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Come petali di Veronica persica
Come petali di Veronica persica
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Come petali di Veronica persica

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About this ebook

Cosa faresti se il tuo grande amore facesse proprio il lavoro che ti terrorizza?

Questa è la storia d’amore tra l’artista Anton Lacroix e l’informatico Alessandro Spada, affetto dalla Sindrome di Stendhal, che lo porta a essere terrorizzato dalle opere d’arte.

Tutto inizia nel museo di un castello dove gli spettacolari occhi viola di Alessandro incontrano lo sguardo verde erba di Anton. Un cappotto da restituire e un dipinto speciale, che rivelerà il sogno di una vita.

Questo romanzo è una storia sull’essere diversi: le tendenze sessuali, le fobie e malattie, il DNA, l’invecchiare. E vuole dichiarare che, a volte, i mostri possono nascondersi proprio nella “normalità”.

***“Da piccolo, quando stavo nella nostra tenuta in Francia, a Lione, ricordo che passavo ore a osservarli dondolare al vento e mi esercitavo a toccarli senza fare cadere i petali. Anton lo fissa ora con decisione. E scandisce bene le sue prossime parole. – È una vita che mi alleno per te, Alessandro. Una vita che mi alleno a non fare cadere quei preziosi petali. Dammi solo la possibilità di starti vicino… e dimostrartelo.”***

- Questo libro è rivolto a tutti. Non ha contenuti per adulti. -
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJul 21, 2020
ISBN9788831685856
Come petali di Veronica persica

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    Come petali di Veronica persica - Barbara Signorini

    casuale.

    1.

    – Perché accidenti l’ho fatto?

    Non è che un sussurro. Un alito di voce supplice che gli esce strozzato dalla gola, mentre il suo corpo trema e vibra al martellare del cuore in tachicardia.

    Calmati, calmati, Alex! Ragiona! Macina febbrile la sua mente, che registra stordita lo scroscio della pioggia sulle vetrate. È solo pietra, non può farti del male!

    Si impone di sollevare lo sguardo. Marmo. Nient’altro che marmo. Liscio come seta. Bianco come nuvola. Morbido, nel delineare la muscolatura; imponente, nell’evidenziare la bellezza virile di un Ercole vittorioso sull’Idra. E anche… troppo vivido, troppo realistico.

    Si sforza di resistere, mentre sente di tremare senza controllo. Una goccia di sudore gli scivola sulla guancia. La maglietta bagnata gli si appiccica alla schiena. Marmo. È solo marmo, si dice. Ma quel marmo è alto tre metri, e incombe massiccio su di lui come se potesse prendere vita e schiacciarlo da un momento all’altro. Quel volto e quegli occhi sembrano guardarlo con voracità: vogliono inghiottirlo, annientarlo. Non è marmo, protesta stordito, è orrore liquido, che in un istante può divorarlo e trascinarlo via con sé. Si sta inclinando, si sta inclinando verso di lui proprio adesso.

    Le pareti della sala espositiva del museo gli si stringono addosso, diventano enormi, soffocanti. Le tele dei dipinti gli si appiccicano alla carne; il colore cola e si mescola al suo sudore, entra nel sangue, lo inquina, ammorbandolo di sostanze tossiche. La pietra sembra muoversi, farsi plastica: minacciose ali di marmo gli si avvolgono addosso, malefiche, sussurrando: muori, piccolo insetto inutile, muori.

    – Dio… – Alex chiude gli occhi, respirando a fatica. Si porta una mano al volto, sentendosi sbriciolare dentro. Vorrebbe scappare via. Sottrarsi a quell’ennesimo tentativo di affrontare la sua fobia, di combattere quel suo essere anormale, ma non riesce a muoversi. Il panico gli paralizza i muscoli e gli blocca il respiro. Sente la presenza della statua anche senza guardarla; percepisce i quadri incombere alle sue spalle, pronti a inghiottirlo. È circondato, senza scampo…

    – Mi scusi.

    Una voce lo fa sussultare. Socchiude le palpebre e sbircia di fianco, sapendo che se aprisse gli occhi del tutto si metterebbe a piagnucolare senza ritegno.

    – Sta male? Ha bisogno di aiuto?

    È una voce gentile quella che sente, bassa e piena, con un vago accento straniero. Appartiene a un uomo sulla trentina vestito elegante, che lo sta guardando con aria apprensiva e occhi di una dolcezza sorprendente. – Mi scusi, – insiste, – ma ha l’aria di stare molto male. Posso fare qualcosa?

    Alex sente di stare per svenire, il cuore gli batte così forte in petto da scuoterlo come se avesse un terremoto interno. – …ori di qui.

    L’uomo si sporge accigliato. – Cosa…? Cos’ha detto?

    – Per piacere… – esala lui vacillando, – mi porti… fuori di qui.

    L’altro esita un momento, ma non replica né chiede spiegazioni. – Certo, – dice, invece, – mi permetta di accompagnarla. – Allunga una mano, che resta a mezz’aria, in attesa.

    Alex apre un poco di più gli occhi e osserva quelle dita gentili, dalla manicure perfetta, tese verso di lui; vorrebbe afferrarle, vorrebbe lasciarsi aiutare e uscire da quell’incubo, allontanarsi, fuggire a gambe levate dal museo di quel castello medioevale dove, idiota!, ha voluto infilarsi di sua stessa iniziativa, ma non riesce a muovere nemmeno un muscolo. Il suo corpo non gli appartiene più, è fagocitato dal panico. Rimane così, impotente, a osservare quell’offerta d’aiuto senza riuscire a fare altro che ansimare e sbavare come un cane, disperando che da un momento all’altro quello sconosciuto si stanchi, prendendolo per pazzo, e se ne vada.

    Quegli occhi dolci però lo sorprendono. Invece di farsi diffidenti, si ammorbidiscono in una sbarazzina pennellata di luce, che sottrae al suo viso dieci anni d’età. Sposta lo sguardo alla statua, quindi torna su di lui. – Non mi dica che… – sbatte gli occhi, turbato, poi annuisce: – L’aiuterò, mi creda, ma dovrò prendermi una leggera confidenza. Mi permette di toccarla?

    Alex mugola un disperato a fior di labbra. A quel segnale, l’uomo si sfila il cappotto di dosso e con un gesto rapido glielo drappeggia a mo’ di cappuccio su testa e spalle. Dopo un secondo, Alex, avvolto in un’oscurità calda e morbida, sente il suo braccio circondargli i fianchi e stringerli in una morsa decisa. – Mi perdoni, – dice ancora, – cerchi di resistere. Adesso la porto fuori.

    Non appena l’uomo comincia a trascinarlo via, Alex sente le gambe cedergli, ma non riesce a cadere perché quella presa è puro acciaio: viene sostenuto senza problemi, mentre procedono a passo spedito, sala dopo sala, verso l’uscita. La stoffa del cappotto, che gli sfiora il viso, ha un profumo particolare, sembra emanare un miscuglio olfattivo di agrumi e spezie. Alex comincia a sentirsi meglio, e poco dopo riesce a sostenersi da solo sulle gambe.

    – Non riapra ancora gli occhi, non ancora, – lo allerta l’uomo, notando il suo tentativo di scostare il cappotto dal viso. Alex ubbidisce docile e si lascia condurre all’aperto.

    – Ecco, – fa quella voce gentile. Il cappotto viene tolto e Alex può finalmente guardare in faccia il suo salvatore. Lentiggini appena spruzzate sulla linea forte del naso, lineamenti marcati ma eleganti, ciglia bionde e lunghe a tratteggiare occhi verdi come prati, parzialmente ombreggiati da ciocche di caldo fieno bruciato dal sole. Arrossisce rendendosi conto dell’accaduto. – Mi scusi, mi scusi veramente.

    – Va meglio, adesso? – chiede lui.

    Alex annuisce, non sapendo che dire. Si ritrovano sotto la tettoia dell’ingresso del castello, la pioggia è scemata in uno sgocciolio stanco e sfiduciato, lasciando le strade punteggiate da specchi di pozzanghere.

    L’uomo inclina la testa squadrandolo con interesse. – La vedo ancora molto pallido, sono preoccupato. Secondo me, avrebbe bisogno di sedersi. Le dispiace se le offro un caffè? C’è un bar qui vicino.

    – L’ho già disturbata abbastanza… – esita Alex mentre si passa una mano dietro la nuca, dove avverte i capelli bagnati. Il vento serale si alza e lui ha un brivido involontario, che cerca subito di nascondere sollevando le spalle e ficcandosi le mani in tasca. – Sto meglio, adesso. Grazie.

    – Dov’è la sua giacca? L’ha lasciata dentro al museo? – fa l’uomo nel notare la sua maglietta inzuppata di sudore.

    Alex scuote la testa per schiarirsela e ondeggia un poco, colto da un capogiro. – Sì, forse… beh… non ricordo…

    Il cappotto dello sconosciuto torna a drappeggiargli le spalle. – Lo indossi! Fa troppo freddo qua fuori. Aspetti un attimo, vado a chiedere ai custodi di tenergliela da parte in portineria, potrà recuperarla domani.

    – Ma…

    L’uomo si allontana, e dopo una manciata di minuti ritorna da lui sorridendo. – Andiamo al caldo, adesso, – fa conducendolo senza tante grazie verso l’entrata del bar. – A proposito, con chi ho il piacere…?

    – Mi scusi… mi chiamo Alessandro Spada.

    – Io sono Anton, Anton Lacroix. Ma mi chiami pure Antonio, – dice indicandogli un tavolino appartato, – sono per metà italiano.

    Alex sgrana gli occhi. – Lacroix…? Il famoso scultore…?

    Anton emette un debole, imbarazzato, sorriso. E, quasi a volersi scusare, conferma: – Proprio lui.

    2.

    Alex sorseggia lentamente la tisana, mentre comincia a riprendere le forze. Sente il liquido caldo scivolargli in gola e scaldargli il corpo; il cuore si è placato lasciandogli solo una traccia di pesantezza al torace e i tremori si sono spenti nella calda e soffice stoffa di quel benedetto cappotto, che, se ne accorge solo ora, deve costare quanto un miniappartamento.

    – Da quanto ne soffri?

    Alex si riscuote. – Cosa?

    – La sindrome di Stendhal, da quanto ne soffri?

    A disagio, Alex evita il suo sguardo. Anton Lacroix è una celebrità nel mondo dell’arte contemporanea, un vero e proprio vip, con tanto di autista privato e periodico servizio televisivo, dedicato, sul telegiornale nazionale. Dirige una rivista d’arte, ha una linea di moda con base a Parigi, uno stock di pubblicazioni diventate bestseller, e possiede una catena di gallerie espositive disseminate per le maggiori capitali del mondo, senza contare i palazzi e le ville che ha sparpagliati tra Italia e Francia. E lui ora gli sta insudiciando di sudore quel magnifico cappotto che emana un profumo capace di farlo sentire in paradiso.

    – Alessandro…?

    Alex sbatte gli occhi, rendendosi conto di avere la reattività di un bradipo narcotizzato. Con un angolo della mente pensa a quanto suoni piacevole, ed elegante, il suo nome pronunciato da quella voce, che pochi minuti prima gli ha pure chiesto di dargli del tu. Si passa una mano sugli occhi e in tono stanco dice: – Stendhal…? Sì, mi dispiace… Io non pensavo di ricaderci, davvero.

    Anton incrocia le mani sul tavolino. – Dunque ho intuito bene.

    – Già, – fa lui con un sorriso imbarazzato, – le opere d’arte, in particolare i dipinti e le sculture, mi terrorizzano. Anche solo guardare la foto di una statua su una rivista mi fa stare male… Scusa, ma che ci fa uno come te in una piccola città come Rabra?¹ A parte quel vecchio castello puzzolente e quattro dipinti nel palazzo comunale, non c’è alcuna attrattiva artistica. Qui il massimo della vita è passare la giornata al centro commerciale.

    – Stavo facendo un favore a un mio vecchio amico – spiega lui in tono annoiato – Suo figlio è il curatore della mostra d’arte che è stata allestita, voleva un mio parere informale per capire se abbia davvero talento. Comunque, non ha importanza. Mi spieghi, invece, perché sei entrato in quel museo? – chiede adesso con vivo interesse.

    Perché sono un idiota, pensa lui. Poi con un sospiro, risponde: – È una cosa che limita la mia vita. Non lo sopporto. Così, ci riprovo ogni tanto. Questa volta mi ero preparato: meditazione, pensiero positivo, sai, cavolate del genere. Ero sicuro di farcela. Mi sono preso apposta un giorno libero dal lavoro. Pensavo davvero di riuscirci…

    – Che lavoro fai, se non sono indiscreto?

    Alex abbassa lo sguardo. – C…computer, – balbetta, – sono un programmatore informatico. Risolvo problemi alle aziende che mi ingaggiano. Lavoro in proprio, da casa.

    – Abiti vicino? Ti serve un passaggio?

    – No, grazie. Vivo nei paraggi, ci torno a piedi.

    Per un attimo l’uomo resta in silenzio, sorseggiando il suo caffè lungo. – Quello che hai fatto, – commenta, – è stato estremamente coraggioso, ma anche incosciente. Da quanto ho potuto vedere, soffri di una forma molto grave di questa sindrome. Sto ancora considerando l’idea di portarti in pronto soccorso. Hai un colorito che non mi piace per niente.

    Alex avvampa come una ciliegia. Para una mano davanti a sé, strappandosi un sorriso in volto. – Dio, no! No, ti prego! È del tutto normale per me: questo bianco-cadavere che vedi e le occhiaie… è il mio viso di sempre! Resto al computer anche venti ore di seguito, hai presente? Sono un vero nerd, mi segui? Sai quegli sfigati, con gli occhiali da talpa, che non hanno una vita e nemmeno contatti sociali, con la gastrite a palla perché mangiano solo merendine scadute. Solo che non porto gli occhiali, – aggiunge pensoso, – non ancora comunque… Non… non capisco perché… – e si morde la lingua.

    Anton si sporge in avanti. – Non capisci cosa?

    L’altro incespica. – Non sono abituato a essere… – Sorride. Un sorriso triste, appannato. Sospira e si alza dal tavolo. – Sei stato davvero gentile. Ti ringrazio, Antonio. Se mi dici come fare, ti rispedisco il cappotto lavato appena possibile.

    Anton si solleva in piedi con lui, accigliato. – Non c’è problema, ti ho aiutato volentieri. Questo è il mio biglietto da visita, al momento alloggio in albergo, ripartirò per Firenze tra pochi giorni. Ma… Alessandro…

    – Sì?

    – Cosa stavi per dire un secondo fa? Parlavi di non essere abituato a qualcosa…

    Alex inclina la testa. Di nuovo quel sorriso triste. Gli porge la mano e nel salutarlo risponde in tono gioviale: – Alle persone buone come te!

    Esce dal bar. Anton segue il suo incedere rapido dalle vetrate del locale, mentre il freddo serale di quel tardo settembre va calando sulla sua figura longilinea. Una figura sublime che vorrebbe potere ritrarre, scolpire. Ma sa già che non riuscirebbe a rendere giustizia, né a riprodurre, il viola di quegli occhi, la china di quei capelli e la bellezza dell’anima che vi ha intravvisto dentro.

    _____________________

    ¹ Nome fittizio.

    3.

    Alex si risveglia con un sussulto, dopo avere avuto un incubo in cui si ritrovava rinchiuso dentro Palazzo Vecchio, a Firenze, nel Salone dei Cinquecento, circondato da dipinti immensi e statue ciclopiche.

    Con il cuore in tumulto avverte qualcosa di umido sul mento, poi si accorge di stare sbavando sulla tastiera, su cui si è addormentato cinque ore prima. Le dà un’asciugata rapida e l’accarezza con affetto: – Tanto sei abituata a me, ormai, compagna di battaglie, – mormora con un sorriso.

    Si sgranchisce la schiena e lancia un’occhiata ai nuovi messaggi sul terzo schermo acceso della sua scrivania: dieci notifiche di offerte di lavoro, una ventina di chat dagli amici e una quarantina di mail da controllare dalla sera prima.

    Arraffa una brioche mezzo ammuffita e la inghiotte con un sorso di caffè. Risponde, smista e archivia il tutto in meno di mezz’ora, quindi ciabatta verso il bagno per rinfrescarsi.

    Mentre lava i denti si guarda allo specchio e mugugna: – Ma che cavolo di ore sono?

    Non è la prima volta che gli capita di perdere del tutto il senso del tempo e non sapere se sia notte o giorno. Terminato di sciacquarsi la bocca, spalanca la finestrella del bagno e sbircia di

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