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Il pensiero immobile: Potere maschile e violenza di genere
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Il pensiero immobile: Potere maschile e violenza di genere

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About this ebook

La serratura a forma di cuore è vecchia, arrugginita, bloccata, non funziona più, non apre più nulla. Vien da chiedersi quale chiave sarà in grado di farci accedere alla sostanza e ai meccanismi dell’amore che la sua forma e il suo uso suggeriscono, forme e usi beninteso culturali. L’allusione è al potere maschile che da sempre, con pervicace intenzione ed esercizio di dominio, pretende di dettare i modi della relazione d’amore o del rapporto tout-court, ma in realtà lo annichilisce, troppo spesso con esiti di violenza e morte. Se c’è potere, non c’è amore. Gli autori indagano i modi in cui tali dinamiche si manifestano nel tempo lungo delle vicende delle donne di ieri e di oggi alle prese con quella scena tragica, attraverso le vicende storiche e le esistenze individuali, il mutare del clima sociale e politico, la tradizione, il costume e la cultura materiale, le narrazioni mediatiche, la fredda evidenza delle cifre, le legislazioni troppo lentamente progressive, le tutele e le istituzioni a loro difesa e sostegno, la mutevole percezione del ruolo della vittima, e poi i loro stessi racconti e quelli di chi su di esse si è accanito nella sopraffazione come unico rimedio all’incapacità del riconoscimento dell’altro. Una rassegna multi-disciplinare di ampio respiro, punteggiata da notazioni e considerazioni cui la psicoanalisi fornisce il suo sapere mite ma netto. Cosima Buccoliero, direttrice della Casa di reclusione di Bollate e dell’Istituto penale per minorenni “Cesare Beccaria” di Milano, è autrice della Presentazione. Giovanna Tatti, psicologa e psicoterapeuta a orientamento psicoanalitico, ha redatto l’Introduzione e l’Appendice.

Giovanni Callegari è psicoanalista e psicoterapeuta. Fondatore dell’associazione Metis, già docente di psicologia, formatore e supervisore di Case di accoglienza per donne maltrattate anche con figli. Già giudice onorario al tribunale per i minori di Torino. Ha lavorato come psicoterapeuta privato presso i sex offenders in carcere. E’ membro del direttivo del Laboratorio di Formazione e Lettura Psicoanalitica (LFLP). Svolge professione privata a Torino e a Villafranca d’Asti.
Carlo Viberti, scrittore, socio e collaboratore dell’associazione Metis, ha trasferito l’originaria formazione filosofico-letteraria nell’esperienza psicoanalitica come ulteriore e affinato strumento di interpretazione delle dinamiche della modernità.
Gli autori hanno pubblicato nel 2009 per i tipi di Ananke Il disagio sociale, l’agio civile (con Annalisa Zacchetti) che raccoglie gli atti del seminario di psicoanalisi condotto in collaborazione.
LanguageItaliano
Release dateJul 13, 2020
ISBN9788835863915
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    Il pensiero immobile - Giovanni Callegari Carlo Viberti

    I

    Il clima sociale.

    L’altro: scenari, dinamiche, risorse

    Cultura: 1. Complesso delle istituzioni sociali, politiche ed economiche, delle attività artistiche, delle manifestazioni spirituali e religiose, che caratterizzano la vita di una determinata società in un dato momento storico. 2. L’insieme dei valori, simboli, concezioni, credenze, modelli di comportamento, e anche delle attività materiali, che caratterizzano il modo di vita di un gruppo sociale. (Treccani)

    Civiltà: La forma particolare con cui si manifesta la vita materiale, sociale e spirituale di un popolo (eventualmente di più popoli uniti in stretta relazione) - sia in tutta la durata della sua esistenza sia in un particolare periodo della sua evoluzione storica - o anche la vita di un’età, di un’epoca. (Treccani)

    Il clima sociale, l’intorno della nostra esistenza così come ognuno di noi lo percepisce attraverso lo scambio ininterrotto e il fitto intrecciarsi di presenze, pensieri, atti, energie, scelte, sogni, fallimenti, slanci, difese, rivelazioni, speranze è l’ambito privilegiato, ma si dovrebbe dire ineludibile, in cui si svolge senza soluzione di continuità la ricerca che ognuno di noi fa di una felicità possibile.

    Il pensiero dell’uomo li indaga e li dibatte da sempre, con gli apparati speculativi offerti dalle scienze umane, dalla storia all’antropologia, dalla filosofia alla sociologia alla psicologia, e appunto dalla psicoanalisi, strumento di indagine e interpretazione qui privilegiato.

    I sentieri sono tanti, altrettante le opzioni, ed è facile divagare dal percorso, disorientarsi. Ma disorientarsi senza perdersi, anzi cogliere l’occasione di un nuovo inatteso paesaggio per sentire se echeggiano dentro di noi visioni e sensazioni diverse in quanto diversamente percepite.

    Si è scelto di guardare questa specie di mappa dapprima da lontano, da un alto mare, per poi velocemente scendere a terra e tentare qualche direzione.

    Dunque il sociale (la cultura vissuta, la civiltà realizzata), la cosiddetta macro-struttura. Quindi la cittadinanza. E poi la comunità. Infine i soggetti, e il rapporto fra di essi, dove si agita e si dibatte, si ricapitola, si rimette continuamente in discussione, si indaga tutto il resto.

    Sociale è convivere, riuscire a convivere. Ma come si fa a convivere decentemente, a star bene in un mondo come questo? Ci si lamenta, ci si consola sposando la tesi che il malessere sociale è inevitabile. Ci sentiamo soli, simili ma dispersi, individui in competizione, a volte naufraghi in balia dei flutti. Abbiamo barattato la felicità (e la libertà di viverla) con la sicurezza, delegando il potere, vincolandoci a un potere che ci rappresenti e tuteli. Il potere è altrove. Dobbiamo salvarci.

    Ci si chiede di condividere, di partecipare agli sforzi comuni, di essere cittadini. Questo agire virtuoso e responsabile ci dovrebbe attribuire la patente di ammissione alla cosiddetta società civile. Intreccio di diritti e doveri. Tentativo di integrare le spinte delle varie istanze sociali. Il potere è democratico, contrattuale. Dobbiamo resistere.

    Quando poi i nostri legami sociali più stretti si costruiscono in piccoli gruppi che condividono, in tutto o in parte, caratteri comuni, valori, tradizioni, sapere materiale, lingua, religione, ci sentiamo una comunità. Senso di casa, di abitato. Qualcosa di caldo e accogliente, solido. Il potere è condiviso e scambiato. Dobbiamo farcela.

    Eppure, man mano che le dimensioni crescono, tutto diventa più freddo, tutto diventa più liquido e imprendibile. Scenario unico. Pensiero unico. Assimilazione ed estraneità. Incertezza. Paura.

    Sociale, o Kultur, come sceglie di dire Freud. A parte la cultura alta, accademica, che non va in televisione e quindi praticamente non conta e non esiste, oggi comunemente la cultura è quella che ci si costruisce lungo la carriera scolastica (il farsi una cultura), con il dubbio che sempre meno serva a capire i problemi, anzi ne sia strumento mai abbastanza aggiornato, se non ostacolo a una solida autonomia di giudizio con cui leggere una modernità tanto veloce da sfuggirci. Cultura significa quanto ti dimostri informato, o fornito di nozioni tecniche buone per un buon lavoro.

    Cultura dovrebbe indicare il modo con cui una società organizza il suo sapere e i suoi valori per adattare e integrare i soggetti nel corpo sociale. Per i caratteri peculiari manifestati in quest’ultimo periodo storico il termine cultura è ormai associato strettamente a quelli di comunicazione, immagine, mediaticità.

    Non solo. I modelli alternativi al capitalismo sembra siano stati sconfessati dalla storia. Abbiamo assistito al trionfo dell’economia e al dilagare del suo potere. Il termine più recente che si è aggiunto agli altri è globalizzazione.

    Siamo cittadini del mondo. Tutto dipende da tutti. Eppure sentiamo di contare sempre meno. I giochi si fanno altrove. Ti si addossa la responsabilità di causare fenomeni che neppure lontanamente conosci. L’ideologia non è in discussione. Anzi, l’ideologia è morta insieme alla morte delle alternative. Nessuno deve recitare fuori dal coro, altrimenti è escluso e non rientra. Parafrasando un verso di Gaber: ognuno è libero di cantare come vuole, ma tutti devono cantare come vuole la libertà.

    Il modello di comunità calda e conviviale cui si accennava ha soppiantato brevemente il concetto di società strutturata, ma si è presto snaturata, è diventata la comunità delle merci e dei mercati, si è fatta sterminata, senza confini né territorio né ambiente, illimitata e dunque insoddisfacente. Le forze che vi agiscono sono potenti e quasi invisibili, collocate fuori da ogni contesto. Sembra non debbano rendere conto a nessuna autorità. Gli ammortizzatori sono pochi e deboli, incerti dove agire o distribuire localmente le esigue risorse sociali. Le merci circolano liberamente, noi no. Noi ci sentiamo in difesa. Le critiche più o meno radicali a questo modo di vivere o sono violente e distruttive, o predicano un improbabile ritorno al passato, o rimandano a risorse e giudizi che non sono di questo tempo e di questo mondo. Curiosamente, proprio il pensiero riformista ammette che forse il sistema non è riformabile, non mostra di avere idee altre. Si tratta di metterci una pezza, poi un’altra, poi un’altra ancora. Mancando progetti, ci si limita ad affrontare emergenze. Con richiami continui alla legalità, alla giustizia, al rigore, alla purezza.

    Il nostro sapere su ciò che ci circonda è spesso di seconda mano, fatto di effetti visivi, di immagini, di televisione e di internet. Siamo subissati di informazioni, troppe per pensarle e rifletterci, troppe per non consumarle velocemente. Troppe, e troppo assillanti e troppo realistiche per non starne male o ingenerare assuefazioni difensive. Informazioni curate e selezionate da esperti e commentatori. Esaurienti e obiettivi, sempre aggiornati su ogni argomento. Facce molto note, per nulla conosciute. Tutto è commentato.

    Il nostro pensiero su ciò che accade è selezionato alla fonte: è pre-giudicato, alterato nel giudizio. Che ne sappiamo realmente? Quasi nulla. La comunità mediatica, la comunità globalizzata è una comunità immaginata. Cui assistiamo da lontano. Su cui ci facciamo una ragione, una ragione di disagio, facendo nostro il pensiero di altri, di cui non sentiamo nemmeno il respiro, l’odore.

    L’altro non c’è. L’altro si chiama attualità, news, reportage, scenario, fantasia, rappresentazione. Ce la possiamo ancora aggiustare con il dubbio che non sia vero niente, che sia solo spettacolo.

    Provocatoriamente e per amore di paradosso, si potrebbe dire che finché l’altro non c’è, va ancora bene. Ma cosa me ne faccio della virtualità? La vita vera dov’è? La vita vera è quando l’altro si presenta. Ma quando l’altro si presenta, lì nascono i problemi. Finalmente. Meno male.

    Meno male che la nostra vita vera non è quella che si è descritta. Se ci pensiamo quietamente, per buona parte delle ore della nostra giornata abitiamo una comunità vissuta, relazionale, piccola quanto basta, intessuta di rapporti non mediati. Quanti nomi ci sono nelle nostre agende? Quanti ne usiamo quotidianamente? È la comunità che ci portiamo in tasca. Non dobbiamo farcene una ragione. Ce ne possiamo capacitare, possiamo cioè renderci capaci, di volta in volta capaci di giudizio e paragone, in base al nostro pensiero.

    Passano in secondo piano diritti, prerogative, diversità. Non siamo tenuti ad accettare comunque, ma giudicare di volta in volta (con un giudizio che premia) i modi con cui presumiamo di trarre del beneficio dall’agire dell’altro. La conoscenza nasce dalla percezione di una diversità, che sia però risorsa. Diversità non è la varietà dei prodotti di un market, che per definizione sono tutti ottimi, controllati, e a buon prezzo. La diversità non ha valore in quanto tale, ha valore in quanto portatrice di pensiero. Non tutto il pensiero è buono, buono per noi. Lo stesso vale per le persone, e per i rapporti che con esse abbiamo. Di ciò occorre capacitarsi. Capacitarsi su come stanno le cose. E creare, accettare e praticare condizioni di scelta. Trattare l’altro come la fonte del nostro beneficio, o non trattarlo per niente.

    L’unico lavoro che produca profitto spendibile è il lavoro per la soddisfazione dell’altro, perché l’altro ne tragga appunto profitto, e si renda disponibile e bene intenzionato a sua volta a beneficarci, a essere fonte della nostra soddisfazione. Ma se non è così, se l’altro non ne è capace, o pretende da posizioni di forza, o ricatta o alza il prezzo, o prende e se ne va, il lavoro deve essere interrotto. E rivolto ad altri, più capaci. Non più capaci in assoluto, più capaci nei nostri confronti.

    È quella che definiamo competenza. La psicoanalisi sostiene che essa proviene da lontano. Il bambino nasce competente quanto al proprio desiderio, e al modo di soddisfarlo: mia madre, allattandomi, mi ha chiamato (cioè eccitato) ad agire secondo il bisogno di venire soddisfatto per mezzo di un altro.

    Questo è il prototipo di ogni futuro rapporto. Il soggetto alla competenza sommerà l’esperienza che gli verrà dal computo degli oggetti buoni o non buoni per sé, delle vie percorribili e delle strade sbarrate.

    Se qualcosa mi istruisce, se qualcosa mi dà sapere, io mi modifico. Non è molto il sapere che davvero ci occorre per la felicità, tiene poco posto, sta tutto in tasca. È l’armamentario minimo contro la seduzione della menzogna.

    Abbiamo tutti qualcosa da nascondere, facciamo tutti operazioni di sicurezza. Il testo e il tono dipendono da quanto agio e quanto disagio. I media traboccano di storie poliziesche, notizie di cronaca segnate da violenza inaudita, atroci fatti di sangue. Mai come in questi tempi l’immaginario collettivo recepisce e produce pensieri analoghi: l’insidia e il pericolo sono ovunque, il nemico può essere chiunque, c’è troppo piede libero, non sono tutelato, non c’è giustizia per i miei diritti, i colpevoli non saltano fuori, non me la contano giusta, mi vogliono fregare, usare, sfruttare, fanno la bella faccia, sono astuti, rispettabili e spregiudicati, non posso più permettermi di credere alla virtù, faccio la figura dell’ingenuo, la virtù di questi tempi non è più praticabile, voglio sapere cosa c’è sotto, quale profitto indebito, e a chi giova. Alla peggio, giocoforza farò anch’io lo stesso. Contribuirò così anch’io a diffondere quei comportamenti che stigmatizzo e per i quali chiedo giudizi severi. Questo è il disagio sociale, una somma aritmetica di fatti privati. Farla franca, e poi starci male.

    Abbiamo paura dello star male. Abbiamo paura di non funzionare. Abbiamo paura di non essere competenti. Abbiamo paura che la felicità non esista, o non sia per noi. E cediamo i diritti della nostra felicità a qualcuno che pare saperne più di noi. Siamo tutti sotto lo stesso cielo, ma ognuno ha i propri orizzonti.

    È possibile che tu stia male. Anzi, il rischio di star male è inevitabile, visto che ci sono gli altri. Gli altri sono quelli che non mi lasciano fare quello che voglio. Debbo venire a patti. Quanto mi costa? Cosa ne faccio di quel pensiero fastidioso che degli altri ho bisogno? È questa la complicazione. Gli altri sono il mio rischio. Gli altri sono l’unica risorsa.

    Dunque sono soltanto motivi esterni a segnare l’individuo e a causarne il fallimento? Freud privilegia una spiegazione intrapsichica, valutando come decisivi i conflitti interni al soggetto: è vero che la civiltà con le sue funzioni limitative (ma di relativa, residua garanzia) resta uno scandalo agli occhi dell’individuo, eppure alla fine la costrizione esercitata dalla società non basta a spiegare perché gli esseri umani sono tortuosamente incerti e incapaci ad amare, perché tendono al masochismo, alla distruzione degli altri e di sé.

    Eppure, fra il disagio sociale e l’agio civile non esistono baratri né muraglie. Si tratta piuttosto di sfuggire allo stereotipo dell’altro come remora. L’altro irrimediabilmente estraneo, l’altro non conosciuto né conoscibile, l’altro presunto fondano il rifiuto del giudizio a favore di un pre-giudizio che come tale pregiudica il rapporto. Quand’anche presenza perturbante, elemento di disordine o fattore di rischio o figura di repentaglio, l’altro è e si manifesta fin dall’inizio della vita e poi lungo i giorni come risorsa essenziale e fonte di ogni nostra possibilità di benessere. Occorre cercarlo per farne buon uso, o non farne affatto. Così si va per il mondo, interminabilmente.

    Così vanno le donne per il mondo, da sempre discriminate, vilipese, bollate come inferiori. Cercano e chiedono uguali condizioni d’uso del diritto alla felicità, pari opportunità di espressione del proprio sé, maggiore potere contrattuale negli impari rapporti con il maschile in ogni aspetto del vivere civile, tutele non emergenziali ma statutarie, giuridicamente sancite, socialmente riconosciute e accolte. Dal disagio di esistere all’agiatezza di essere.

    II

    Il potere maschile

    Descrivere attraverso un excursus storico necessariamente sintetico e schematico i rapporti di potere fondati sul genere e i modi implacabili in cui si manifesta pressoché intatta nel tempo l’egemonia maschile, pur nel mutare dei tratti culturali (ove s’intrecciano e reciprocamente si influenzano gli aspetti immateriali e quelli visibili e concreti) che caratterizzano le varie epoche del consorzio umano nel suo fluire evolutivo verso faticosi esiti di civiltà che noi contemporanei chiamiamo modernità o mondo delle democrazie avanzate, significa raccontare una storia pressoché

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