Sei personaggi in cerca d'amore
By Dino Finetti
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Alcuni racconti hanno una valenza metafisica; in altri, la bizzarra convivenza di linguaggio aulico e linguaggio colloquiale provoca un particolare effetto comico: sono “esercizi di stile” dove la “storia” passa in secondo piano.
Il primo racconto traduce in una forma narrativa le leggi del moto di Newton; il secondo si rivela una divertita lectio magistralis di garbata misoginia; il terzo ha come spunto la parodia di un'opera musicale, di cui imita il linguaggio arcaicizzante; il quarto è un’apologia dell’amore fisico; il quinto illustra la disastrosa avventura di uno stagionato dongiovanni; l’ultimo è una fantasia un po’ grottesca e un po’ cattiva che si serve dell’immortale personaggio di Swift per riflettere sull’ipotesi futuribile di una società priva del maschio.
Pervasi di ironia, umorismo, profondità e leggerezza, mostrano il mondo delle relazioni fra i due sessi da un insolito punto di vista. I sei personaggi, che solo nel titolo si richiamano al noto dramma di Pirandello, appartengono all’anonima realtà, alla storia (Newton) oppure fanno parte del mito grazie a un’opera letteraria che li vede protagonisti (Il cavaliere del cigno, Gulliver), ma tutti nascondono una proiezione dell’autore, quando non è lui stesso a porsi al centro della scena.
È un polittico allegorico in cui sono raffigurate le difficoltà dell’uomo nel conquistare l’amore della donna, traguardo che non viene raggiunto da nessuno dei protagonisti. Solo nell’ultimo racconto vi è la consolazione visionaria di un futuro in cui il maschio (forse) potrà riconciliarsi con la femmina.
L’Editore si inserisce nella sequenza con un personale contributo, rivolgendosi direttamente a Cupido per un ultimo saluto.
E-Book arricchito da 42 immagini in bianco/nero e colori.
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Sei personaggi in cerca d'amore - Dino Finetti
La mela di Newton
immagine 1È a tutti noto il leggendario episodio grazie al quale il grande fisico e matematico inglese, Isaac Newton, ebbe la geniale intuizione che lo portò a formulare la legge della gravitazione universale. La banale caduta di una mela cambiò per sempre la vita del giovane studioso, ma anche la Scienza compì un enorme passo in avanti e non sarebbe mai più stata la stessa dopo quel memorabile evento.
Diversi biografi contemporanei hanno riportato l’aneddoto, trasformandolo e amplificandolo fino a farne un mito. Noi, oggi, venuti in possesso di documenti inediti che gettano una nuova luce sull’accaduto, siamo finalmente in grado di raccontare cosa avvenne in quel lontano giorno d’autunno del 1665.
Dovete dunque sapere che l’allora ventitreenne e brillante studente di Cambridge era stato costretto a lasciare la cittadella universitaria, presso la quale conduceva una vita piuttosto allegra e sregolata, per rifugiarsi in campagna dove minore era il pericolo di essere colpiti dall’epidemia di peste che all’epoca aveva fatto la sua mortale comparsa nelle città inglesi.
Immerso nella tranquillità agreste, lontano dalle distrazioni, Newton riuscì a trovare la concentrazione e la serenità necessaria ai propri studi, quella miracolosa condizione di grazia e lucidità mentale che spesso è all’origine delle più straordinarie conquiste dell’intelletto umano.
Aveva preso la salutare abitudine di distrarsi passeggiando fra i campi, mentre la mente era occupata a elaborare e risolvere complicate operazioni matematiche. Portava con sé un taccuino dove annotava qualche formula e i risultati delle sue elucubrazioni. La passeggiata si concludeva generalmente nel frutteto di proprietà della famiglia: lì, all’ombra di un melo, risolto il problema logico-matematico che lo aveva impegnato fino a quel momento, si concedeva un meritato riposo, per non dire che si faceva una solenne e ristorante dormita, portando un braccio sotto la nuca, a far da guanciale e l’altra mano appoggiata al notes.
I contadini che passavano di lì, gente semplice, ignorante, ma proprio per questo sinceramente ammirata nei riguardi degli uomini di cultura, additavano il giovane appisolato per mostrarlo come esempio a figli e nipoti: «Ecco là il professore!», così ormai era nominato da tutti, con grande reverenza, «Guardate com’è assorto nei suoi pensieri e chissà di quali problemi complicatissimi è venuto a capo, segnando la soluzione sul taccuino!». C’era però immancabilmente qualche monello irrispettoso che commentava ridacchiando: «Ma non sentite come russa? Io non sono andato a scuola e non so far di conto ma quei calcoli lì, a occhi chiusi, li risolvo anch’io, tutti i giorni!». «Taci, sciocco!», lo zittiva la mamma.
In verità c’era un quesito che si presentava con molesta insistenza alla mente del professore
, facendogli perdere la concentrazione necessaria alle quotidiane applicazioni di matematica superiore. Se si fosse trattato di un calcolo, un’equazione a più incognite, la formulazione di un enunciato, la dimostrazione di un teorema o un qualunque altro rompicapo risolvibile attraverso i numeri o la geometria, in quattro e quattr’otto avrebbe trovato la soluzione, ma il problema non aveva niente a che vedere con la logica o la matematica e l’eccezionale intelligenza del giovane Newton non era di alcun aiuto al suo possessore che, in quel particolare ambito aveva le stesse drammatiche difficoltà dei suoi assai meno dotati coetanei.
Motivo di tanta sofferenza, per dirla in due parole, era che si sentiva irresistibilmente attratto da certe fascinose ragazze, sue compagne di studi, damigelle bellissime e inarrivabili le quali tuttavia cocciutamente snobbavano proprio i noiosi secchioni come lui. Lo turbava il pensiero di tali meravigliose creature femminili che, simili ad astri luminosi e inafferrabili, sfrecciavano nel firmamento dei suoi irrealizzabili desideri, tenacemente sfuggendo agli insopportabili primi della classe, per farsi poi invariabilmente attrarre dai vacui bellimbusti.
Un giorno il giovane, dopo l’abituale passeggiata, come di consueto sedette ai piedi di un melo per raccogliere le idee. Ben presto la sua mente venne distratta dai soliti, importuni pensieri che reclamavano a gran voce una soluzione all’angoscioso problema in cui si dibatteva. D’improvviso, un rosso pomo, turgido, succoso, diretto discendente del frutto che Eva staccò dall’albero della conoscenza del bene e del male per offrirlo, fatale tentatrice, allo sprovveduto Adamo, precipitò da uno dei rami più alti centrando in pieno una delle teste più geniali che l’umanità abbia mai potuto vantare in tutto il corso della storia. Il violento impatto si tradusse in un vistoso bitorzolo sulla preziosa fronte – e forse ha avuto origine da questo episodio il popolare adagio secondo cui la straordinaria attitudine di una persona in una attività o una disciplina si manifesterebbe con una protuberanza cranica: il bernoccolo
degli affari, il bernoccolo
della matematica, ecc. -, ma quando Newton si riebbe dal colpo e dal conseguente stordimento, un’intuizione geniale era balenata nel suo cervello, permettendogli di risolvere, al contempo, un grande interrogativo della fisica e l’imbarazzante problema personale.
La mela - il frutto del peccato, simbolo femminile per eccellenza, già esecrato dalla Chiesa in quanto, per sua causa, l’uomo si era alienato la fiducia di Dio e aveva perso per sempre l’originaria innocenza insieme con le delizie dell’Eden; il pomo d’oro oggetto di contese e discordie fin da quando Paride lo offerse alla dea Venere, preferendola a Giunone e Minerva; il comune, umile frutto che subdolamente rappresenta l’eros, la donna, la tentazione, il male, e che più tardi i padri della psicanalisi, Freud e Jung, avrebbero associato alla libido, al desiderio, all’impulso erotico, all’energia sessuale -, con la semplice e docile obbedienza a una legge di natura, aveva propiziato il miracolo, riscattando così anche la sua torbida fama.
Newton si alzò con qualche difficoltà dalla sua posizione supina e sebbene le gambe malferme lo obbligassero ad appoggiarsi all’albero e la testa gli dolesse, si sentiva euforico. Un senso di esaltante ebbrezza si era impadronito di lui e chi avesse potuto osservarlo in quel momento avrebbe notato sul suo volto uno strano sorriso, quasi un sogghigno e una luce maliziosa negli occhi. Inaspettatamente, meravigliosamente, le tenebre si erano dissolte nella prodigiosa mente dell’uomo di scienza: tutto era chiaro, logico, consequenziale; grazie a quella imprevista botta, venivano gettate le fondamenta della meccanica classica, scoperte le leggi del moto e della gravitazione universale.
Con mano febbrile, egli annotò sul suo taccuino: «Ogni corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, a meno che non sia costretto a mutare tale stato da forze impresse» e la più importante di queste forze, esercitata da ogni corpo in misura proporzionale al suo stesso peso, era la forza di gravità. «La legge di gravitazione universale» seguitò a scrivere «stabilisce che la forza di attrazione tra due corpi, in qualsiasi luogo dell’universo, sia proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della distanza che li divide».
Newton richiuse il taccuino con mano tremante. Non stava più nella pelle dalla contentezza. Era eccitato come un ventenne alla sua prima notte d’amore, e invero lui era effettivamente un fisico ventenne, ma la sua giovinezza non era stata ancora allietata da un atto d’amore fisico. La legge di gravità era il dolce cappio, il laccio infallibile che gli avrebbe permesso di catturare quei flessuosi corpi femminili in perenne fuga da lui.
Quando ritornò al Trinity College, si sentiva già professore in pectore. Aveva assunto un’aria accigliata, grave, austera che incuteva timore, rispetto e non poca inquietudine, ma che gli consentiva di essere immediatamente riconosciuto, a colpo d’occhio, come il più autorevole promulgatore della legge di gravità. Chi lo aveva conosciuto quando era un vivace e spensierato studente, vedendolo tanto mutato, lo interrogava così:
«Che ti è successo, Isaac? Perché sei così serio? Ti è andato male un esame? La mamma non riesce più a mantenerti agli studi? Ti sei ammalato?»
«No, no» rispondeva «ho scoperto la legge di gravità!»
«Oh misericordia! Che cosa terribile dev’essere questa legge di gravità se così tanto ti cruccia!»
I poveretti temevano che si trattasse di una malattia gravissima e contagiosa, un flagello ancora peggiore della peste che si era appena allontanata dal suolo inglese dopo averne decimato gli abitanti. In preda all’angoscia, i conoscenti del professore
lo incalzavano:
«Come possiamo salvarci dalla legge di gravità?»
«Tutti sono sottoposti alla legge di gravità: gli uomini, gli esseri viventi e inanimati e così anche la luna, i pianeti, le stelle e tutto l’universo. Solo Dio, che non ha materia, è al di fuori della legge di gravità», spiegava il grande scienziato, mantenendo il suo tono di seriosa autorevolezza.
«Avete sentito? Preghiamo tutti nostro Signore affinché la Sua sacra Legge sconfigga quella di gravità e ci liberi dal male!», commentavano fra loro gli ingenui colleghi dell’ombroso matematico.
L’atteggiamento grave e solenne dell’eccentrico personaggio non dava però i frutti sperati. I compagni non scherzavano più con lui, raramente gli rivolgevano la parola, sentendosi a disagio per la sua aria austera e cupa e temendo che fossero annunciate chissà quali altre sciagure; e le ragazze, se possibile, lo evitavano ancor più di prima, ora che si era guadagnata anche la fama di menagramo. Newton decise di applicare integralmente la legge gravitazionale. Avrebbe potuto fermare la corsa di quei corpi femminili aumentando la sua forza di attrazione, così come la Terra tiene legata a sé la Luna e i pianeti sono obbligati a ruotare attorno al Sole anziché allontanarsi,