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Illecita sorpresa: Harmony Destiny
Illecita sorpresa: Harmony Destiny
Illecita sorpresa: Harmony Destiny
Ebook139 pages1 hour

Illecita sorpresa: Harmony Destiny

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About this ebook

Puro piacere, niente legami.



Rebecca Jameson ha passato mesi a lavorare in Africa fianco a fianco con il brillante chirurgo Seth Andrews. Lo ha sempre reputato una per-sona integerrima, oltre che un uomo molto affascinante. Perciò, una volta rientrata negli Stati Uniti, non può credere alle proprie orecchie quando si sente proporre da Seth, che l'ha raggiunta nel luogo incantevole dove Rebecca si sta godendo un periodo di riposo donatogli da un misterioso benefattore, di condividere con lui una relazione appassionata senza pensare al futuro. Una proposta indecente in piena regola. Ora la domanda è: dove troverà Rebecca la forza di rifiutare?
LanguageItaliano
Release dateJan 10, 2019
ISBN9788858992494
Illecita sorpresa: Harmony Destiny
Author

Joan Hohl

E' una scrittrice eclettica, che sa dare vita a personaggi sempre coinvolgenti e reali.

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    Book preview

    Illecita sorpresa - Joan Hohl

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    The M.D.’s Mistress

    Silhouette Desire

    © 2008 Joan Hohl

    Traduzione di Lucilla Negro

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    Harmony è un marchio registrato di proprietà

    HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.

    © 2009 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5899-249-4

    Prologo

    E per concludere la nostra prima rubrica del nuovo anno, miei cari lettori, vi preannuncio che quella deliziosa chiacchiera è tornata alla ribalta. Vi ricordate del misterioso milionario che ogni Natale sorprende i più meritevoli con regali da milioni di dollari? Be’, non ci crederete, ragazzi miei, ma quest’anno non farà eccezione.

    Così si mormora, per lo meno. Stavolta, però, prepariamoci a qualche colpo di scena.

    Ci sembra di aver capito che il nostro misterioso benefattore inizia con l’inviare in forma anonima, durante tutto l’anno, piccoli regali a coloro i quali in un modo o nell’altro lo hanno positivamente colpito, poi sta a guardare quello che succede.

    Chi continua a rendere felice il nostro generoso milionario forse troverà un assegno da un milione di dollari nella calza. E chi invece lo delude? Vi troverà, può darsi, cenere e carbone o, magari, un biglietto con su scritto: Peccato, non sai che cosa ti sei perso. La prossima volta impara a essere più buono.

    Mah. Fatto sta che moriamo dalla voglia saperne di più! In fondo, chi è a conoscenza esattamente di come operi il nostro generoso benefattore? Nessuno. Le nostre sono solo illazioni.

    Pensate, il vostro giornalista preferito, che sarei io, si occupa da lungo tempo di questa storia, ma il guaio è che tutti i collaboratori nel nostro misterioso milionario hanno la bocca cucita!

    Non ci resta che aspettare una nuova storia e sperare, stavolta, di capirne un po’ di più.

    Dopo essere stato letto tutto d’un fiato, l’articolo di giornale venne depositato sulla marea di carte che affollava la scrivania.

    «Sì, l’ho visto, zio Ned» disse l’uomo seduto in una posa rilassata al lato opposto dell’enorme scrivania di legno scuro. «Se ne dicono tante, ogni anno. Preoccupato? Vuoi per caso gettare la spugna?»

    La sua risposta fu un cipiglio che avrebbe indotto chiunque a cercare rifugio sotto la sedia più vicina.

    L’uomo, invece, sorrise e scosse il capo. «No, non credo proprio. Sei un tenerone dal cuore d’oro, tu.»

    1

    Stava di nuovo piovendo. Una pioggerellina sottile, fredda e pungente, di quelle che ti penetrano nelle ossa.

    Le spalle ricurve, Rebecca si trascinava stancamente verso il suo alloggio nel piccolo villaggio africano che tutti, incluso Dio, sembravano aver dimenticato.

    Dopo più di diciotto mesi in Africa, era allo stremo delle forze. C’erano delle volte che temeva davvero di non farcela.

    Ma non poteva mollare.

    Avevano bisogno di lei in quel piccolo ospedale, costruito grazie alla generosità di alcuni suoi connazionali. Ed era molto affezionata alla gente del luogo, in special modo ai bambini, angeli dai visi dolci e gli occhi innocenti, neri come la notte.

    Rebecca Jameson lavorava come infermiera presso la Clinica Universitaria della Pennsylvania già da diversi anni quando aveva chiesto di partire volontaria per il continente africano a offrire il suo aiuto in quel piccolo ospedale. Lavorare dieci, dodici e talvolta anche quattordici ore al giorno, tutti i giorni, cominciava a pesare sul suo fisico debilitato.

    Sapeva che avrebbe dovuto dare retta a tutte quelle persone che le consigliavano di accettare di farsi sostituire e tornare negli Stati Uniti. Ma da quando il dottor Seth Andrews, il chirurgo tanto in gamba quanto insopportabile e arrogante le aveva, più che chiesto, imposto di partire, lei si rifiutava, per dispetto, di muoversi da lì.

    Contenta invece di aver dato ascolto a chi le aveva consigliato di mettere in valigia degli stivali di gomma, continuò a camminare a fatica sul terreno fangoso, ripercorrendo con la memoria il lungo turno di lavoro da poco completato.

    Emise un sospiro avvilito. Il dottor Andrews era stato più dispotico e odioso che mai per tutta la giornata.

    Col capo chino, concentrata nel poggiare un piede davanti all’altro, Becky corrugò la fronte, confusa, mentre la vista le si oscurava. Che diavolo...?

    Fu il suo ultimo pensiero prima che il buio totale l’avvolgesse. L’istante dopo, cadeva lunga per terra.

    Riprese i sensi lentamente. Aveva un dolore forte alla testa. A tutto il corpo. Si sentiva stordita, la mente come ovattata.

    Il suo primo pensiero fu: Dove mi trovo? Stava male, tanto male, ed emise un sommesso gemito di protesta.

    «Oh, finalmente si è svegliata. Gliel’avevo detto che era esausta.»

    Benché frastornata, riuscì a distinguere il timbro stizzito del dottor Andrews. «Lo so» rispose lei con voce strozzata. «Immagino che, non avendo ancora tirato le cuoia, le toccherà continuare a sopportarmi.» Era in uno stato confusionale, immaginò, altrimenti non avrebbe trovato il coraggio di esprimersi in quel modo con Dio sceso in terra.

    «Non credo proprio.» Il suo tono era quasi minaccioso.

    «Morirò?»

    «No, Rebecca, non morirà.» Una sfumatura divertita gli attraversò momentaneamente la voce. «Se ne tornerà buona buona a casa.»

    A casa? Neanche per idea! No!

    Il monosillabo le rimbombò nella testa forte e chiaro. Nonostante fosse palese che l’illustre dottor Andrews la detestasse e non vedesse l’ora di sbarazzarsi di lei, Becky non voleva andarsene. Non poteva vivere senza i bambini.

    E non voleva lasciare lui.

    Era masochista, forse, ma non sopportava di non vederlo più.

    Inoltre, per quanto le seccasse ammetterlo, Seth Andrews era il miglior chirurgo con cui avesse mai lavorato.

    «Io... io non... voglio...» iniziò, la gola stretta da una morsa d’ansia.

    «Non mi interessa che cosa vuole lei» ribatté il dottore in tono categorico. «Non ce la fa più, non vede? È a pezzi. La prossima volta che sverrà...» Si fermò e inspirò rapidamente. «Be’, non ci sarà una prossima volta. Ho già provveduto al suo trasporto. Che le piaccia o no, parte.»

    «Ma...» Becky provò a protestare.

    «Niente ma, Rebecca. Se ne torna a casa. Punto e basta. Ora, per cortesia, stia zitta che la devo visitare.»

    Becky chiuse gli occhi per trattenere le lacrime che minacciavano di sgorgarle copiose. Accidenti a lui. Poi ebbe un sussulto allorché il freddo stetoscopio entrò in contatto con la pelle nuda.

    La pelle nuda.

    Un fremito improvviso le percorse il corpo quando si rese conto di avere i seni esposti al suo sguardo.

    Era un medico, per la miseria, si ripeté, serrando i denti per contenere la sensazione inattesa.

    Sospirò a metà tra il sollevato e il dispiaciuto quando sentì il tessuto coprirle di nuovo il petto.

    «È un po’ congestionata. Uhm... non mi piace... Per il suo bene, Rebecca, è meglio che lasci l’Africa.»

    Lei aprì gli occhi. «Mi posso alzare, almeno?» gli chiese, notando, in quel momento, che neanche lui, in realtà, aveva una bella cera. Sembrava esausto, sfibrato, l’aria sbattuta. Rughe di stanchezza gli solcavano il viso dai lineamenti sottili, cesellati. Se possibile, aveva un aspetto addirittura peggiore dell’ultima volta che lo aveva visto. Quando era stato?, si interrogò... il giorno prima, forse?

    «No.» Lui scosse il capo, mettendo in movimento le ciocche scure diventate un po’ troppo lunghe e scomposte.

    Becky aveva sempre pensato che avesse dei bei capelli lucenti. Ma ora, necessitavano di un bel taglio. Non glielo avrebbe mai detto, naturalmente. Non aveva voglia di ricevere una rispostaccia delle sue.

    Richiuse gli occhi.

    «Brava, si faccia una dormita. Ne ha bisogno.»

    Anche lui, per la verità, ne aveva bisogno. Ma si tenne per sé anche quella considerazione. La mancanza di sonno era di sicuro il problema principale del dottor Andrews.

    Nel giro di qualche secondo, Rebecca scivolò in un sonno profondo.

    Quando si svegliò, il mal di testa era scemato quasi del tutto, grazie evidentemente alle medicine che le erano state somministrate. Aveva tuttavia ancora il corpo dolorante, ma non così come prima, per fortuna.

    «Va meglio?»

    Non era la voce di Seth. Con un sospiro di sollievo, Becky aprì gli occhi, sorridendo al grazioso viso color caffè della giovane infermiera in piedi accanto al letto. «Sì» rispose, con una voce ancora rauca e impastata di sonno. «Ho sete.»

    La giovane donna, Shakana, le restituì il sorriso. «Per forza, hai dormito così tanto.» Parlava un inglese perfetto, non solo perché aveva frequentato una scuola americana, ma anche perché si era molto esercitata con Becky da quando era arrivata al villaggio.

    Osservandola mentre le riempiva un bicchiere d’acqua, le domandò: «Da quant’è che sto qui... intendo da dopo che mi sono accasciata per strada?»

    «Non ti sei accasciata. Sei svenuta» precisò l’infermiera. «Hai perso i sensi l’altro ieri sera, se non erro.»

    «Caspita! Due giorni» si stupì Rebecca, deglutendo forte e mandando poi giù un paio di abbondanti sorsate d’acqua. «Ho avuto un trauma cranico?» Era evidente che ce l’avesse avuto. Cadendo, aveva battuto la testa, se lo ricordava benissimo.

    «Sì, ma lieve.» Shakana le rivolse un sorriso rassicurante. «Come va il mal di testa?»

    «Meglio.» Becky increspò gli occhi debolmente. «Anche se mi sento ancora un po’ stordita.»

    «Eri esausta, tesoro mio, altrimenti non saresti collassata in quel modo. Semplicemente, sei arrivata al capolinea. Non ce la fai più.»

    Becky sospirò e batté le palpebre per scacciare le lacrime. «E ora mi vuole mandare a casa» piagnucolò, la voce rotta, benché venata di amarezza.

    L’infermiera africana sfilò un fazzoletto di carta dal dispenser accanto

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