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Oltre la disoccupazione: Per una nuova pedagogia del lavoro
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Oltre la disoccupazione: Per una nuova pedagogia del lavoro

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Disoccupazione e inoccupazione giovanile sono un problema drammatico di molti paesi e, tra i più colpiti, il nostro. Le conseguenze sul piano socio-economico si toccano con mano, perché quella che stiamo vivendo è una crisi di sistema: famiglie in diffcoltà, crollo demografco, assenza di progettualità, disintegrazione sociale. Oltre a quella strettamente economica, altrettanto grave, anche se non ha la risonanza che merita, è la ricaduta della crisi lavorativa sulle persone, sulla loro  identità ed esistenza presente e futura. Che cosa avviene nella vita di quanti si trovano improvvisamente emarginati, esclusi, “disaffgliati”, stanchi di bussare a porte sbarrate per lungo tempo? Sono questioni che attendono certamente risposte di ambito economico (analizzate nella prima parte del volume), ma che oggi richiedono una prospettiva di più ampio respiro, oggetto della seconda parte del volume. La tesi proposta è questa: accanto all’economia serve il coinvolgimento delle scienze umane e sociali, in primis la pedagogia: di qui la scelta di un approccio interdisciplinare. A fronte di una corrente di pensiero incline al pessimismo, in queste pagine si offre una chiave di lettura moderatamente ottimistica, ad una condizione però: che la pedagogia si faccia seriamente carico di un ripensamento radicale dell’idea di lavoro e della formazione e privilegi l’importanza dell’educazione iniziale, all’interno della famiglia e della scuola.
LanguageItaliano
Release dateJul 9, 2020
ISBN9788838249877
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    Oltre la disoccupazione - Andrea Cegolon

    Andrea Cegolon

    OLTRE LA DISOCCUPAZIONE

    Per una nuova pedagogia del lavoro

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Copyright © 2019 by Edizioni Studium - Roma

    ISSN della collana Cultura 2612-2774

    ISBN 978-88-382-4987-7

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838249877

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    INTRODUZIONE

    I. LAVORO E MERCATO DEL LAVORO

    II. LA TRASFORMAZIONE TECNOLOGICO-INFORMATICA DEL LAVORO

    1. Tecnologia e progresso

    2. L’impatto tecnologico sull’occupazione

    3. Lavoro e limiti dell’automazione

    4. Come cambia il lavoro

    5. Il lavoro in piattaforma e la gig economy

    6. Le forme di lavoro non standard

    III. LE CAUSE REMOTE DELLA DISOCCUPAZIONE / INOCCUPAZIONE

    1. La nobilitazione dell’avidità e dell’avarizia avidità

    2. La favola delle api del dottor Mandeville e la querelle sul lusso

    3. L’interesse: una passione dolce e ragionevole

    IV. LO SPIRITO DEL CAPITALISMO E LE SUE TRASFORMAZIONI

    1. La critica come elemento rigeneratore

    2. L’allergia da lavoro

    3. Lo spirito del capitalismo tecno-nichilista

    4. L’economia come mezzo e non come fine

    V. INCLUSIONE E NUOVE POVERTÀ

    1. Le nuove povertà

    2. La povertà in Italia

    3. Esclusione/inclusione

    4. Esclusi dal lavoro

    VI. PROSPETTIVE PEDAGOGICHE

    1. Esclusione come disaffezione

    2. L’educazione e la formazione per il recupero e il reinserimento lavorativo

    3. L’approccio istituzionale all’emergenza

    VII. LA PEDAGOGIA DEL LAVORO COME PREVENZIONE DELLA DISOCCUPAZIONE

    1. Dalla logica dell’emergenza a quella della prevenzione/promozione

    2. La sfida pedagogica delle soft skills

    VIII. RIPENSARE IL LAVORO

    1. Una nuova idea di produttività

    2. Il lavoro domestico come lavoro di cura produttivo

    3. Il lavoro artigiano generatore di innovazione

    4. Una concezione pluralistica del lavoro

    5. Cambiamento discontinuo e flessibilità

    6. Il lavoro come portafoglio

    IX. EDUCAZIONE DI BASE E LAVORO

    1. La nuova idea del lavoro si genera in famiglia

    2. La scuola consolida e sviluppa la nuova idea del lavoro

    X. IMPARARE UN MESTIERE

    1. Il sistema educativo di istruzione e formazione: responsabilità collettiva

    2. Inventarsi il lavoro

    CONCLUSIONE

    BIBLIOGRAFIA

    INDICE DEI NOMI

    CULTURA STUDIUM

    CULTURA

    Studium

    195.

    Scienze dell’educazione, Pedagogia e Storia della pedagogia

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    È vietata e perseguibile a norma di legge l'utilizzazione non prevista dalle norme sui diritti d'autore, in particolare concernente la duplicazione, traduzioni, microfilm, la registrazione e l’elaborazione attraverso sistemi elettronici.

    INTRODUZIONE

    Ci si è sforzati di dare al tema del lavoro una impostazione pedagogica, un taglio diverso da quello abitualmente seguito in questo ambito di studi. Le teorie della formazione, infatti, sono solitamente e giustamente inclini a privilegiare percorsi teorici che iniziano a partire dai fondamenti del ragionamento, in una salda prospettiva antropologica: la domanda chi (chi è l’uomo) precede quella sul come (come l’uomo debba realizzarsi, agire, comportarsi); conoscere se stessi è prioritario rispetto alla conoscenza del mondo, secondo il principio socratico che è a fondamento della cultura greca antica.

    Con questo marchio di qualità alle spalle la pedagogia ha potuto garantirsi un lungo periodo di tranquillo appagamento. Ma ha finito per lasciarsi assorbire in toto dalla riflessione filosofica sull’uomo, relegando in secondo ordine l’autenticità ed il valore storico-empirico delle manifestazioni umane di vita, decretandone la subalternità rispetto alle conoscenze filosofiche.

    In tal modo, la pedagogia ha finito per perdere i contatti con la realtà che invece si srotola in maniera solo parzialmente prevedibile stante le diverse interazioni che si attivano nei contesti di vita ed i problemi inusitati che ne conseguono. Chiarisce, da par suo, il senso della vita la portata del nostro essere uomini all’interno della dimensione reale H. Arendt, cui dobbiamo questa chiave di lettura: non esiste l’uomo, esistono uomini e donne che dobbiamo imparare a conoscere entrando in un rapporto di comunicazione e di dialogo.

    E dove può valere questo principio meglio che nel lavoro? In questo ambito è fortissima ed inestricabile la rete individuo-società che giocoforza si crea in virtù di spinte plurime, economiche, politiche e, non ultimo, sociali. Per averne piena contezza basta seguire la parabola del lavoro: a partire dal secolo (XX) della sacralità del lavoro fino alla perdita nei nostri giorni del valore del lavoro, quando ha fatto il suo ingresso nel dibattito l’idea di «fine del lavoro».

    L’espressione (che si deve al titolo di un libro di Rifkin del 1998), per quanto forte, provocatoria e un po’ narcisistica, mette il dito su una piaga oggettiva. Cresce la preoccupazione delle famiglie in gran parte del ceto medio. Cresce l’ansia e l’ inquietudine delle giovani generazioni per un futuro che sarà sicuramente peggiore del tempo in cui sono nate. Giusta e motivata la critica all’ingordigia del ceto adulto che in questi decenni ha scaricato sui giovani la conquista di privilegi insostenibili nel tempo. Ebbene, tutto questo spiega lo scetticismo e l’assenza di quelle vere life chance, come aveva ottimisticamente preconizzato il sociologo R. Darhendorf alla fine del secolo scorso. Usiamo tutte le cautele e i necessari distinguo, ma la «fine del lavoro» è entrata a far parte delle riflessioni di gran parte della sociologia perché riguarda non più solo alcune zone del pianeta, le meno sviluppate, colpisce invece la parte di più antica tradizione, l’Occidente e l’Europa, Italia in primis.

    Questo quadro costituisce un ambito di riflessione che la pedagogia del lavoro non può sottrarsi di indagare come merita. E non per capire quale dei due termini debba avere la precedenza tra «pedagogia» e «lavoro», dovendosi essa misurare con fenomeni drammatici come i famosi NEET, i giovani «invisibili», fuori da ogni spazio che la società tradizionalmente dovrebbe riservare loro. Fuori dalla scuola, in quanto hanno già completato o abbandonato un percorso formativo; fuori dal lavoro, perché hanno avuto un’occupazione a termine o non sono ancora entrati nel mondo del lavoro; fuori da una famiglia in proprio che non sono in grado di costituirsi (e perciò vivono e sono mantenuti nella famiglia di origine, in violazione degli elementari ritmi biologici che hanno generalmente caratterizzato le nostre esistenze).

    La pedagogia del lavoro deve interrogarsi, invece, su che cosa abbiamo da offrire alla moltitudine dei giovani d’oggi, al netto di quel ceto che può contare sul benessere consolidato della famiglia, e che tuttavia non lascia ripercussioni gravi sul piano psicologico e morale? Come far fronte alla crescente apatia e/o indifferenza nei confronti del futuro? Dove e come possiamo trovare la leva per uscire da questo tunnel da cui non si intravede la luce? La politica, la società, la nostra disciplina sono in grado di immaginare soluzioni praticabili nei tempi brevi per uscire da una depressione sociale che coinvolge strati crescenti della popolazione, soprattutto quelle più povere?

    Una tendenza abbastanza diffusa è quella di attribuire la colpa a loro, ai NEET, quasi si fossero volutamente cercati da soli i loro guai. In questa luce si può interpretare una famosa battuta dell’economista Tommaso Padoa Schioppa. Quando ricopriva la carica di ministro dell’economia e delle finanze nel secondo governo Prodi (2006), intercettando il fenomeno della inoccupazione / disoccupazione giovanile e sentendosi chiamato in causa per il suo ruolo politico, aveva finito per scaricare sui giovani gran parte della responsabilità della situazione di stallo in cui si trovavano, tacciandoli, senza mezzi termini, di essere dei «bamboccioni». Il ministro intendeva sottolineare che, anziché impegnarsi a cercare lavoro, molti di loro preferissero prolungare la vita al «caldo», in famiglia, coccolati e protetti. È appena il caso di aggiungere che l’ opinione pubblica si schierò in gran parte con questa tesi, quindi attribuendo la colpa, come spesso accade, a chi paga a valle le conseguenze di fenomeni sociali complessi che poco o nulla possono essere invertiti da azioni individuali.

    In verità Padoa Schioppa pretendeva di avanzare un giudizio che andava oltre il senso comune. Da economista qual’era, fondava la sua valutazione su un’analisi meramente economica del mercato del lavoro, centrata sull’equilibrio tra domanda e offerta, considerando il lavoro alla stregua di qualsiasi altra merce. Se la domanda è scarsa, spetta anche all’offerta saperla aumentare, rendendosi più interessante o, più semplicemente, rispondente alle aspettative del mercato.

    Dobbiamo al premio Nobel Robert Solow una lettura diversa, molto più sofisticata e convincente del mercato del lavoro in cui si ritrova anche il ruolo che può svolgere la pedagogia nel novero più generale delle scienze sociali. Il passaggio è importante, perché il riconoscimento di una dimensione pedagogica nel problema del lavoro oggi non proviene dall’interno della pedagogia, ma dall’economia, da una certa economia, che si è liberata dai condizionamenti dell’ autoreferenzialità.

    La complessità del fenomeno in atto rende inadeguati gli schemi teorici astrattamente perfetti, ma concretamente inefficaci. Non bastano più le soluzioni semplicistiche o «manualistiche», per dirla con Solow. Per calarsi all’interno della società serve aprirsi al contributo di saperi altri e complementari.

    Un passo decisivo in questa direzione viene da Thomas Piketty, più volte citato nelle pagine di questo volume. Nella sua ultima opera più importante, l’economista francese ci ricorda come «la disciplina economica non sia mai guarita dalla sindrome infantile della passione per la matematica e per le astrazioni puramente teoriche, sovente molto ideologiche, a scapito della ricerca storica e del raccordo con le altre scienze sociali [...]. In realtà l’economia non avrebbe dovuto mai cercare di scindersi dalle altre discipline delle scienze sociali, perché non può che svilupparsi nel loro ambito» [1] .

    Riassumiamo, non con una risposta, ma con alcuni interrogativi. Perché il tasso di occupazione nel nostro Paese, ma anche in Europa, è così basso? Perché la disoccupazione è così elevata? Perché un numero significativo di giovani non si sente più motivato né allo studio né al lavoro?

    A queste domande cercano di rispondere queste pagine. La riflessione pedagogica sarà articolata in questi quattro punti: panoramica sul mondo del lavoro nelle sue componenti socio-storico-empiriche; analisi delle principali interpretazioni dello squilibrio tra offerta e domanda di lavoro; messa a punto di un’idea del lavoro in connessione con la nostra tradizione economica; definizione del ruolo della pedagogia del lavoro e sua rivalutazione riconoscendole, insieme ai limiti, anche i meriti non sempre adeguatamente considerati.


    [1] T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo (tit. orig. Le capitale au XXI siècle, 2013), Bompiani, Milano 2014, pp. 59-60.

    I. LAVORO E MERCATO DEL LAVORO

    Qual è lo spazio occupato dal lavoro nella nostra vita? Ma, soprattutto, quali sono le prospettive occupazionali per i giovani?

    Oggi le risposte a queste domande sono più problematiche rispetto ad un passato non tanto lontano, e per due ordini di considerazione:

    primo, il concetto di lavoro, a motivo dei cambiamenti subiti nel corso del tempo, richiede una contestualizzazione storica;

    secondo, siamo entrati in una specie di entropia, che a fronte della marea di dati di cui disponiamo, rende complicata la sintesi, pure necessaria.

    La complicazione per altro non è limitata al quantum. Richiede anche un salto di qualità nelle conoscenze, serve un approccio multidisciplinare e nuove metodologie investigative. Il campo di indagine da cui partire è il mercato del lavoro che, col rilevamento quantitativo, ci fornisce un quadro composito e contestualizzato del fenomeno in relazione al momento e al contesto considerati.

    Poiché si tratta di una categoria complessa, di un insieme di concetti tra loro correlati, l’espressione mercato del lavoro andrebbe preceduta dalla messa a fuoco del concetto di dispositivo concettuale del mercato del lavoro.

    Tentiamo di spingerci più addentro, domandandoci: cosa si intende per mercato del lavoro? Questo paradigma rappresenta un riferimento obbligato per ogni ricerca riferita al lavoro? Perché?

    Per mercato del lavoro si intende il luogo di incontro tra opposte ma anche convergenti esigenze: gli standard salariali e i livelli occupazionali. Da una parte, abilità e competenze messe a disposizione come forza lavoro; dall’altra, progetti imprenditoriali che implicano investimenti di capitale, ma che hanno bisogno del lavoro per la loro realizzazione.

    Fig. 1. Struttura essenziale del mercato del lavoro

    La figura 1 mostra gli elementi che entrano in gioco in quel mercato sui generis che è quello del lavoro, definito efficacemente nel testo sesto riportato nel Toolbox 1.

    Toolbox 1 - Il mercato del lavoro

    Il mercato del lavoro è quel contesto ideale all’interno del quale avviene la compravendita di una merce sui generis che è appunto la forza lavoro, la capacità lavorativa. Si tratta di un mercato particolare nel quale la merce trattata non può essere fisicamente separata dal suo proprietario […] implica che la relazione sociale tra le parti non si esaurisca al momento dello scambio [1] .

    L’innovazione principale introdotta dal mercato del lavoro è aver modificato i rapporti lavorativi della società tradizionale da rapporti di fiducia in rapporti contrattuali. Fino a quel momento chi si proponeva per un’attività lavorativa cercava di limitare il rischio di faticare senza alcuna ricompensa, basandosi sulla fiducia che nutriva nei confronti del datore di lavoro. Questa modalità limitava lo spazio di libero movimento del lavoratore sia all’interno dell’ambiente in cui era cresciuto, sia nei confronti di persone che conosceva. Il mercato moderno trasforma il rapporto fiduciario in rapporto contrattuale [2] ed estende il raggio del mercato del lavoro includendo al proprio interno anche persone completamente sconosciute. Tra il lavoratore e il datore di lavoro si stipula un contratto, per il quale il primo è tenuto alla prestazione lavorativa, il secondo alla retribuzione per il lavoro ricevuto. La retribuzione o salario è l’obbligazione principale del datore di lavoro, così come viene spiegato in maniera magistrale da K. Marx nel toolbox 2 che segue.

    Toolbox 2 - Che cos’è il salario

    Se domandate agli operai: «Qual è l’importo del vostro salario?» essi risponderanno, l’uno «ricevo un marco al giorno dal mio padrone», l’altro «Io ricevo due marchi», ecc. Secondo le varie branche di lavoro alle quali appartengono, essi indicheranno diverse somme che ricevono dal loro rispettivo padrone per fare un determinato lavoro, ad esempio, per tessere un braccio di lino, o per comperare un foglio di stampa. Malgrado la diversità delle loro risposte essi concordano tutti su un punto: il salario è la somma di denaro che il padrone paga per un determinato tempo di lavoro o per una determinata prestazione di lavoro [3] .

    Originariamente il mercato era un luogo fisico, pubblico all’interno di una città. Qui venivano posti in vendita beni alimentari e manufatti vari [4] . Per analogia, il termine mercato è stato esteso ed utilizzato per indicare persone che s’incontrano per effettuare operazioni di scambio relative ad ogni tipo di merce. In questo modo sono sorti tanti mercati quante sono le specializzazioni dell’attività economica. Oggi parliamo, ad esempio, di mercato agro-alimentare, mercato del vino, mercato dell’olio, mercato del grano, mercato del petrolio, mercato della casa, mercato dell’auto ecc. È un luogo virtuale, non più fisico, a garantirne l’esistenza; è il canale che mette in comunicazione produttori e venditori. Importante è la costante informazione sull’andamento della comune attività per rendere il mercato «teoricamente perfetto [che è tale] quando i commercianti hanno una perfetta conoscenza delle condizioni dell’offerta e della domanda e del conseguente rapporto di scambio» [5] . Ed è la ragione per la quale «ogni singolo agente tenta di procurarsi la migliore conoscenza che possa aversi delle condizioni dell’offerta e della domanda e procura di essere informato, quanto più sollecitamente è possibile, di qualsiasi mutamento» [6] .

    Potrà sembrare un controsenso, ma il lavoro diventa un’entità materiale quanto più si oggettivizza [7] . Astraendosi dalla persona che lavora si riduce a mero fattore di scambio e di qui prende corpo anche il mercato del lavoro che si afferma proprio, come ha dimostrato Polany, perché cambia il punto di vista sul lavoro. Separato dal lavoratore e dalla società, sradicato dai suoi legami socio-psico-esistenziali, il lavoro viene ridotto a merce, entra nel mercato e si assoggetta alla logica della domanda e dell’offerta [8] .

    Toolbox 3 - Il valore di scambio della forza-lavoro

    Gli operai scambiano la loro merce, la forza-lavoro, con la merce del capitalista, il denaro, e questo scambio si effettua secondo un rapporto determinato. Tanto denaro per tanto tempo di utilizzazione della forza-lavoro. Per tessere dodici ore, due marchi. E i due marchi non rappresentano essi forse tutte le altre merci che posso comperare con due marchi? Di fatto quindi l’operaio ha scambiato una merce, la forza-lavoro, contro altre merci di ogni genere, e secondo un determinato rapporto. Dandogli due marchi, il capitalista gli ha dato in cambio della sua giornata di lavoro, tanto di carne, tanto di abiti, tanto di legna, tanto di luce, ecc. I due marchi esprimono dunque il rapporto con cui la forza lavoro si scambia con altre merci, il valore di scambio della sua forza-lavoro [9] .

    Se è vero che il mercato del lavoro si concretizza in un luogo fisico quando un soggetto propone le proprie prestazioni lavorative ad un’impresa, ciò però non sconfessa il concetto generale di dispositivo concettuale, necessario per analizzare le dinamiche comportamentali lavorative. Siamo in quello spazio virtuale costituito da tanti sottoinsiemi di altri concetti esplicativi legati al tipo di approccio che si intende adottare: economico, statistico, sociologico ecc.

    Il tema del mercato del lavoro, proprio per le sue enormi implicazioni e sollecitazioni pluridisciplinari, ha esercitato un forte richiamo da parte di studiosi di differente provenienza, ma nell’enorme mole di lavori e ricerche si può arrivare ad una sintesi. Che è canalizzabile in due direzioni.

    Vi è una linea classica (da Adam Smith a Karl Marx) che attribuisce al lavoro un mercato sui generis, una sua specificità, sostenendone l’irriducibilità agli altri mercati, per la semplice ragione che il lavoro non è una merce qualunque. Questa posizione trova oggi la sua espressione più convinta nell’opera di Robert Solow [10] , secondo cui il mercato del lavoro è una «vera e propria istituzione sociale» [11] . Dire che esso dipenda essenzialmente da ciò che è ritenuto mutualmente accettabile da entrambe le parti in causa è lapalissiano, ma non basta per rendere conto della complessità di fattori che in modo esplicito o implicito entrano in gioco. Su questa posizione si colloca anche Piketty per il quale, ancor più che per gli altri mercati, quello del lavoro è una «costruzione sociale fatta di regole e di compromessi specifici» [12] , non un’astrazione matematica, dal funzionamento deterministico dovuto a meccanismi naturali e immutabili o da forze tecnologiche ineluttabili.

    A questa linea «esclusivista» del mercato del lavoro si contrappone l’interpretazione neo-classica che fa capo alla scuola cosiddetta marginalista [13] in cui l’attributo indica l’utilità, appunto marginale, nell’equilibrio che si determina tra domanda ed offerta all’interno dell’ istituzione economica. In questa prospettiva il mercato del lavoro è «un contesto ideale all’interno del quale avviene la compravendita di una merce sui generis che è appunto la forza lavoro, la capacità lavorativa» [14] . Quindi tutti i mercati si equivalgono, è merce tutto ciò che si scambia, si tratti di uomini o di cose.

    Al di là della contrapposizione tra classici e neoclassici (no, il mercato del lavoro non è come tutti gli altri; sì, il mercato del lavoro è come tutti gli altri) preme sottolineare la convergenza in entrambe le posizioni sui meccanismi regolativi che sono alla base del mercato, vale a dire il gioco della domanda e dell’offerta [15] , il modello più semplice per esaminare gran parte della situazione lavorativa in un determinato momento.

    Le imprese domandano lavoro. La domanda di lavoro (D L) indica quanti lavoratori le imprese vogliono assumere al salario di mercato (W). Più alto è il salario meno le imprese desiderano assumere. In tal modo la D L viene considerata una funzione decrescente del salario.

    I lavoratori offrono lavoro. L’offerta di lavoro (O L) informa su quanti si propongono per lavorare al salario di mercato. Più alto è il salario, più aumenta il numero degli individui che vogliono lavorare, così come le ore che ciascun individuo vuol lavorare. O L è, in tal modo, una funzione crescente del salario.

    Figura 1. Dinamiche del mercato del lavoro in rapporto al salario

    Le dinamiche tra domanda e offerta di lavoro in rapporto al salario costituiscono il cuore del mercato del lavoro, ma non sono tutto. La variabile è rappresentata da quanti, a titolo diverso, interagiscono con il gioco della domanda e dell’offerta e che rientrano in ben definite categorie. Identificate a livello nazionale e internazionale attraverso l’uso di glossari e classificazioni comuni, esse agevolano la comparabilità delle informazioni statistiche provenienti da organismi diversi [16] .

    La prima categoria in cui ci si imbatte è la qualifica di attiva riferita alla popolazione e dà vita all’opposizione tra popolazione attiva e popolazione non attiva. Con le due espressioni si intendono la presenza, in un determinato momento, rispettivamente di forze di lavoro esistenti e forze di non lavoro. Nel primo caso la popolazione attiva nel mercato del lavoro è composta sia da coloro che sono occupati che da coloro che non hanno un’occupazione o la stanno cercando. In sintesi, la popolazione attiva comprende tanto gli occupati che i disoccupati a partire dalla fine dell’obbligo scolastico: limite anagrafico considerato inferiore, mentre il limite anagrafico superiore è rappresentato dall’età pensionabile.

    Nella seconda fattispecie rientrano ovviamente tutti coloro che hanno un’età inferiore ai 15 anni (minori) e superiore ai 65 (anziani), ma anche gli over 15 e gli under 64, non occupati né in cerca di occupazione, denominati NEET. Sono compresi anche coloro che dichiarano di essere in condizione non professionale (casalinga, studente, il ritirato dal lavoro); inoltre gli inabili, i militari di leva o in servizio civile sostitutivo.

    Se si vuole avere un quadro attendibile del benessere di un paese bisogna individuare i tassi di attività e inattività, di occupazione e disoccupazione, e questo spiega l’importanza di queste rilevazioni a livello politico e macro-economico.

    Come segnalato dalla figura 3, gli indicatori del mercato del lavoro sono:

    Il tasso di attività, dato dal numero di persone disponibili al lavoro, formato da chi effettivamente lavora e da chi cerca lavoro tra la popolazione dai 15 ai 64 anni.

    Il tasso di occupazione: misura l’occupazione effettiva nella popolazione in età lavorativa, nonché la distribuzione dei redditi da lavoro nella popolazione e il numero di persone a carico di ogni lavoratore occupato.

    Il tasso di disoccupazione: segnala la mancanza di lavoro tra coloro che sono disponibili a lavorare.

    Il tasso di inattività: misura l’entità del fenomeno NEET.

    Tabella

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