Il collezionista di sogni
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Fantasy - romanzo breve (64 pagine) - Nel grande gioco di specchi in cui Cielo e Terra si confondono, chi ha più bisogno di chi: gli uomini o gli dèi?
L'impero romano è in decadenza. Alemanni, Burgundi, Franchi Svevi e Vandali razziano i territori di frontiera. La capitale si è spostata da poco da Milano a Ravenna. Sul trono d'Occidente siede Onorio. Ormai in tutto l'Impero i cristiani sono una maggioranza incolta, intransigente e rissosa, ma a Roma non mancano magistrati onesti e capaci. Uno dei più brillanti e temuti è Caio Celso, seguace del dio Mithra e profondo conoscitore del pensiero di Seneca.
Caio Celso discende da Veltumnus Celsus, augure e indovino condotto a Roma in catene durante l'ultima guerra Sannitica. Nelle sue indagini lo affianca il giovane tresvir Alipio, che è anche io narrante di questa vicenda.
Tutto ha inizio il giorno in cui Timocleide di Difilo, il navarca di Miseno che ha restituito disciplina ed efficienza alla flotta romana ripulendo il mare dai pirati, si presenta terrorizzato dall'amico Caio Celso chiedendo il suo aiuto.
Rientrando a Miseno con la flotta, Timocleide si è imbattuto in una strana nave alla deriva, senza equipaggio e con un carico inquietante. Da quel momento è stato coinvolto in eventi inspiegabili e cupi. Ora teme per se stesso e per la bellissima moglie Lollia Saturnina che lo attende nella villa di Miseno. Caio Celso e Alipio, sebbene scettici circa il racconto del navarca, acconsentono ad accompagnarlo a Miseno. Finiranno per scoprire che nel grande gioco della vita a volte mortali e immortali s'incontrano e che ciò che accade in quei momenti è al di là di ogni immaginazione.
Luigi De Pascalis ha pubblicato numerosi racconti di genere fantastico su riviste, quotidiani e antologie. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati in Francia, Germania e Stati Uniti. Ha vinto per due volte il Premio Tolkien per la letteratura fantastica ed è stato finalista al Premio Camaiore di Letteratura Gialla. Con il romanzo La pazzia di Dio è stato finalista al Premio Acqui Storia. Con Notturno bizantino, la lunga fine di un impero, è stato candidato al Premio Strega 2016 e nello stesso anno ha vinto il Premio Acqui per il romanzo storico.
Di recente ha pubblicato per Newton & Compton Il sigillo di Caravaggio (2019) sulla vita avventurosa di Michelangelo Merisi da Caravaggio, e Il pittore maledetto (2020), sugli ultimi anni di Francisco Goya.
Al magistrato romano Caio Flaviano Celso ha dedicato tre romanzi: Rosso Velabro, Il signore delle furie danzanti, La dodicesima sibilla e alcuni racconti lunghi fra cui Il collezionista di sogni. I racconti e Rosso Velabro vedono l'integerrimo magistrato alle prese con eventi fantastici. Gli altri due romanzi sono veri e propri gialli storici che saranno ripubblicati a breve da La Lepre Edizioni.
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Book preview
Il collezionista di sogni - Luigi De Pascalis
Edizioni.
Prefazione
Spesso i miei romanzi e racconti nascono da una situazione storica particolarmente stimolante o da un personaggio che mi invita ad ascoltarlo. Ma, avendo già pubblicato un paio di libri con Caio Celso e Alipio, il loro mondo e le loro relazioni erano per me consolidati. Forse è per questo che ciò che mi ha spinto a scrivere Il collezionista di sogni
non è stato un personaggio ma un luogo – una grande villa romana nei pressi del Vesuvio ricostruita con minuzia dal disegnatore Francesco Comi per Bell'Italia. Una villa immensa e magnifica con un porto interno e un faro, edificata su un promontorio e con le sale di rappresentanza fuori asse rispetto al resto per permettere ai suoi proprietari di ammirare dai triclini il Vesuvio fumante sul mare.
Da quel momento ho cominciato a immaginarne il proprietario, il navarca Timocleide. Poi ho cvisto Caio Celso e Alipio che si muovevano fra quelle mura come sulla scena di un teatro tragico classico. E a quel punto la storia era lì. Dunque c'è molta fantasia, in essa, ma il luogo… Ah, quello è puntigliosamente raccontato così come Francesco Comi l'ha ricostruito.
Il collezionista di sogni
Tutta la natura è un’ombra o vana o ingannevole.
Seneca, Lettere a Lucilio, XI-XIII, 88, 46
1
Il mondo in cui nacqui settantatré anni fa si sta sbriciolando. Anzi no, si decompone come un corpus mortui medicatum uscito dalla bottega di un imbalsamatore insipiente e disonesto. È già la terza estate consecutiva che Alarico si accampa con le sue orde alle porte di Roma e ne sono passate due da quando il generale Stilicone, l’unico che avrebbe potuto fermarlo, è divenuto ombra dell’Ade.
Durante questo tempo la sola iniziativa dell’imperatore è stata quella di trasferire la corte da Milano a Ravenna, città dove ritiene di essere più al sicuro.
Poco importa che Alemanni, Burgundi, Franchi, Svevi e Vandali abbiano ridotto l’impero ad un immondezzaio sanguinolento e maleodorante: Onorio si preoccupa solo di Onorio.
Nel corso dei miei anni ho visto dolori e prodigi, ardori e battaglie ed ho provato ogni cosa buona o cattiva che possa riempire il cuore di un uomo. Tuttavia, neanche nei momenti peggiori ho immaginato quest’immane disfatta.
La Roma che conosco sta per morire ed io con lei. Ma non importa: non desidero sopravvivere al mio mondo.
La sola cosa che ancora voglio è che non finisca con me l’eco delle gesta dell’uomo a cui devo la passata agiatezza, il cursus honorum, l’esperienza e persino il nome.
Quest’uomo si chiamava Caio Flaviano Celso e scomparve da filosofo, carico d’anni e nauseato dalla vita, nello stesso anno in cui morì Teodosio e l’impero fu smembrato fra i suoi due figli. Arcadio ebbe l’Oriente, Onorio lo scettro d’Occidente.
Era l’inizio della fine, ma nessuno l’immaginava.
Neppure io.
A chi leggerà queste pagine, se mai ci sarà, dico ora il mio nome. Mi chiamo Alipio e, pur non avendone il sangue, sono l’ultimo della gens Celsia. La domus degli avi non esiste più da molti anni. È stata inghiottita dal fuoco di uno degli innumerevoli incendi che hanno devastato l’Urbe. Il suo posto – degno segno dei tempi – l’hanno preso decine di baracche fatiscenti sorte a ridosso dei pochi muri superstiti, sbrecciati e neri di fumo.
A quell’epoca, per fortuna, Caio Celso aveva già raggiunto la sua stella, al cospetto di Mithra, e non vide i suoi Lari distrutti dalle fiamme. Quanto a me, confesso che non mi costò molto trasferirmi nella modesta, chiassosa e maleodorante insula nella quale ero nato ed in cui abito ancora. Fu un trasloco facile. Possedevo solo gli abiti che avevo addosso e due cose di gran valore ma di poco ingombro: un nome rispettato, quello dei Celsi, e la carica di questore urbano. Inoltre non ero più giovane, ero solo e non avevo molte necessità.
Per anni sono andato avanti senza fatica, come in un sogno indolente. Né mai ho sentito il bisogno di sedermi a ricordare, scrivendo. La memoria costa pena e, per quanto diligentemente vergata, reca con sé una traccia di rimpianto che non conduce a nulla.
Ma ora che Alarico è alle porte, sento con forza il dovere di fermare i ricordi.
Lo sento per te, Caio Flaviano Celso.
Tuttavia, siccome non ho discendenti a cui lasciare questa fragile eredità, dovrò affidarla a Didimo, l’unico schiavo che mi è rimasto. È giovane e robusto, spero che sopravviva ad Alarico e che mi resti fedele anche quando sarò nell’Ade. Ha il compito di consegnare la mia testimonianza in mani idonee per la cui scelta non posso fare altro che affidarmi al suo incerto ma onesto giudizio.
E da te, Mithra, dio del Patto e della Luce, per quanto mi ritenga indegno della tua considerazione, mi attendo ugualmente un miracolo: dammi il tempo di terminare questo scritto, facendo sì che le mura di Aureliano fermino per qualche altro giorno il re goto e le sue bande affamate!
Con nostalgia e sollievo la mia mente abbandona ora l’amaro presente e torna ai tempi gloriosi di Giuliano, prima che i cristiani ottenessero dall’impero perfino più di quanto i loro cuori fanatici osassero sperare.
Non avevo più di ventidue anni, allora, e Caio Celso, pur avendomi allevato, non mi aveva ancora adottato. Io ero un tresvir addetto all’ordine pubblico e lui l’aedilis responsabile dello stesso in tutta l’Urbe. La sua domus era ben gestita dall’anziano liberto Vitale e da sua moglie Arbuscula. La bella Livia, amata compagna del dominus più che schiava e concubina, allietava di canti e suoni le semplici cene a cui raramente mancavo.
In pochi anni Caio Celso aveva reso le vie ed i vichi di Roma più sicuri e protetti della Casa delle Vestali. Era integro, saldo, temuto nei trivi come al Porto Fluviale, nel Foro come in Senato.
Getulio Attico, il prefetto di allora, e Sestio Rufo, il plenipotenziario imperiale, lo sostenevano. Non c’era malfattore che non temesse il suo nome, né delitto di cui non venisse a capo.
E tuttavia non era questo a rendere mio padre – mi è dolce, oggi, chiamarlo così – uno dei più temuti cittadini dell’Urbe. Era qualcosa che aveva a che fare con un potere sconosciuto a cui imparò ad attingere solo negli anni della maturità.
Forse c’era in lui