La vita involontaria
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«Mia madre morì alla mia nascita. Mio padre in guerra, quando avevo circa undici anni. Fui allevato da una zia che si dimostrò molto buona con me. Poi morì anche lei e, con l’incoraggiamento di un amico assai colto e intelligente, venni a Vallona per studiare filosofia.» Può davvero, la vita, ridursi a un elenco di eventi che determinano chi siamo in maniera irreversibile e del tutto involontaria? È questa l’incessante, sottesa domanda che spinge il giovane Pintus a lasciare il mare e i “Tetti Rossi” di Oblenz per avventurarsi in una città di estranei, di desideri incerti e fuorvianti, rassicurante nella sua magnanima indifferenza. Il prezzo da pagare sarà la distruzione di tutto quanto c’era prima: affetti, illusioni, ricordi, amicizie, tutto cancellato da una necessità assoluta di autodeterminazione, di riconoscersi tra le pieghe della volontà altrui e le diversioni arbitrarie del Caso.
Pubblicato da Einaudi nel 1975, La vita involontaria si pone nel solco della migliore letteratura mitteleuropea per atmosfere, sensibilità e intenzione.
Brianna Carafa rappresenta, attraverso la dissacrante e travagliata esperienza del suo giovane eroe, la perpetua lotta faustiana dell’individuo per essere autentico al di sopra di ogni legame, debolezza e convenzione sociale.
Prefazione di Ilaria Gaspari.
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La vita involontaria - Brianna Carafa
Biblioteca
8
Brianna Carafa
La vita involontaria
Titolo: La vita involontaria (1975)
Autore: Brianna Carafa
Progetto grafico di Cristina Barone
Illustrazione di copertina di Carla Indipendente
ISBN: 9788899729332
Prima edizione: luglio 2020
Pubblicato secondo accordi presi con Fiammetta Carena
© 2019 Cliquot edizioni srl – Roma
www.cliquot.it
cliquot@cliquot.it
Prefazione
Non siamo abituati, oggi, a iniziare un romanzo alla cieca, senza sapere nulla o quasi del suo autore – senza aver visto i lineamenti del suo viso in un ritratto o in una fotografia, senza conoscere, almeno per linee essenziali, lo svolgersi della sua biografia: date, luoghi, nomi. Così, quando, quasi a tentoni, sapendo pochissimo di Brianna Carafa, mi sono avventurata nella lettura de La vita involontaria, non potevo immaginare la doppia rivelazione che mi aspettava.
La vita involontaria è un titolo bellissimo; e questo è uno di quei casi in cui un bellissimo titolo, nel volgere delle pagine, poco a poco si schiude, come un’ostrica che ci lascia vedere la perla, e la perla è un romanzo che non tradisce le promesse. Un libro di un’eleganza svagata e profonda, che nel suo titolo, in un certo senso, ha anche incontrato un destino: l’esordio di Brianna Carafa, che nel 1975 fu nella cinquina dei finalisti al Premio Strega, è scivolato con indolenza nel buio riservato, purtroppo, a troppe scrittrici italiane del Novecento; eppure ha continuato a vivere una sua vita umbratile e segreta, che ci permette di riscoprirlo oggi come se fosse nuovo di zecca, un piccolo gioiello in uno scrigno che da decenni nessuno ha più aperto. Del resto, è proprio questo che capita quando un bel libro viene ripescato dalla corrente che l’avrebbe portato ad arenarsi magari su qualche bancarella di mercatino, inestimabile e sconosciuto in mezzo a chissà quante altre voci fuori catalogo, perdute per trascuratezza.
La prima rivelazione è quella della potenza del testo, nuda e cruda, priva della consueta rassicurazione offerta dalla silhouette di un autore in qualche modo immaginabile, familiare: le prime pagine ci sbalzano in un mondo stilizzato ed evocativo, incantevole senza vezzi leziosi, proprio come i piccoli disegni che a Brianna Carafa piaceva tracciare a china sui foglietti volatili che mi mostrerà Fiammetta, sua figlia, quando, dopo aver letto il romanzo, la incontro in un appartamento pieno della luce di Roma, nello stesso palazzo in cui sua madre ha vissuto per molti anni.
D’altro canto, la lettura rivela anche l’ingiustizia del silenzio che ha inghiottito il nome e il lavoro di Carafa. Nella casa luminosa dietro piazza del Popolo, una sera dell’estate del ’75, Brianna Carafa si era preparata per andare, da finalista, alla serata di proclamazione del vincitore del più prestigioso premio letterario italiano; avrebbe poi vinto Tommaso Landolfi, con il suo A caso, ma la cinquina era comunque un riconoscimento importante. Il romanzo fu ben recensito sul Corriere
; ottenne parole di elogio da Claudio Magris, che scrisse che ricordava i grandi e grigi libri della migliore narrativa mitteleuropea
, e aveva proprio ragione. Eppure, oggi cosa resta? Note biografiche troppo scarne per una vita così fuori dal comune: Brianna Carafa, nata a Napoli nel 1924, rimasta presto orfana della madre, Fiammetta, precipitata mentre pilotava un aereo sportivo sul golfo di Napoli, si allontanò ragazzina dalla casa del padre, il duca Antonio Carafa d’Andria, traduttore di Goethe dal tedesco, a sua volta figlio di Enrichetta – traduttrice di Tolstoj – per andare a vivere a Roma, dalla nonna materna, che doveva essere, anche lei, una donna piuttosto eccezionale: Marianne Frankenstein Soderini, di origine polacca, fu una battagliera propugnatrice del suffragio femminile, come testimonia il suo pamphlet del 1906, Il voto politico alla donna.
Brianna, dopo aver intrapreso studi di architettura, si avvicinò alla psicologia, e divenne in effetti psicanalista: ma negli anni si dedicò anche alla scrittura, pubblicando una deliziosa raccolta di poesie nel 1957 per l’editore romano Carucci, e lavorando, insieme allo psicanalista Mario Trevi, al fotografo Paolo Di Paolo e a molti altri, alla redazione di una raffinatissima rivista di poesia e fotografia, Montaggio
, nei primi anni Cinquanta. Di questa vita così singolare, oggi, rimangono solo testimonianze rarefatte; rimane anche, a cercare bene, un articolo commovente di Antonio Porta, sul Corriere della Sera
del 14 maggio ’78, a proposito del secondo e ultimo libro di Brianna, Il ponte nel deserto, che ho avuto la fortuna di poter leggere nella vecchia edizione Einaudi ormai introvabile, ma che forse sarà recuperato, un giorno, proprio come La vita involontaria: storia raffinata e dolorosa di una beffa autodistruttiva, che – sempre per beffa, ma del destino – uscì postumo. Carafa, mancata nel marzo 1978 – doveva ancora compiere 54 anni – per una manciata di ore non poté vedere stampato il suo secondo romanzo, e non poté nemmeno leggere questo articolo acuto e accorato. Una perdita grave, quella di Brianna Carafa, ma la sua eredità è destinata a dare frutti, da subito, in tutti i suoi nuovi lettori
scriveva Porta. Purtroppo, negli anni quell’augurio non si è esaudito, si è anzi disperso nel pressapochismo di una memoria pigra – molto più con le scrittrici, direi, che con gli scrittori.
La vita involontaria era stato pubblicato da Einaudi con uno strillo di Calvino in quarta di copertina: È un libro di qualità: qualità narrative perché certo ‘succede qualcosa’ e qualità di scrittura, così chiara e ferma
. È vero che la scrittura di Carafa è chiara e ferma, ma è anche molto di più: è una scrittura profonda, e appassionata senza mai essere svenevole; sorvegliata, tesa, colta ma non manierata. È la prosa di una donna intelligente, di una scrittrice con una comprensione chiarissima, addirittura dolorosamente chiara, del peso della condizione umana, del prezzo che tocca pagare alla solitudine, del richiamo ammaliante del carisma e della follia.
Paolo Pintus, il protagonista del romanzo, cresce orfano in un’immaginaria città tedesca – che si chiama Oblenz: un calco forse da Koblenz, placida cittadina alla confluenza fra il Reno e la Mosella, ma un calco incompiuto, dal suono dolce, che richiama i fonemi di parole amorevolmente smemorate, della costellazione della dimenticanza: oblio, obsolescenza. Oblenz è una città polverosa, una città di mare in cui però la presenza del mare si indovina solo per presagi sinistri, per i venti capricciosi e il suono sordo e moltiplicato dagli echi delle sirene
– sirene del porto, si capisce; ma Carafa lascia sospesa la precisazione, e così ci permette di lasciarci andare a immaginare che parli proprio di donne con code di pesce, ammaliatrici nascoste e misteriose, che intravediamo appena fra le righe della sua prosa cristallina. E in effetti, un incantesimo pesa su Paolo bambino: è l’attrazione incomprensibile e fortissima che esercita su di lui, sulle sue fantasticherie, l’ombra di un luogo che tutti chiamano per vaghe allusioni i Tetti Rossi
, con pudore e rispetto e forse con paura, abbreviando per sineddoche l’impressione delle tegole che, oltre un lungo muro, risaltano nel verde della collina. Capiamo presto che si tratta di un ospedale psichiatrico; ma è, soprattutto, un luogo del non-detto, un luogo proibito che segna il confine dell’ineffabile. Nella villa ombrosa in cui Paolo vive nessuno gli dice niente, se non una vecchia governante, Maria, che lui ama con tenerezza; pesa sulle stanze un silenzio omertoso, di rimozioni e di vergogne, il cui correlativo oggettivo sono proprio i Tetti Rossi, l’ospedale nascosto che imprime il suo marchio nel destino di Paolo Pintus, anche se l’esito di questa presenza nella sua vita si rivelerà inaspettato. Seguendo la voce straordinariamente ferma, sobria, matura e insieme tenera di un narratore ragazzo che diventa uomo nelle pagine del libro, ci si addentra in un perfetto Bildungsroman: il romanzo di una formazione, scritto in un tono straordinariamente mitteleuropeo pur senza voler scimmiottare Musil o Zweig; non si sente nessun desiderio di emulare chicchessia, si sente però una confidenza profonda, affettuosa, sentimentale e mai velleitaria, con luoghi e personaggi sospesi fra la Germania e l’Austria di primo Novecento, con cittadine che potrebbero essere raccontate da Heinrich Mann, con studenti che somigliano ai compagni del giovane Törless, ma solo per una dolce aria di famiglia.
È una voce di giovane uomo a guidarci attraverso le vicende della formazione di Pintus: studente svagato di filosofia – più per compiacere un desiderio altrui che per urgenza sua – a pensione da una vecchia signora; innamorato respinto, sprezzante quando amato; poi, dopo una crisi esistenziale, iniziato alla pratica della psicoanalisi attraverso un’inquietante trama di manipolazioni, subite ed esercitate con sottile crudeltà, che rivelano in Carafa uno sguardo acuto, libero, per niente ideologico, sui rischi della sua stessa professione. Ma questa voce esce dalla penna di una donna che con perfetta consapevolezza intesse un raffinato gioco di ambivalenze, nel raccontare fascinazioni e repulsioni, nell’esplorare, con la maschera di crudele noncuranza di un giovanotto poco sicuro di sé, gli abbandoni delle sue amanti, l’oscurità di attrazioni adolescenziali a cui si ha il terrore di dover dare un nome, verso amici vanesi e inconsistenti: come se l’Orlando di Virginia Woolf avesse prestato la sua voce androgina a raccontare i turbamenti di un adolescente inventato da Musil.
La sorpresa di leggere La vita involontaria è stata grande: la scrittrice di cui non c’era modo di sapere quasi nulla, dalla prosa ipnotica, limpida e così classica, ci viene incontro come una vecchia, nuovissima amica; come quelle amiche che incontri per caso e ti sembra di conoscere da molto tempo, anche se non è vero. Ma gli echi delle voci delle sirene, qualche volta, riescono a farci incontrare anche attraverso insondabili distanze, a farci riconoscere nella nebbia.
Quando Fiammetta, la figlia di Brianna che si chiama come sua madre, nella sua casa piena di luce mi lascia sfogliare i suoi disegni e le sue poesie, nel piccolo volume del ’57 ne trovo una che mi commuove, pensando alla voce che da quel miele, quasi vent’anni dopo, lei stessa avrebbe distillato, e rinchiuso in questo libro che ha rischiato di finire perduto:
Io vi chiedo perdono se le vostre voci
Mi giungono
Come in dormiveglia di treno, la notte,
o durante la febbre.
Ma un’ape ho nell’orecchio, che ronza
e vi depone miele.
Ilaria Gaspari
Brianna Carafa
La vita involontaria
A Roberto,
mio amico d’infanzia
Parte prima
I Tetti Rossi
Mi ricordo a Oblenz, mia città natale, una strada polverosa, chiusa da un lato da piccole costruzioni con le insegne dipinte sulle porte e pompe di benzina. Dietro, c’era una collina brulla battuta dai venti capricciosi del mare. Che il mare ci fosse, s’indovinava dal suono sordo e moltiplicato dagli echi delle sirene che, di tanto in tanto, alto come una torre, sovrastava il brusio delle macchine e i gridi dei ragazzi. Ma dall’altra parte della strada si ergeva un muro lunghissimo e impenetrabile sulla cui sommità traboccavano, miracolosamente scure e fitte, le fronde di un giardino. Pareva un baluardo, un’isola, un pezzo di paesaggio straniero che la città avesse dimenticato o che dalla città vivesse orgogliosamente avulso. C’era sì, un cancello nel muro, ma una lamiera ne chiudeva le sbarre, cosicché nessuno sguardo poteva avventurarsi all’interno del recinto. Tuttavia i passanti non mostravano alcuna curiosità al riguardo e, anzi, quasi acceleravano il passo, come se un nefasto, sottile contagio potesse piovere loro addosso dalle foglie degli alberi o levarsi dal disegno delle ombre sul marciapiede assolato. Dalla collina si vedevano spuntare qua e là le tegole in tutto quel verde e perciò il luogo si chiamava i Tetti Rossi
. Solo così: i Tetti Rossi
pronunciato non so se con pudore, o rispetto, o paura.
Ne avevo sentito parlare appena, di sfuggita: È andato a finire ai ‘Tetti Rossi’
e sapevo