Luna di miele con lo sceicco: Harmony Collezione
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Chantelle Shaw
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Luna di miele con lo sceicco - Chantelle Shaw
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
At the Sheikh’s Bidding
Harlequin Mills & Boon Modern Romance
© 2008 Chantelle Shaw
Traduzione di Carla Ferrario
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
Harmony è un marchio registrato di proprietà
HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.
© 2009 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-5899-590-7
1
Deserto, Palazzo Reale del regno di Qubbah
Il principe Zahir bin Kahlid al Muntassir si affrettò a raggiungere l’appartamento privato del re Kahlid, suo padre. Aveva un’espressione così minacciosa e feroce che le guardie si scansarono per lasciarlo passare.
«Come sta?» domandò quando A’waan, l’assistente di suo padre, lo salutò con un profondo inchino.
«Dorme, sire. Il dottore gli ha somministrato un sedativo e ha dato precise istruzioni di lasciarlo riposare» mormorò A’waan, indugiando ansioso di fronte alla porta che portava nella camera del re.
«Non preoccuparti, non ho intenzione di disturbarlo» lo calmò Zahir. «La morte del principe Faisal è stata uno shock per tutti.»
«Sua Altezza è prostrato. Non si era ancora ripreso dal virus che ha contratto recentemente e temo che questa notizia sia più di quanto possa sopportare» considerò A’waan con gravità. «L’unica gioia è stata la scoperta di avere un nipote, purtroppo orfano.»
Zahir contrasse la mascella, tentando di controllare l’emozione.
«È desiderio di Sua Maestà che lei parta per l’Inghilterra e riporti il bambino nel Qubbah.»
«Conosco i desideri di mio padre» replicò Zahir, asciutto. Si avvicinò alla finestra che dava sui magnifici giardini interni al palazzo, con fontane decorate che riversavano i getti in un laghetto di acqua azzurra. Là dentro il deserto era stato domato, ma, appena oltre le mura della fortezza del XII secolo, la sabbia pareva un infinito mare rovente.
Il sole al tramonto sembrava sospeso, un immenso globo dorato che lasciava nel cielo scie rosse e rosate. Zahir ricordò quante volte a quell’ora aveva gareggiato con Faisal, galoppando sulla sabbia in sella ai loro cavalli o liberando i falconi che si alzavano in volo nel cielo di un blu compatto. Oltre che fratelli, Zahir e Faisal erano stati il migliore amico l’uno dell’altro. Poi quel legame si era spezzato perché si erano innamorati della stessa donna.
Zahir corrugò la fronte. Come aveva scoperto a sue spese, l’amore poteva essere un’emozione distruttiva. Non avrebbe più permesso al suo cuore o alla sua anima di infiammarsi per quel sentimento.
A’waan riprese a parlare. «Suo padre sperava di riconciliarsi con Faisal che, come figlio maggiore, gli sarebbe succeduto sul trono. Ma ora che il principe è morto, i sudditi sono in subbuglio, in attesa che il re annunci il suo successore. Mi perdoni l’ingerenza...» L’anziano servitore tentennò, a disagio sotto lo sguardo severo di Zahir. «So che Sua Maestà desidera che lei affidi a qualcun altro gli affari in America e si trasferisca definitivamente nel Qubbah... con una moglie. Ora più che mai è suo dovere, sire.»
Zahir lo fissò con espressione risentita. «Non ho bisogno di lezioni su quelli che sono i miei doveri» lo ammonì, secco. Sapeva già che la morte di suo fratello implicava che da quel momento la sua vita non sarebbe più stata sua. Non si sarebbe sottratto alle responsabilità verso il regno che la sua famiglia governava da generazioni, ma il matrimonio era una faccenda diversa. «Se ricordi, sono stato sul punto di sposarmi sei anni fa con una donna scelta da mio padre, e sai che cosa è successo. Mi sposerò se e quando sarò pronto.» Si allontanò bruscamente dalla finestra, lanciando una rapida occhiata all’anziano servitore. «Quando mio padre si sveglierà, fagli sapere che sono partito per l’In-ghilterra» concluse prima di andarsene.
Ingledean House - Yorkshire settentrionale
«È arrivato l’avvocato Gordon Straker» annunciò Alice Trent, cuoca e governante a Ingledean House, quando Erin mise piede in cucina. «È venuto per il testamento» aggiunse.
Erin annuì. «Ci siamo sentiti al telefono un paio di giorni fa, mi aveva annunciato la sua visita.»
«Ti aspetta in biblioteca.» Alice smise di sbucciare patate, valutando l’aspetto disordinato di Erin. «Sembri appena tornata dalla miniera.»
«Mi sono messa a pulire la camera degli ospiti.» Abbassò lo sguardo sui jeans impolverati. «La camera di Kazim è troppo piccola, adesso che dorme in un letto normale, perciò quella può diventare la sua stanza dei giochi. Ho bisogno di tenermi occupata» aggiunse, mettendosi subito sulle difensive sotto lo sguardo critico di Alice.
Quando Kazim era sveglio, non le lasciava il tempo di pensare: come ogni bambino vivace di tre anni assorbiva tutte le sue energie. Il suo sonnellino pomeridiano, però, le regalava un’ora di solitudine e di riflessione di cui avrebbe volentieri fatto a meno.
Erano trascorse quasi tre settimane dal funerale di Faisal. Già un anno prima, lui le aveva confidato di avere un tumore al cervello e la confortava l’idea che le sue sofferenze fossero finalmente finite, che riposasse in pace, magari con la sua amata Maryam.
Faisal, però, era stato il suo migliore amico e ne sentiva la mancanza. Ogni volta che pensava al futuro, il panico l’assaliva. Il benessere di Kazim era una responsabilità soltanto sua, ormai, e l’idea di poter fallire quel compito la terrorizzava.
Si voltò a osservare Kazim, impegnato a ispezionare l’interno della credenza. Cantava una canzoncina imparata all’asilo e la sua vocetta acuta le strinse il cuore. Un paio di volte le aveva chiesto di suo padre, ma, da quando gli aveva spiegato che si era addormentato per sempre, non ne aveva più parlato.
Era stata la cosa più difficile che Erin avesse mai fatto in vita sua. Il ricordo del faccino serio di Kazim le inumidiva ancora gli occhi. Per fortuna, il bambino non dava segni di malessere. Forse era ancora troppo piccolo per rendersi conto di essere solo al mondo...
Non è solo, protestò Erin. Ha sempre me, e io lo amerò e lo proteggerò finché ne avrà bisogno, proprio come ho promesso a suo padre.
«Ho preparato del tè.» La voce di Alice irruppe nei suoi pensieri. «Se vuoi servirlo tu, posso tenere d’occhio Kazim.»
Erin contemplò il vassoio. «Perché tre tazze?»
«Il signor Straker non è solo. Mi ha fatto un certo effetto vedere l’altro signore entrare dalla porta. Per un momento, ho creduto fosse il fantasma di Faisal.» La donna scosse la testa. «Un bell’uomo alto e scuro, mediorientale, con lineamenti che ricordano Faisal» aggiunse, adagio. «Credi possa essere un parente?»
Erin fu assalita dalla nausea. «Faisal non aveva parenti» chiarì subito. «Ma non voglio farmi aspettare ancora.» Afferrò il vassoio e si mosse per raggiungere gli ospiti.
Alice scrutò con aria rassegnata i suoi abiti stazzonati. «Purtroppo non c’è tempo per cambiarti. Nevica ancora e Straker è ansioso di rientrare in città prima che le strade diventino impraticabili.»
Erin uscì e, rasentando le pareti dell’atrio rivestite di pannelli di quercia, colse la propria immagine allo specchio. I jeans sbiaditi e la maglietta erano più sporchi di quanto immaginava, e dalla treccia in cui aveva raccolto i capelli sfuggivano ciocche ribelli.
Non importa, in fondo né il signor Straker né il suo compagno sono venuti per giudicare il mio aspetto, si disse mentre, reggendo il vassoio con una sola mano, apriva la porta della biblioteca. Si arrestò di scatto, così bruscamente che le tazze tintinnarono rumorosamente nei piattini.
L’uomo in piedi accanto alla finestra pareva assorto nella contemplazione della brughiera. Con la sensazione che il cuore cessasse di battere, Erin comprese perché Alice avesse pensato di trovarsi di fronte al fantasma di Faisal. Il profilo dello sconosciuto era stranamente familiare, ma, quando si voltò verso di lei, il buonsenso fece piazza pulita di quelle fantasie.
Quell’uomo era tutt’altro che uno spettro. La somiglianza con Faisal dipendeva dalla pelle olivastra, dai capelli neri e lucidi e dall’aria esotica.
Indossava un abito grigio scuro dal taglio perfetto che sottolineava la sua corporatura slanciata e atletica. Alto più di un metro e novanta, era dotato di spalle ampie che gli conferivano un’aura di forza e potenza. Ma ciò che catturò l’attenzione di Erin e le fece battere il cuore fu il suo volto.
Il naso leggermente aquilino non inficiava la perfezione delle sue sembianze: zigomi nettamente delineati, mascelle squadrate, capelli e occhi neri come la notte, sopracciglia folte e scure.
Era l’incarnazione dell’ideale di bellezza maschile e il respiro le si fermò in gola. Tanto bello da sembrare una fantasia, era un sogno diventato realtà. Erin non era preparata all’effetto che ebbe su di lei.
Lo straniero le rivolse un’occhiata di distaccato apprezzamento e lei arrossì.
«Buongiorno, ho portato del tè. Sarà intirizzito, qui a Ingledean il sistema di riscaldamento è antiquato e funziona male.»
Le sopracciglia scure si contrassero in un’espressione sarcastica ed Erin si sentì avvampare. La somiglianza con Faisal era innegabile, però né lui né nessun altro uomo aveva suscitato in lei un turbamento così intenso e sconvolgente. Si sentiva scossa dal suo vigore, ma, sforzandosi di respirare normalmente, si avvicinò alla scrivania, dove posò il vassoio.
«Sono Erin.» Tese la mano sorridendo, nella vana attesa che l’uomo seguisse il suo esempio.
«Può versare il tè e andarsene. La sua presenza non è necessaria» la informò in tono risoluto, prima di voltarle le spalle e riprendere la contemplazione della brughiera coperta di neve.
Erin fissò la sua schiena, zittita da tanta insolenza. Chi diavolo crede di essere? E come si permette di parlarmi con quel tono, come se fossi la cameriera di un dramma vittoriano?
Lo shock lasciò presto il posto alla collera. Aveva trascorso l’adolescenza sentendosi insignificante, finché i genitori adottivi l’avevano liberata da una vita avviata al fallimento, convincendola di poter diventare un valido membro della società. Ma la fragile sicurezza acquisita nel periodo trascorso con John e Anne Black era ancora facile da scalfire e, in quel momento, Erin si sentiva la stessa ragazzina ribelle e abbandonata, scaricata in un ente assistenziale dopo l’ultimo, fatale buco di eroina della madre.
Si morse le labbra e afferrò la teiera, combattuta dall’urgenza di sparire dalla stanza e la tentazione di dire allo straniero che cosa esattamente poteva fare del tè. Ma prima che potesse pronunciare una sola parola, la porta si aprì e l’avvocato dai capelli grigi, che lei aveva già incontrato a Londra insieme a Faisal, fece il suo ingresso.
«Ah, Erin, una tazza di tè caldo, proprio quello che ci vuole.» L’uomo sorrise a entrambi, ma si rabbuiò alla vista della neve che scendeva sempre più fitta. «Sedetevi, cominciamo subito. Non vi farò perdere tempo, il testamento di Faisal è chiaro e conciso.»
Zahir preferì restare in piedi, perplesso di fronte al comportamento della cameriera, già seduta sul divano.
Erin era la donna più bella che avesse mai visto, come dimostrava fin troppo chiaramente la reazione del suo corpo. La perfetta simmetria e i lineamenti del suo viso erano incantevoli: zigomi alti, sopracciglia castane perfette, nasino diritto, bocca forse un po’ troppo grande, ma labbra piene e morbide. Da baciare.
Una folta treccia di capelli biondo ramato le ricadeva fin quasi in vita, richiamando le sfumature delle foglie in autunno. Anni prima, studente ad Harvard, era rimasto colpito dalle incredibili gradazioni di colore utilizzate da Madre