un contributo per il mantenimento del figlio che, apparentemente, hai avuto da me.»
Amber si portò una mano alla bocca per trattenere un’esclamazione. «Giuro che non ti ho mai inviato una lettera» dichiarò.
Lo sconosciuto parve sconcertato, ma fu solo un attimo. «Scrivevi di essere disperata! Volevi solo estorcermi del denaro e non c’è mai stato un figlio?»
«Mi crederesti se dicessi che stai parlando con la donna sbagliata?»
L’uomo fece una smorfia e scoppiò a ridere, in modo poco piacevole. «So di aver bevuto più di quanto fosse prudente, quella notte, ma non al punto di dimenticare la donna con cui sono andato a letto.»
Amber non riuscì ad aprire bocca. Lo sconosciuto del resto non gliene lasciò la possibilità. «Ti capita spesso di chiedere agli uomini di pagarti dopo... credo si definisca l’avventura di una notte?» domandò curvando le labbra in un sorriso sarcastico.
«Non sono tipo da avventure di una notte» lo zittì lei. «E nemmeno...» si fece più cauta, «ho mai cercato di ricattare qualcuno.»
«Dunque sono un privilegiato?» Il suo tono suadente la fece sentire ancora più in pericolo. «Se il nostro incontro non è stato l’avventura di una notte, non so proprio che cosa sia stato. Da allora non c’è stato più nessun contatto tra noi... fino a quando hai rivendicato di avermi dato un figlio.»
«Non ho rivendicato niente del genere!» sbottò Amber. Vedendolo avvicinarsi, paura e collera resero la sua voce tagliente. «Stammi lontano!»
Lui si arrestò di scatto, come colpito da una fucilata. «Non ho intenzione di farti del male.»
«Davvero?» Amber si augurò che quel tono beffardo non scatenasse la sua furia, ma non poté trattenersi. «Domani sarò coperta di lividi.»
Fu colpita dall’espressione mortificata che si disegnò sul viso dello sconosciuto. «Se è così ti chiedo scusa. Ho agito senza riflettere.»
Non pareva il tipo incline a scusarsi, perciò, incoraggiata, Amber provò di nuovo a spiegarsi. «Ascolta, ho detto che non so...»
«Perché dovrei ascoltare le tue bugie?»
«Non sono bugie! Non hai capito niente.»
Il suono che gli uscì dalla gola ricordava un ringhio soffocato e la paura le strinse il cuore. «E allora dammi la prova che il bambino non c’è.»
Amber, trattenendo la collera, decise di assecondarlo. Forse a quel punto se ne andrà via. «Va bene» acconsentì. Non ci sarebbe voluto molto a mostrargli l’appartamento, solo tre camerette oltre a cucina e bagno. «Cerca pure quanto vuoi.»
L’uomo la fissò insospettito. «Accompagnami.»
Non voleva rischiare che corresse a chiamare aiuto. Amber si strinse nelle spalle e, cercando di calmare il cuore, lo accompagnò in soggiorno.
Di fronte al camino era collocato un divano verde oliva coperto di morbidi cuscini, accanto al quale si trovava un vaso cinese che Amber aveva riempito di piume bianche di cortaderia richardii.
Le due poltrone che affiancavano il divano erano ricoperte da una fodera di cotone calicò, mentre un paio di scatole di legno verniciate di rosso brillante fungevano da tavolini. Il televisore e l’impianto stereo si trovavano ai lati del camino, sulla cui mensola facevano bella mostra alcuni volumi, sostenuti da reggilibri di giada del South Island ereditati dalla nonna.
L’uomo esaminò il locale senza entrarci e poi seguì Amber in camera da letto. Il parquet del pavimento era coperto da folte pelli di pecora.
L’uomo entrò deciso senza allentare la presa sul polso di Amber e si fermò a braccia conserte davanti alla toilette di seconda mano in stile Queen Anne.
Aprì l’armadio con le ante a specchio, esaminò con un’occhiata gli abiti appesi e poi concentrò l’attenzione sui cassetti della toilette.
Amber lo apostrofò infuriata. «Non vorrai frugare nella mia biancheria! Sei un maniaco?»
Per un attimo una fiammata di collera gli illuminò lo sguardo. Poi si allontanò dalla toilette senza degnarsi di risponderle, attraversò l’atrio e si infilò in bagno, trascinando Amber dietro di sé.
Non trovò nessuno nascosto dietro la tenda di plastica del box doccia, né accucciato sotto il lavabo, così proseguì verso lo studio, che ospitava un letto per gli ospiti, un mobiletto e un tavolo per il computer portatile. Sulle pareti erano appese mensole fitte di libri.
Restava solo la cucina, suddivisa in due zone: la cucina vera e propria e la zona pranzo. Aprì la porta che dava sul piccolo patio, scrutò il tavolo di ferro battuto e le due sedie e solo una volta richiusa la porta liberò Amber dalla stretta.
All’interno esaminò i mobili della cucina, il piano di lavoro che ospitava il tostapane e il contenitore del pane. Osservandolo di spalle, Amber notò che i capelli gli coprivano la nuca, accarezzandogli il collo.
Mentre valutava se sarebbe riuscita a correre all’ingresso, lo vide irrigidirsi e allungare la mano per afferrare qualcosa.