Il re delle dune (eLit)
By Kate Hewitt
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About this ebook
Lucy Banks vuole dare un taglio alla sua storia in sospeso con Khaled el Farrar, principe ereditario del Biryal. Per questo ha deciso di andare da lui di persona, ma parlargli si dimostra più complicato del previsto, a causa dell'etichetta reale. Quando però ci riesce, l'esito della conversazione non è quello che lei si aspettava, e invece di chiudersi la porta alle spalle, se la ritrova completamente spalancata. Forse per sempre...
Kate Hewitt
Tra le autrici più amate e lette dal pubblico italiano.
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Book preview
Il re delle dune (eLit) - Kate Hewitt
Immagine di copertina: Cavan Images / iStock / Getty Images Plus
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
The Sheikh’s Love-Child
Harlequin Mills & Boon Modern Romance
© 2009 Harlequin Books S.A.
Traduzione di Roberta Canovi
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
© 2010 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-5893-718-1
www.eHarmony.it
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.
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Frontespizio. «Il re delle dune (eLit)» di Hewitt KatePrologo
Mi dispiace.
Sembrava che le parole riecheggiassero nella stanza, anche se chi le aveva pronunciate se n’era andato.
Mi dispiace.
C’era stata una nota di compassione nella voce del medico, un accenno di pietà che gli aveva provocato un accesso di collera impotente, mentre giaceva sul letto, prostrato, osservando il luminare scuotere la testa, sorridere mestamente e andarsene, lasciandolo con il suo ginocchio in frantumi, la carriera finita, i sogni infranti.
Khaled non aveva bisogno di guardare quella dannata lastra o gli esami per sapere ciò che sentiva - letteralmente - nelle ossa. Era un rudere d’uomo con una tragica, inevitabile diagnosi.
Nuvoloni neri incombevano su Londra, ammantandola di un’oscurità innaturale. Assalito da una fitta dolorosa, il principe Khaled el Farrar distolse lo sguardo dalla finestra e picchiò il pugno sul letto d’ospedale. Aveva rifiutato gli antidolorifici, voleva sapere con cosa avrebbe avuto a che fare - cosa avrebbe dovuto fare - per il resto della vita.
E adesso lo sapeva: niente. Nessun ulteriore intervento chirurgico e nessuna fisioterapia gli avrebbe restituito la carriera di giocatore di rugby, o avrebbe sanato il ginocchio massacrato, o gli avrebbe concesso un futuro, una speranza. A ventotto anni era un uomo finito.
Un discreto bussare alla porta, ed ecco Eric Chandler, primo centro della squadra inglese, fare capolino dallo spiraglio.
«Khaled?» Entrò in camera, chiudendo con delicatezza la porta.
«Hai saputo?» lo accolse Khaled a denti stretti.
Eric annuì. «Il medico me lo ha accennato. Più o meno.»
«Non c’è un più» replicò Khaled con un sorriso mesto. Digrignava i denti, e la fronte era imperlata di sudore. Il dolore era atroce. Si conficcò le unghie nel palmo. «Non giocherò mai più. Non potrò mai più...» Tacque, perché non poteva concludere quella frase. Concluderla avrebbe reso il tutto definitivo, lo avrebbe esposto alla sofferenza, e alla debolezza. All’ammissione della sconfitta.
Eric rimase in silenzio, e Khaled apprezzò ancora di più la sua amicizia. Che cosa c’era da dire? Quali parole pietose avrebbero potuto aiutarlo? Il dottore aveva già detto tutto: mi dispiace.
Ma quelle parole non servivano. Non gli avrebbero sistemato il ginocchio, o restituito un futuro da uomo sano. Non lo preservavano dal domandarsi quanto tempo aveva, quanto tempo aveva il suo corpo, prima che la malattia avesse la meglio e le ossa si frantumassero.
Mi dispiace non serviva proprio a niente.
«E Lucy?» domandò Eric dopo un lungo silenzio spezzato soltanto dal respiro ansante di Khaled.
Lucy. Era sufficiente quel nome a riportargli alla mente ricordi che lo ferivano. Adesso Lucy lo avrebbe voluto? Sommerso da un’ondata di amarezza, girò la testa, sorprendendosi che la sua voce suonasse così indifferente, così fredda. «Che cosa c’entra Lucy?»
Eric lo guardò, allibito. «Khaled... lei... lei vuole vederti.»
«In queste condizioni?» Khaled indicò il ginocchio leso. «Non credo proprio.»
«È preoccupata.»
Lui scosse il capo. Lucy provava dei sentimenti, forse anche amore, per l’uomo che era stato, non per quello che era, e, ancor peggio, per quello che sarebbe diventato. Il pensiero della sua pietà, del suo disgusto, lo spinse ad aggrapparsi di nuovo al letto. «Ma, spiegami, perché ti agiti tanto?» ribatté, freddo, notando che Eric arrossiva per l’indignazione. «Che cosa significa Lucy per te?» proseguì, aspro, sapendo di essere sleale, di comportarsi in modo sleale.
Dopo una lunga pausa, Eric replicò con voce atona: «Niente». Esitò un istante. «Quanto significa per te?»
Lo sguardo di Khaled si spostò alla finestra. Sulla città stava scendendo una nebbia fitta. Chiuse gli occhi e pensò a Lucy, alla sua morbida massa di capelli scuri, alla calma compostezza, al sorriso facile. Lo aveva colto di sorpresa con quel sorriso, aveva sentito uno strano rimescolio interiore. Quando gli sorrideva, aveva l’impressione che gli facesse dono di un tesoro.
Era la fisioterapista della squadra inglese di rugby, e per due mesi era stata la sua amante.
Due mesi incredibili, e adesso questo. Ora non avrebbe più giocato a rugby, non sarebbe mai più stato lo stesso, l’asso che tutti adoravano e ammiravano. Era ferito nell’orgoglio, naturalmente, ma la ferita incideva, a un livello più profondo, sul cuore.
Era stato privato di tutto.
Pensò alla telefonata di suo padre, alla vita che l’aspettava nel paese di origine, il Biryal. Una sentenza di reclusione a vita.
Khaled sapeva che l’esistenza che si era scelto era finita, senza via di scampo. Tutto era finito.
Aprì gli occhi. «Non conta molto, per me.» Gli faceva male dirlo, fingere che fosse la verità. «Dov’è adesso?»
«È andata a casa.»
La risata amara con cui accolse la notizia risuonò come un gemito. «Non ce la faceva a stare qui, vero?»
«Khaled, sei stato ore in sala operatoria.»
«Non voglio vederla.»
Eric sospirò. «Bene. Magari domani?»
«Mai più.»
Le parole riecheggiarono nella stanza in modo definitivo, proprio come quelle del medico: mi dispiace.
Eric si irrigidì. «Khaled...?»
Gli sorrise a fatica. Non voleva che Lucy lo vedesse in quello stato; non avrebbe sopportato di scorgere lo shock nei suoi occhi scuri, mentre lottava per contenere le emozioni, alla ricerca di qualche debole parola di consolazione. Non sopportava l’idea di ferirla, sapendo che lei avrebbe avuto paura di ferire lui.
Non sopportava di essere così impotente. C’era una sola scelta da fare e, nello stato confusionale in cui si trovava, gli parve sorprendentemente semplice. «Non c’è più niente per me, qui, Eric.» Nessuno. Trasse un profondo respiro. «È giunto il momento di tornare ai miei doveri in Biryal.» Quei pochi che suo padre gli avrebbe concesso. Per un attimo immaginò la propria vita: un principe storpio, che suscitava pietà nella sua gente e la condiscendenza di suo padre, il re.
L’idea gli riusciva intollerabile, ma l’alternativa era ancora peggio: restare a guardare gli amici e la donna che amava andare avanti senza di lui. Avrebbero cercato di aiutarlo con la loro compassione, ma, nel giro di qualche tempo, la sua presenza sarebbe stata un peso. E lui avrebbe finito per odiarli, e si sarebbe odiato.
Era già accaduto. Era stato testimone del decadimento fisico di sua madre nel corso degli anni, aveva visto la vita prosciugarsi in lei, e la pietà degli altri. E quello era stato peggio della stessa infermità.
Meglio tornare in Biryal. Aveva sempre saputo che, prima o poi, sarebbe stato costretto a farlo. Ma non immaginava che accadesse in quel modo: zoppicante, ferito e frustrato.
La sofferenza lo assalì al punto da percepire un grumo di infelicità nel petto, lacci di acciaio che gli imprigionavano il corpo devastato, spremendone fuori l’essenza della vita, la speranza, la felicità.
«Khaled, ti procuro dei calmanti...»
«No, lasciami solo.» Faticò a trarre un respiro. Pareva che i polmoni fossero in fiamme. «Non parlarne con... con Lucy. Non dirle... niente.» Non tollerava che lo vedesse in quello stato, e neanche che sapesse che era ridotto così.
«Ma lei vuole sapere...»
«No, non sarebbe onesto nei suoi confronti.» Khaled distolse lo sguardo.
Dopo qualche attimo, mentre Khaled si morsicava il labbro per impedirsi di urlare dal dolore, Eric se ne andò.
E allora lui si arrese alla sofferenza, consentì all’amarezza e alla sconfitta di avere la meglio, finché non si sentì quasi soffocare, mentre le prime gocce di pioggia picchiettavano contro i vetri.
1
Quattro anni dopo
Lucy Banks piegò il capo per cogliere uno scorcio dell’isola del Biryal quando l’aereo uscì da una coltre di nubi, l’Oceano Indiano che si stendeva sotto di loro, una distesa infinita di azzurro.
Batté le palpebre, alla ricerca di una striscia di terra, qualcosa di verde che segnalasse che si stavano avvicinando alla destinazione, ma c’era soltanto acqua.
Trasse un sospiro di sollievo e si appoggiò di nuovo allo schienale. Non era pronta ad affrontare il Biryal, e tanto meno il suo principe ereditario, lo sceicco Khaled el Farrar.
Khaled. Il nome disegnava un caleidoscopio di ricordi e immagini nella sua mente: il suo sorriso allegro, il modo in cui i suoi occhi scuri ravvivati da pagliuzze dorate avevano catturato i suoi in un pub dopo una partita, l’ondata di sensazioni che una sua occhiata aveva suscitato in lei, il senso di anticipazione che le scorreva nelle vene, accelerando il battito del cuore.
E poi, i ricordi più dolci e sensuali, che aveva chiuso nel cuore, ma cancellato dalla mente. Per un istante indugiò in quelle memorie e permise che si riversassero su di lei, facendola arrossire di vergogna, mentre il cuore palpitava di un dolore sordo. Ancora.
Tra le braccia di Khaled, il sole del tardo pomeriggio che filtrava dalle finestre, le risate, la gioia... Le sue labbra sulla sua bocca, le mani che l’accarezzavano, che la toccavano come se fosse qualcosa di prezioso, mentre i corpi si muovevano e i cuori si fondevano. No, non aveva provato nessuna vergogna.
Si era abbandonata alle sue carezze, godendo della libertà di amare ed essere amata. Era stato così semplice, così ovvio, così giusto.
La vergogna si era fatta sentire più tardi, bruciandole l’anima e spezzandole il cuore, quando Khaled aveva lasciato l’Inghilterra - aveva lasciato lei - senza una spiegazione, senza un addio.
Lucy deglutì, cercando di scacciare i ricordi. Anche i più dolci e i più segreti le facevano male, come ferite mai cicatrizzate.
«Tutto bene?» Eric Chandler scivolò sul sedile accanto al suo, l’espressione preoccupata.
Lucy si sforzò di sorridere. «Tutto bene.»
Di tutti i giovani che erano stati testimoni della loro relazione, Eric era senza dubbio quello che la comprendeva meglio. Era stato il miglior amico di Khaled e, quando lui se n’era andato, era diventato