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Tangeri andata e ritorno
Tangeri andata e ritorno
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Tangeri andata e ritorno

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Ramiro, un professore di filosofia non più giovane e con un oscuro passato, viene coinvolto in una ambigua vicenda che lo porta in Marocco e precisamente a Tangeri. Alina, figlia di un suo vecchio amico e invischiata con estremisti islamici, viene ricattata. Nel tentativo di sbrogliare questa intricata situazione, Ramiro verrà a contatto con personaggi di un mondo arabo in bilico tra tradizione e innovazione e che fanno da specchio alle contraddizioni e responsabilità dell'Occidente. Inoltre, questo incontro-scontro fra civiltà, lo porterà a indagare l'animo umano, sballottato tra luoghi comuni, istinti ferali e assenza di riferimenti certi su cui plasmare la propria coscienza.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJul 13, 2020
ISBN9788831684491
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    Book preview

    Tangeri andata e ritorno - Paolo Raddi

    incantato

    Viaggiare ti lascia senza parole, poi ti trasforma in un narratore. Questa, credo sia la frase più celebre di Ibn Battuta, illustre sconosciuto per noi occidentali, ma in realtà il più famoso esploratore del mondo islamico, una specie di Marco Polo arabo, per capirsi. Partì da Tangeri a vent'anni per la Mecca, come ogni buon mussulmano e vi fece ritorno trent'anni più tardi. Dopo avere viaggiato con tutti i mezzi di trasporto allora in uso, aver visitato paesi dell'Africa e del Medio Oriente, essersi spostato dalla pianura del Volga alle isole Maldive, dall'India alla Cina incontrando migliaia di persone e prendendo nota dei loro usi e costumi, Ibn Battuta tornò definitivamente in Marocco. Tre anni dopo il suo ritorno, un giovane poeta di origine andalusa iniziò, per ordine del sultano, ad annotare i ricordi dell'esploratore e le sue osservazioni di viaggio, scrivendo così uno dei libri più famosi della letteratura araba medievale. In sua memoria è intitolato l'aeroporto di Tangeri.

    L'aeroporto di Tangeri, credo sia uno dei più brutti al mondo, sicuramente di tutti quelli nei quali sono sceso, che non sono pochissimi.

    Era circa vent'anni che non uscivo dall'Italia, più precisamente dalla Toscana, anzi, per dirla tutta, dal posto dove vivevo: Marina. Non era un bel paese. Deturpato in pochi anni da scellerate speculazioni edilizie alle quali la gente del posto non si era opposta, abbagliata da prospettive di facili guadagni. La solita vecchia storia, insomma. Ma a me piaceva starci. Semi deserto in inverno e affollato d'estate, quando i residenti sparivano inghiottiti dalla massa caotica dei villeggianti per poi riemergere, pian piano, verso la metà di Settembre. Quello era il periodo più bello. Sembrava si rinnovasse un antico patto tra la gente del posto, un accordo non scritto, un riconoscersi e dirsi ce l'abbiamo fatta anche quest'anno, ci siamo ancora. Marina è il luogo dove sono nato e dove ero ritornato dopo trent'anni.

    Forse perché avevo viaggiato parecchio da giovane, o semplicemente non avevo più la curiosità di una volta, fatto sta che quando ricevetti la lettera di Alina che mi invitava a Tangeri, non feci salti di gioia.

    Alina Messina, sposata Azzedine, posso dire che neanche la conoscevo. L'avevo vista per la prima volta alla sua festa di laurea, quasi vent'anni prima, poco prima dell'inizio di quegli eventi, i cui esiti, allora, noi non potevamo neanche lontanamente immaginare. La rividi una seconda volta al funerale di suo padre e poi mai più. Quando dico noi, intendo io e suo padre, Pino Messina.

    Pino, era come l'avessi sempre conosciuto. Suo babbo aveva una botteguccia nel centro di Marina, dove vendeva attrezzature nautiche e per la pesca. Niente a che vedere con i negozi di oggi, s'intende. Eravamo negli anni sessanta e la nautica da diporto nemmeno esisteva, almeno dalle nostre parti e l'occorrente per la pesca si limitava a pochi attrezzi e qualche verme. In quel periodo, la mia famiglia si era già trasferita, seguendo il lavoro di mio padre, ma l'estate tornavamo per le vacanze e la bottega del padre di Pino era per me, poco più che un bambino, un’attrattiva irresistibile. Il vecchio Messina non mi vedeva di buon occhio. Gironzolavo sempre intorno al negozio a curiosare, senza comprare mai niente. Stavo col naso appiccicato alla vetrina e fu lì che per la prima volta vidi una canna da pesca con il mulinello, anche se dovettero passare parecchi anni prima di poterne avere una. Dentro, vedevo anche un ragazzino più o meno della mia stessa età. Era magro, sempre con la medesima maglietta a righe e calzoni corti troppo grandi per lui. Se ne stava in un cantuccio su uno sgabello, con la faccia seria e lo sguardo infelice. Le rare volte che entravo in negozio, lui si rimpiattava nel retrobottega, poi quando uscivo lo vedevo risbucare da dietro la tenda e ritornare al suo posto. Non ci siamo mai parlati. Io lo invidiavo e non capivo come potesse essere triste in mezzo a tutte quelle canne da pesca, reti, mulinelli e attrezzi vari che accendevano così tanto la mia fantasia. Forse, anche lui invidiava me, che non ero costretto lì, in bottega del padre, ad annoiarmi tra quelle cianfrusaglie. Ma questo l'ho pensato molti anni dopo. Poi crebbi e non andai più in vacanza con i miei a Marina. Vi ritornai, come dicevo, circa trent'anni dopo, senza nel frattempo aver concluso niente di buono.

    Prima, viaggi ai quattro angoli del mondo, conoscere gente, fare esperienze, le solite cazzate degli anni settanta insomma, dopo, il periodo mistico-filosofico e infine un susseguirsi di lavori di tutti i generi, tanto per campare.

    Seguendo un indole insofferente al dovere, senza ambizioni professionali e nessuna attrazione per il denaro, ero passato da un interesse ad un altro non trovando mai qualcosa di duraturo, qualcosa che pian piano non si svuotasse, perdendo così la sua attrattiva e lasciandomi in uno stato depressivo ogni volta più profondo e persistente. Mia moglie, prima di essere completamente annientata da quella situazione, se n'era andata portando con sé i figli. Io, non sapendo più dove sbattere la testa, mi rifugiai nel posto in cui mi sentivo più tranquillo, Marina, appunto. Trovai lavoro come insegnante in una scuola, poche ore pochi soldi, ma a me andava bene così. Avevo tempo. Uscivo con la barca a pescare, leggevo libri e la sera fumavo erba.

    Fu in questo periodo che conobbi Pino. Il ragazzino triste e annoiato era diventato un uomo ed era subentrato nel negozio del padre, morto da anni e l'aveva ingrandito. Inoltre, affittava la propria barca ai turisti per escursioni giornaliere. Non credo si ricordasse di quel bambino che lo guardava dal vetro, non gliel'ho mai chiesto, tuttavia manifestò fin da subito una certa simpatia nei miei confronti. Io mi servivo da lui per le attrezzature da pesca e, una parola oggi una domani, venni a sapere che era separato e aveva una figlia a Roma a studiare. Nei paesi, come è noto, si sa tutto di tutti e dal momento in cui Pino venne a sapere che facevo l'insegnante, cominciò a chiamarmi professore. Fu per questo, probabilmente, che mi invitò alla festa di laurea della figlia, poteva così sfoggiare col parentado, specie con l'ex moglie, un amico professore e allo stesso tempo, mostrare a me che la cultura era presente anche nella sua famiglia. Io non fui per niente contento dell'invito. Il pensiero di dovermi vestire a modo, passare mezza giornata con gente che neanche conoscevo e che sicuramente non mi sarebbe piaciuta, non mi entusiasmava per niente. Tuttavia, accettai per mantenere buoni rapporti.

    Come avevo immaginato la festa fu penosa, almeno per me. Si conoscevano tutti o erano imparentati in qualche modo, ridevano e sbraitavano come si fa alle feste, si divertivano insomma. Pino mi aveva presentato alla sua ex moglie come il professore.

    Di cheee? chiese lei con diffidenza, ma mentre stavo per rispondere aveva già il cellulare all'orecchio ed era sparita tra gli invitati. Poi, mi fece conoscere Alina. La ragazza, forse abituata alle frequentazioni universitarie, manifestò una sorta di soggezione nei miei confronti, che invano cercai di dissolvere mostrandomi cordiale e alla mano. Assomigliava poco sia a Pino che a sua madre, tanto nell'aspetto quanto nei modi. Le feci le congratulazioni di rito, salutai Pino e me ne andai. Il mio dovere l'avevo fatto.

    Quando l'hostess annunciò l'imminente decollo, iniziando la sequela di istruzioni accompagnate da quei ridicoli gesti, mi chiesi cosa ci facessi lì veramente. Erano passate poche ore e già mi mancava il tramonto sul mare, la loggia di casa mia con il tavolone di legno, il verde inconfondibile dei pini, e soprattutto l'erba da fumare.

    Certo è, che la lettera di Alina non poteva essere un semplice invito a una vacanza. Non avrebbe avuto senso. Non avevamo nessun rapporto. Dopo il funerale del padre non l'avevo più vista ed erano passati una ventina d'anni. Quella lettera non poteva che essere una richiesta di aiuto. Che senso poteva avere altrimenti, invitare nella propria casa qualcuno che si è visto due volte? Le vicende accadute dopo la festa di laurea che avevano coinvolto me e suo padre, non giustificavano il tono cordiale, amichevole, quasi confidenziale della lettera. Inoltre, sembrava quasi volermi suggerire un copione al quale io mi sarei dovuto attenere una volta giunto nella sua casa. ...ricordando i bei momenti trascorsi... le magnifiche serate in spiaggia a parlare con te e mio padre... le escursioni con la barca.... Mai fatto niente di tutto ciò. Ed anche il darmi del tu era cosa insolita e, devo dire, per me poco gradevole. Non mi piace dare e ricevere confidenza verbale quando non ne corrisponde una reale. Eppoi, se si trovava in qualche difficoltà, non aveva veri amici con cui confidarsi e che potessero aiutarla? Eppure era ricca, aveva sposato un uomo importante nel suo paese, da quello che mi aveva raccontato Pino, uno che aveva a che fare con il petrolio. E allora perché proprio io? Cosa le aveva detto di me suo padre?

    Il brusio dei motori che aumentavano i giri mi distolsero da questi pensieri riportandomi alla realtà. Mi si era seduto accanto un marocchino, del resto stavo andando in Marocco, sdentato e con una gran voglia di chiaccherare, con il suo italiano storpiato, essenziale e incalzante, snervante dopo pochi minuti. Gli arabi parlano di continuo, a voce alta, con tutti, basta guardali un attimo, anche per caso e subito cominciano, domandano, chiedono, raccontano. È il loro modo di fare. L'ho riscontrato in tutti i paesi arabi in cui sono stato, Egitto, Tunisia, Turchia, Pakistan e certo anche in Marocco non poteva che essere lo stesso. A dire il vero, in Marocco ci ero già stato tanti anni prima, ma solo di passaggio, se così posso dire, per affari e in quel frangente non avevo avuto certamente il tempo e la voglia di constatare le abitudine locali.

    Sobbalzai a quel ricordo, tanto che il marocchino accanto, che nel frattempo non aveva mai smesso di parlare, si zittì e mi guardò con diffidenza.

    Come poteva essermi passato di mente il fatto che non era la prima volta che andavo in Marocco? L'avevo rimosso evidentemente, allontanandolo dalla coscienza perché pensiero inaccettabile e intollerabile dall'Io, come dicono i professoroni.

    Di colpo, mi assalì il sospetto che l'invito di Alina avesse in qualche modo a che fare con la mia precedente venuta in Marocco.

    Certo, non avevo dimenticato ciò che accadde allora, non sarebbe stato possibile, ma la mia mente non collegava i fatti occorsi con nessun luogo in particolare. Infatti, di quei pochi giorni trascorsi in quel paese, non ricordavo né posti, né strade, né alberghi o altro. Per la prima volta dopo tanti anni, mi resi improvvisamente conto che, oltre essere svincolate da luoghi precisi, tali vicende sembravano essere anche fuori dal tempo e nonostante fossero ossessivamente presenti ogni giorno nei miei pensieri, solo con una ricostruzione minuziosa potevo collocarle in un contesto preciso.

    Pian piano, mi convincevo sempre di più che doveva esserci una relazione tra quei vecchi episodi e la lettera di Alina. Cazzo, il passato ritorna sempre a galla in qualche modo, non ti molla, vuole il suo riconoscimento, esige un prezzo da pagare, come se non bastasse il presente a rendere difficile vivere.

    Mi addormentai. Non so cosa sognai o dissi nel sonno. Ricordo che fui svegliato dall'hostess che mi chiedeva se stessi bene o se volessi qualcosa da bere. Mi portò dell'acqua e solo allora notai che il posto accanto a me era vuoto. Il marocchino non c'era più. Si era fatto cambiare di posto e visto che l'aereo era mezzo vuoto, l'avevano accontentato. Fu un sollievo, almeno sarei stato in pace per il resto del viaggio.

    "...ogni volta

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