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Il tocco del pianista
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Il tocco del pianista

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All’alba del terzo millennio, alla storica e variegata criminalità dell’Europa occidentale, si aggiunge un’ondata di nuovi barbari che, grazie alla caduta della Cortina di ferro e non solo, si fondono e talvolta rimpiazzano la delinquenza autoctona. Molti di questi sono disperati allo sbaraglio, ma vi sono anche bande d’élite ben organizzate, dove il confine tra malavita ed “esodati” delle estinte agenzie di spionaggio è molto labile. Una delle star di questa nuova generazione è il Pianista, che ricalcando il mito, in chiave attualizzata, dell’imprendibile Fantomas, punta al colpo del secolo. L’ispettore Lagrange gli dà la caccia deve districarsi tra intricati depistaggi, ma è pronto a cogliere l’errore che gli permetta di catturarlo.
Il romanzo trae spunto da fatti di cronaca realmente accaduti e si riallaccia idealmente con i gruppi criminali che sono recentemente venuti alla ribalta, come la “banda delle Pantere rosa” o quella ancora anonima del miliardario furto di gioielli nel castello di Dresda a fine novembre 2019.
LanguageItaliano
Release dateJul 17, 2020
ISBN9788866603603
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    Il tocco del pianista - Paolo Piccoli

    casuale.

    Preludio

    Ammirava compiaciuto l’imprendibile paesaggio intorno a sé, pervaso da un senso di predominio e onnipotenza. Il sole autunnale allo zenit inondava di un abbacinante giallo freddo e l’aria era tersa e frizzante. In lontananza si scorgeva il mare e intorno a esso una città vi si specchiava in un lungo e infinito abbraccio. Indugiò un attimo pensoso, concentrandosi per cercare riferimenti che gli consentissero di identificarla. Gli era familiare, anzi, era certo di conoscerla, ma da quella distanza e soprattutto da quell’altezza, la prospettiva cambiava e non riuscì a darle un nome. Come sempre e in ogni ambito è una questione di punti di vista, tutto dipende da dove ti trovi. Ruotò lo sguardo verso nord, in lontananza una maestosa catena montuosa si estendeva sinuosa, perdendosi a vista d’occhio. Dalla sua altitudine, sovrastava persino le cime più alte, aguzze e spruzzate di bianco. Annotò il dato con un misto di autocompiacimento e di sussiego, finché un lontano rintocco di campana lo distolse dalla contemplazione. Era la campana maggiore, la riconosceva dal timbro possente e grave e, cadenzati, seguirono altri due rintocchi. Per le sue reminiscenze avevano un lugubre significato: il funerale di un uomo. Restrinse allora la ricerca attorno a lui, cercando di individuarne l’origine nei gruppetti di case sparsi qua e là, nella campagna sottostante, partendo dal margine con la città. Solo quando arrivò a guardare davanti alla punta dei suoi piedi, finalmente individuò il campanile, accostato a una chiesetta circondata da una corona di cipressi. Era poco più di un puntino laggiù, appena delineato. Fu proprio allora che scoprì con orrore di essere sospeso nell’aria e cominciò a precipitare nel vuoto. In preda al panico, con frenesia tentò scompostamente di aggrapparsi al nulla. Impotente di fronte a quella lunga e inesorabile caduta, vedeva la chiesa avvicinarsi sempre più. Con le lacrime agli occhi per il gelo e la folle velocità, appena distinse sul sagrato due persone vestite di nero e il carro funebre. Man mano che scendeva, metteva a fuoco quelle figure scoprendo che si trattava di due donne che, col naso all’insù, lo guardavano cadere. Le riconobbe, erano le protagoniste dell’ultimo periodo della sua vita. Si meravigliò che ambedue fossero lì in quel momento e ancor più che fossero vestite a lutto. Una di esse sorrideva perfidamente, mentre l’altra piangeva tamponandosi le lacrime con un foulard rosa. Non nutriva sentimenti, né di amore né di odio, verso nessuna delle due, anzi, le aveva bellamente manipolate senza riserve per i suoi scopi e non se ne pentiva affatto. D’altronde, se si fosse permesso di amarle, non avrebbe potuto usarle e nella vita, tutto sommato, è sempre una questione di scelte. Un fugace pensiero gli balenò per la mente, troppo rapido per afferrarlo, quando il suo sguardo incrociò quella che piangeva. Era colei che era riuscita a provare nei suoi confronti qualcosa di prossimo all’amore. A suo tempo, aveva provato un vago e quasi sconosciuto senso di colpa per non aver potuto ricambiarla, ma quella era la vita. La sua vita. Non ebbe nemmeno il tempo per dolersene che vide aprirsi la portiera del carro funebre e, con movimenti impacciati, ne scese barcollante un uomo di mezz’età, infagottato in un soprabito chiaro. Si appoggiò una mano sul fianco, una davanti alla fronte e si inarcò pure lui col naso all’insù per guardarlo, come a godersi la sua caduta libera. Ne riconobbe i lineamenti appena questi fece un sogghigno soddisfatto: era il suo peggior nemico.

    1

    La bizzarra alchimia della mente umana supera ogni immaginazione, ma benché lo sapesse, non si soffermò un solo istante a chiedersi perché gli fosse balenato il ritornello di una canzone: «…sorridete, gli spari sopra, sono per noi!¹». D’istinto invece, catalogò quei due botti che avevano sovrastato le grida, come gli stessi della Glock 17 di pochi attimi prima, ma da un’altra angolazione. Se non erano della stessa, erano di sua sorella gemella: una pratica, maneggevole e precisa calibro nove per ventuno, capace di una nutrita riserva di confetti nel caricatore. Considerò che colui o coloro che la impugnavano non si sarebbero mai fermati per prendere la mira e piazzargliene uno in mezzo alla schiena tra i pochi passanti che si trovavano sul marciapiede, benché fosse a soli trenta metri di distanza. Senz’altro avrebbero volutamente mirato al cielo, non giovava a nessuno un innocente coinvolto, men che meno a loro. Un terzo botto, in contemporanea allo schizzare in frantumi dello specchietto retrovisore di un’auto parcheggiata sulla via a un metro da lui, gli fece repentinamente cambiare opinione. L’adrenalina che già gli scorreva copiosa nelle vene, accelerò come per impulso del turbo, scacciando quel velo che gli stava scendendo sugli occhi. Calcolò il traffico all’incrocio a cui si stava approssimando e attraversò la strada a sei corsie in diagonale. Era appena scattato il semaforo e le auto già avevano impegnato le loro corsie quando se lo trovarono davanti. Un coro di clacson si levò rabbioso e disordinato tra inchiodate e insulti, ma aveva guadagnato incolume il marciapiede opposto. Proseguì incurante di uno stridio più prolungato alle sue spalle, seguito da un tonfo sordo e un lamento soffocato: uno in meno, si disse archiviando il dato. Altre urla dal fiato corto, giungevano alle sue spalle evidenziando che non era ancora finita. Si infilò a perdifiato nella prima traversa e già svoltando l’angolo intravvide in fondo alla via, la staccionata di cemento che separava la strada dai binari. La raggiunse e la superò con un balzo, guardandosi intorno in cerca di un’insperata opportunità. Alcune decine di metri più in là, un convoglio stava uscendo dalla stazione e si era fermato, in attesa che un altro, proveniente dalla direzione opposta, completasse la sua manovra. La vista era sempre più annebbiata, l’adrenalina era sopraffatta dalla stanchezza o chissà da cosa altro. Strinse i denti disperato, si aggrappò alla maniglia dell’ultima carrozza e con sorpresa lo sportello si aprì. Si issò nel vagone dando fondo alle sue ultime energie. Con un gesto attribuibile all’istinto condizionato, richiuse senza neppure rendersene conto, cancellando la traccia del suo passaggio. Aprì la porta dei servizi igienici che si trovava davanti a lui, vi si richiuse dentro e crollò sul pavimento tra un mix di urina e cloro che gli perforava le narici.

    2

    Il freddo pungente che gli entrava nelle ossa lo fece riemergere dallo stato di torpore. Pervaso dai brividi, istintivamente allungò la mano in cerca di qualcosa con cui coprirsi. Non appena si mosse però, una dolorosa fitta al braccio lo svegliò del tutto. Tra il malessere e lo sconcerto spalancò gli occhi, ma venne accolto da un buio pesto. Si tastò con la mano libera il punto dove aveva sentito la fitta: c’era un ago infilato nella vena. Seguì a tentoni il tubicino a cui era collegato fino a capire che era attaccato a una flebo. Cercando di mantenere la calma e facendo attenzione, si toccò il corpo e anche gli ultimi residui di intorpidimento svanirono con la sorpresa di scoprirsi nudo, steso su un letto non troppo comodo. Con cautela cercò di alzarsi e il contatto dei piedi col pavimento, anch’esso gelido, gli fece istintivamente cercare le ciabatte che di solito lasciava lì vicino. Non trovandole ebbe la conferma, semmai ve ne fosse ancora bisogno, che quello non era il suo letto e quella non poteva essere casa sua. Il pensiero di staccare dal braccio quel doloroso ingombro, si infranse all’idea di inzaccherarsi di sangue e decise di farlo con maggior sicurezza, magari con un minimo di luce. Facendo attenzione a non procurarsi ulteriori strappi, si mise in piedi barcollando e si avvolse alla bell’e meglio nel lenzuolo per ripararsi dal freddo. Appoggiandosi all’asta della flebo, fortunatamente munita di ruote, si diresse a passi incerti verso quella sottile linea luminosa sul pavimento che, a pochi metri da lui, tradiva la presenza di una porta. Individuò la maniglia e l’aprì. L’impatto con la luce improvvisa gli violentò le pupille e solo dopo qualche istante gli occhi si ripresero dallo shock. Era in un corridoio ampio e spoglio, tinteggiato di bianco e freddamente illuminato da neon incassati nel soffitto. Vi si affacciavano una serie di porte metalliche identiche alla sua e, in fondo, finiva con una doppia porta a vetri opachi. Con passi lenti e incerti la raggiunse e dopo averla aperta, con sorpresa si rese conto che dava in un ampio salone con tavoli disposti con regolarità. Rimase stupito nel vedere che era piuttosto affollato, mentre aroma di caffè e profumo di pane caldo si sostituivano all’odore di disinfettante. Qualcuno dei presenti si girò verso di lui che, sbigottito, cercava di capire dove fosse. Gli sguardi assenti o stralunati, accompagnati per alcuni da un monotono dondolio del corpo, per altri da monologhi con interlocutori inesistenti, gli chiarirono rapidamente che si trovava in un ospedale. Per la precisione, in un ospedale psichiatrico.

    Nemmeno ebbe il tempo di riaversi dallo stupore, che vide tre figure in camice bianco emergere da quella folla e dirigersi verso di lui. Il più piccolo dei tre, che guidava il comitato d’accoglienza, era un giovane sui trenta o poco più, magro impiccato e con i capelli nerissimi e ben pettinati. Lo accolse con un ampio sorriso e, anziché dargli la mano, si toccò la spessa montatura degli occhiali e con tono mellifluo esordì: «Bonjour monsieur, avez-vous bien reposé?».

    Solo allora realizzò che quello che gli era parso un indistinto vociare nella sala, risultava tale solo perché era in una lingua diversa dalla sua. Lì parlavano tutti in francese. Le domande si riversavano a onde impazzite nella sua mente ancora confusa, probabilmente grazie a qualche sedativo. Come era arrivato in Francia? Perché era in un ospedale psichiatrico? In che città si trovava?

    «Dove sono?» chiese, meravigliandosi di rispondere con naturalezza nella stessa lingua del suo interlocutore, pur capendo che non era la sua.

    «Clinique de Saint-Seine-l’Abbaye» disse il giovane medico. «Io sono il dottor Duprè e voi come vi chiamate?»

    A quel punto lo sconosciuto provò a rispondere, ma non riuscì a trovare una risposta che gli venisse fuori spontanea.

    «A dire il vero non so… non capisco perché non mi venga in mente» balbettò «così come pure non credo nemmeno di essere di queste parti…»

    «Direi proprio di no» disse il giovane medico con un sorriso, quindi aggiunse saccente. «Benché la vostra inflessione denoti in modo inequivocabile che avete imparato il francese nel sud del Paese, è altrettanto evidente che non è la vostra lingua madre. Riterrei che dall’accento siate italiano o forse chissà… rumeno» aggiunse accompagnando l’ultima frase con un gesto della mano.

    «Ma a me viene naturale parlare così» replicò lo smemorato più a sé stesso che a beneficio del suo interlocutore.

    «Certo, si tratta di un riflesso condizionato. Se mi fossi espresso nella sua lingua avrebbe fatto altrettanto. Ciò significa che lei, qui in Francia ci vive o almeno ci viene spesso. Comunque ora le faccio togliere la flebo così potrà fare una vera colazione. Abbiamo dovuto introdurre l’alimentazione forzata visto che dopo due giorni non si decideva a riprendere conoscenza.»

    «Due giorni? Sono qui da due giorni?» ribatté sbigottito il forestiero, la testa sul punto di esplodere.

    «Per la precisione tre con oggi, monsieur. Ma ora che si è svegliato le spiegherò tutto il poco che sappiamo… e cercheremo di capire cosa sa lei di sé stesso.»

    A quel punto lo riaccompagnarono nella sua stanza, e mentre un infermiere gli toglieva la flebo, il dottore gli puntò a sorpresa una lampadina diagnostica in un occhio, commentando: «Ha ancora le pupille leggermente dilatate».

    «Sarà per quello che mi dà così fastidio la luce…» commentò l’uomo con una punta di risentimento, in preda ai dolori provocati da quel sottile fascio di luce che gli era parso una daga piantata nel cranio.

    «Senz’altro, ma vedrà che durerà ancora poco, poi dovrebbe scomparire come gli altri sintomi.»

    «Sintomi di cosa?»

    «Di quello che ha assunto; è chiaro che lei aveva in corpo qualche droga.»

    Poi indicando l’armadietto metallico continuò: «Là dentro ci sono i vestiti con cui è arrivato, li abbiamo fatti lavare. Come ha potuto constatare, nella nostra clinica i pazienti vanno in giro vestiti normalmente. Si faccia una bella doccia, si vesta e venga a fare colazione. Dopo che si sarà rifocillato la vedrò con calma nel mio studio, un infermiere l’accompagnerà».

    Quando fu solo, lo sconosciuto si precipitò in bagno: era curioso di vedere la sua faccia. Rimase per alcuni lunghi minuti a esaminare l’immagine che lo specchio gli restituiva. I capelli neri e piuttosto arruffati contornavano l’ovale del viso che lo scrutava. Il naso dritto ma non invadente, gli occhi grigi e lo sguardo appuntito, gli conferivano un che di silvestre. Nel complesso si poteva considerare belloccio, ma l’aria impertinente, la mascella pronunciata suggeriva l’idea di un carattere volitivo e tenace. La sua carnagione e i suoi tratti somatici erano quelli di un bianco caucasico di un’età compresa tra i trentacinque ai quaranta anni. Sì, gli era familiare quella faccia da lupo, nonostante l’aspetto trascurato dovuto alla barba di alcuni giorni, ma non riusciva ad abbinargli un nome né gli risvegliava dei ricordi. Probabilmente sì, era italiano, ma poteva anche essere slavo, svizzero o di qualsiasi altra parte dell’Europa. Il nome Vincent gli sfrecciò nella mente come una sensazione, troppo veloce per afferrarne il significato.

    Rimase a lungo sotto la doccia bollente, perso nel chiedersi se quel nome, spuntato da chissà dove, potesse essere il suo. Ascoltava l’acqua cadergli sul capo e poco alla volta si rese conto del vuoto che c’era nella sua mente. Seguendo la ritualità dei gesti naturali di lavarsi, lentamente riuscì a riportare un minimo di calma al ciclone dei suoi pensieri. Quando uscì dalla doccia, era ormai convinto che Vincent doveva essere il suo nome. Si rase con un rasoio usa e getta che aveva trovato in bagno. Ma anche dopo essersi sbarbato e pettinato, il volto non gli ricordava nulla a parte la vaga familiarità di poc’anzi. Aprì allora l’armadietto dove c’erano i suoi vestiti. La speranza che vi fosse qualche particolare che lo aiutasse ad accendere un lume nel buio della sua memoria rimase frustrata. Anche dopo avere esaminato i capi che dovevano per forza appartenergli, non riuscì a retrodatare la sua vita a più di mezz’ora prima. Una camicia a quadri, un paio di Levi’s, un giubbotto di pecari, il tutto in stile casual di buona finitura, marche internazionali che si sarebbero potuti trovare in qualsiasi grande magazzino di qualsiasi parte del mondo. La cintura così come le scarpe, erano di cuoio morbido e di buona qualità, con l’unica vergognosa caratteristica di avere la punta vistosamente rovinata. Osservandole si capiva che dovevano averlo trascinato a faccia in giù, quindi presumibilmente privo di sensi, con ogni probabilità non da soccorritori di professione. Nessun taccuino, niente documenti nelle tasche, nemmeno scontrini né, va da sé, alcun telefonino. Era uno sconosciuto talmente anonimo, da esserlo persino a sé stesso. Però, quando vestendosi prese in mano la cintura gli si accese una lampadina e la studiò per bene, palpandola con frenesia. Aiutandosi con il bordo del manico del rasoio, allentò la tozza vite che teneva ferma la fibbia che una volta levata lasciò intravvedere una cavità dalla quale spuntavano alcune banconote ripiegate e appiattite. Le estrasse e compiaciuto di sé stesso mormorò: «Beh, almeno ora so di essere un tipo previdente» sorprendendosi subito dopo dalla lingua utilizzata per formulare quel pensiero. Era italiano! Lui era italiano! Pur non avendo idea di che cosa gli desse tale consapevolezza, ne era sicurissimo ed era disgraziatamente l’unica attuale certezza. Ma allora, se era stato trasportato svenuto, perché lo avevano portato in un ospedale psichiatrico? Era forse l’unico ospedale della zona? Era stato vittima di una rapina? Forse era un ubriaco che si era perso nei fumi dell’alcol? O aveva avuto un incidente? E comunque, lui, perché diavolo era in Francia? Quegli interrogativi diventavano via via sempre più pressanti e dare una risposta era una necessità sempre più impellente. Stimolato da quanto appreso e meno impacciato nei movimenti, si diresse al refettorio: doveva per prima cosa riprendere le forze e tutto cominciava dallo stomaco. Per quanto fosse smemorato, questo era un concetto in lui ben radicato e si chiese se facesse parte del suo DNA o se fosse parte della sua formazione. Gli venne in mente la parola addestramento e se la rigirò tra le meningi, forse era un vocabolo che aveva a che fare col suo passato?

    Arrivò nel salone con lunghe falcate e dopo aver preso un bricco di caffè e un paio di croissant che erano sopravvissuti nel buffet, si sedette a un tavolo per riempire tra i tanti buchi, almeno quello dello stomaco. Il caffè era una brodaglia immonda, schifoso come solo in Francia riuscivano a farlo, in compenso i croissant erano deliziosi… come pure solo in Francia riuscivano a sfornarli. Pensava a ciò che stava trangugiando riconoscendone i sapori, formulando pensieri sempre più lunghi e complessi. Analizzò con più calma la disposizione del locale e le persone che lo affollavano. Quasi tutti avevano finito la loro colazione, ma indugiavano seduti ai tavoli parlottando tra di loro o con sé stessi. A parte qualche caso, non sembravano soffrire di deficit particolarmente gravi.

    Il salone aveva un arredamento scarno, chiaramente vissuto, i tavoli e le sedie di formica erano una nota stonata che non riusciva a decifrare, ma fu solo dopo aver allungato lo sguardo alle pareti, che in fondo alla sala individuò un orologio datario luminoso, su cui risaltavano numeri e lettere rossi sullo sfondo nero. Quando lesse l’ora, le nove e quaranta, dubitò della sua esattezza, il pensiero che un ospedale servisse la colazione a quell’orario era incongruente anche per uno smemorato come lui e quando lesse nel riquadro sottostante la data, 5 aprile 2003, si chiese se anche quella fosse errata. Tutte le finestre erano molto ampie e disposte su due pareti permettendo una buona luminosità, ma anche una vasta panoramica sugli esterni. I tenui raggi di sole che entravano obliqui, associati all’orario appena letto, gli permisero di realizzare di trovarsi a sud-est rispetto al resto dell’edificio. Si stupì per questo ragionamento, la cui elaborazione andava oltre al primitivo istinto di ogni essere umano. Il nome di Vincent tornò a rotolare tra le sue meningi: benché non fosse italiano, doveva essere il suo. Distese il suo sguardo oltre la finestra più vicina, un grande parco si estendeva tutto intorno. Maestosi cedri del Libano, alternati a magnolie e abeti, erano piantati in bell’ordine a buona distanza l’uno dall’altro, in modo da ombreggiare qua e là lasciando libera la vista di spaziare. Un grande gazebo e numerose panchine bianche risaltavano seminate sul manto erboso ben curato, facendo pensare che con la bella stagione dovesse essere un posto molto rilassante. Gli venne spontaneo il pensiero che con quel colore si sarebbe visto a colpo d’occhio se fossero state occupate da qualcuno vestito in tuta mimetica. Sul fondo, in lontananza, un’alta siepe di ligustro delimitava la proprietà.

    3

    Non appena ebbe finito di trangugiare i croissant, si avvicinò alla finestra. Da quella posizione si riusciva a intravedere una parte del viale d’accesso che finiva con un grande cancello di ferro battuto. Da lì si entrava… e si usciva! In quel momento, un riflesso al di là della cancellata tradì l’arrivo di un’auto. Vide scenderne la figura di un uomo, avvicinarsi ai pilastri, suonare un campanello e, dopo essersi annunciato, risalire in auto e attendere che il cancello elettrico si aprisse. Quando la vettura fece il suo ingresso, nonostante la distanza e la siepe di bordura del vialetto, riuscì a notare che nell’auto vi erano altre persone oltre all’autista. Subito dopo, l’angolo dell’edificio occultò il loro arrivo nel piazzale dell’entrata. Incuriosito, si spostò per cercare una posizione migliore per osservare senza farsi notare. Dalla parte opposta del salone, vide una porta aperta immettere su un ampio corridoio che conduceva, presumibilmente, nella parte restante dell’edificio. Sperando di vedere chi fosse arrivato, si appostò dietro un gruppetto di pazienti che, in un angolo del refettorio, era riunito intorno a un infermiere che stava distribuendo dei farmaci. Ebbe fortuna e non dovette nemmeno attendere molto, dopo un paio di minuti vide passare un inserviente con tre tizi al seguito. Avevano un aspetto marziale, rafforzato dall’abbigliamento formale che spuntava dagli impermeabili sbottonati. Era evidente che i nuovi arrivati avessero poco a che vedere con quell’ambiente ma al contempo qualcosa del loro incedere gli risultò familiare. I due più giovani erano sulla trentina, andatura atletica e un taglio di capelli definibile solo come «militare». Il terzo, basso e di mezz’età, portava un Borsalino che mal celava un’impietosa calvizie sottostante e un paio di baffoni folti e autoritari che si inchinavano a un naso eccezionalmente adunco. Quegli occhiali dalla montatura pesante però non gli erano nuovi e gli risvegliarono percezioni di déjà vù. Per quanto lì per lì non riuscisse a ricordare dove né quando, la visione di quel trio gli provocò uno sgradevole crampo allo stomaco, che nulla aveva a spartire con i croissant che litigavano col caffè. Si avvicinò al limitare del salone seguendoli con lo sguardo fino a vederli infilarsi in un corridoio, dove una serie di cartelli indicava la presenza di uffici e ambulatori. Scomparvero entrando nella prima porta, dove una vistosa targhetta di ottone indicava: Dr. Duprè. In preda all’agitazione tornò rapidamente in mezzo al refettorio e lì rimase guardandosi intorno spaesato e inquieto, fino a quando uno degli infermieri fece la sua comparsa. Dopo aver scandagliato con lo sguardo il salone, lo individuò mentre, tentando di dominarsi, vagava a vuoto tra i tavoli. Si diresse verso di lui.

    «Bene, vedo che ha finito di far colazione. Venga che l’accompagno dal dottor Duprè.»

    Vincent sentì una sensazione inspiegabile, un moto di rifiuto forte, fortissimo, tanto quanto l’impulso violento di fuggire.

    «Sì, certo» disse cercando di non lasciar trasparire la sua ansia. «Prima però, mi permetta di andare alla toilette, la stavo giusto cercando ma non riuscivo a trovarla. Il vostro caffè mi sta rimestando lo stomaco e ho una necessità impellente.»

    L’infermiere allora, con un bonario sorriso di chi è convinto di aver capito tutto, gli indicò una porta dalla parte opposta all’atrio. Attraversato il salone, Vincent si infilò nella toilette con la speranza di trovare finestre.

    Intanto nell’ufficio del dottor Duprè, il signore più attempato si era presentato come ispettore Lagrange della DGSE, il servizio di intelligence francese alle dipendenze del Ministero della Difesa. Seduto davanti alla scrivania del dottor Duprè, stava ascoltando con interesse la sua relazione, cercando di capire cos’avesse detto lo sconosciuto nel poco tempo dal suo risveglio. Nel suo intimo era soddisfatto per la perdita di memoria del suo «pollo». Ciò aveva senz’altro impedito che riprendesse a fuggire non appena sveglio, ma non gli avrebbe permesso di sottrarsi alle sue responsabilità. Naturalmente sperava che la memoria gli tornasse alla svelta. Aveva troppe cosette da chiedergli e avrebbe avuto già abbastanza difficoltà a ricevere una risposta, anche senza che un’amnesia si mettesse di mezzo. La prima cosa che gli sarebbe piaciuto sapere era qualche dettaglio sul rocambolesco furto dei gioielli del produttore cinematografico Jack Fitzgerald, avvenuto sul suo panfilo a Monte Carlo. Era sicuro che ci fosse dietro la sua mano. Un colpo da maestro, pianificato nei dettagli, che, abbinato alle soffiate dei soliti cialtroni che si guadagnano il pane vendendo notizie alla polizia, aveva lasciato purtroppo pochi dubbi e nessuna prova.

    Solo alcuni giorni prima, il caro paziente gli era sgusciato tra le mani passandogli sotto il naso a pochi metri di distanza, dopo mesi di ricerche, appostamenti, intercettazioni e pedinamenti. Il suo settore operava separatamente dalla Gendarmeria che, anzi, preferiva nemmeno incrociare per evitare penose spiegazioni sulle competenze del caso, ma anche per la segretezza delle sue indagini. Era certo che il suo uomo avesse più di qualche informatore anche lì. Ciò aveva reso più difficile presidiare una città come Parigi per poterlo localizzare, ma era il prezzo da pagare per poter contare sulla massima discrezione.

    4

    Segnalato dalle polizie di mezza Europa come l’autore di alcuni tra i più clamorosi furti e rapine degli ultimi anni, il Pianista era un fantomatico personaggio avvolto nel mistero. Non si sapeva dove facesse base, non si conoscevano le sue origini e non sembrava ancorato a nessuna banda in particolare. Eppure, inspiegabilmente, vantava un sacco di conoscenze nell’ambiente e tutti erano pronti a collaborare con lui: anche i rapinatori più quotati, gli unici peraltro a poter sperare in una «convocazione», dato che lui, come «datore di lavoro», rappresentava il top del panorama internazionale. Come tutte le leggende, ben pochi lo conoscevano di persona, soprattutto i poliziotti, a cui arrivava solo qualche deformata eco dagli informatori. Tanto, non appena arrivava una segnalazione di quelle buone sulla sua presenza, si poteva star certi che arrivava pure il botto, come il lampo precedeva il tuono, violento e improvviso. Un tuono da diversi milioni di euro, che evaporava come d’incanto. E negli ultimi anni, questi tuoni a ciel sereno erano stati almeno cinque. Poi spariva nel nulla, da cui era venuto.

    Il soprannome di Pianista non era dovuto alla particolare maestria nel suonare il pianoforte, bensì a quella nell’organizzare piani a dir poco ingegnosi. Una diceria all’interno della malavita, raccontava che il suo primo furto era stato un pianoforte e da lì il soprannome, ma Lagrange riteneva che fosse solo una leggenda metropolitana. Ormai, era avvezzo al modo di storpiare gli aggettivi, per farli diventare soprannomi a dir poco pittoreschi e lo stesso argot era in continua evoluzione. Il Pianista riusciva a pianificare colpi da manuale, senza la minima sbavatura, con una cura dei particolari oltre la pignoleria. Spavaldo senza essere azzardato, nell’esecuzione dimostrava non solo un’ottima preparazione di stampo militare, ma anche un’incredibile capacità di acquisire informazioni fondamentali per portare a termine la sua performance. La descrizione che avevano di lui corrispondeva a un maschio di circa trentacinque/quarant’anni, alto un metro e ottanta, corporatura atletica e una personalità camaleontica, che gli consentiva di mimetizzarsi in qualsiasi ambiente. Contrario, almeno sinora, a lasciarsi dietro una scia di sangue più per opportunità che per coscienza: meno clamori, meno ricerche da parte della polizia. Ciononostante, circolavano insistenti voci su alcuni pregiudicati, che si presumeva a lui collegati, misteriosamente spariti dalla circolazione; anche se, in quell’ambiente, sparire nelle forme più bizzarre e impensabili, era un’eventualità che si poteva concretizzare con decine di varianti. Non c’erano foto segnaletiche, né tantomeno impronte digitali, appena un identikit e paio di foto scattate da distanza e nemmeno in primo piano.

    Lagrange era comunque sicuro che prenderlo e farlo parlare, avrebbe significato risolvere diversi cold cases degli ultimi anni e, cosa da non sottovalutare, dare una bella spintarella alla sua carriera. Il fatto che se ne interessasse il suo dipartimento, anziché la Gendarmeria, presumeva particolarità di cui lui era tenuto all’oscuro, ma lasciavano intendere intrecci con ambienti probabilmente intoccabili.

    5

    Era successo pochi giorni prima, grazie a uno di quei colpi di culo che di rado si ripetono due volte nella vita a permettergli di intercettarlo al Parc de Bercy e vederlo in faccia di persona. Il merito di quel fugace incontro era stato del sergente Flaubert, uno dei pilastri della squadra di Lagrange. L’occasione si era materializzata in un mattino piovoso, al culmine di una snervante quanto infruttuosa caccia all’uomo che avevano scatenato da due settimane. Tanto era, infatti, il tempo che il Pianista ronzava per Parigi, stando alle note trasmesse dalle alte sfere della DGSE che gestivano i contatti con servizi di intelligence stranieri a loro volta sulle sue tracce. Non era una novità che venisse segnalato in Francia, ma anche le altre volte tutti i tentativi di catturarlo erano andati a vuoto.

    Flaubert era appena uscito dal negozio di Passage Lepic nel IX Arrondissement, dove si era recato a torchiare un antiquario, sua vecchia conoscenza, che arrotondava le magre entrate della sua attività ricettando merce rubata. Sicuramente il latitante ignorava l’esistenza di quel topo di fogna né lo avrebbe mai degnato di una visita, ma l’omuncolo pettegolezzi al suo riguardo poteva averne. Ci si era recato a mezza mattinata, ben sapendo che in quella fascia oraria era difficile che ci fossero casuali clienti pronti a interferire con la strizzata di palle a cui lo avrebbe sottoposto. Non che si aspettasse un granché, ma un tentativo, fosse pure per disperazione, andava fatto e anche quella visita era ritenuta necessaria. Per quanto fosse un caso raro, era già successo che il Pianista avvicinasse qualche elemento della malavita locale per soddisfare esigenze legate al suo stato di ricercato. Grana alla mano, servizio completo, domande zero.

    Dal Passage Lepic, un vicolo o poco più, incassato tra i palazzi del quartiere e interdetto al traffico, Flaubert stava facendo ritorno alla sua auto, lasciata in rue Constance, dove era riuscito a parcheggiare. Appena fuori dal vicolo, in rue Lepic, aveva notato il frescone di turno scendere dall’auto, lasciarla in doppia fila e fiondarsi in un bar correndo a zig-zag tra i pedoni sull’affollato marciapiedi per evitare la pioggia battente. Flaubert, consapevole di non avere giurisdizione in merito, aveva deciso di sfogare la sua frustrazione investigativa sul cretino. Lui, membro delle forze dell’ordine, aveva dovuto lasciare l’auto due traverse più in là e

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