Finché Coronavirus non ci separi
By Franco Sorba
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Il giovane Ivan Moretta ripercorre gli eventi in cui la sua famiglia allargata è stata coinvolta immediatamente dopo che il governo ha istituito le zone rosse per contenere l’espansione del virus.
È la notte del sette marzo 2020. Mentre sta rientrando a tarda notte verso Pralormo, intenzionato a passare dalla fidanzata Alena, che abita a Cellarengo d’Asti in linea d’aria a pochi chilometri da casa sua ma in una provincia diversa, è fermato dalle forze dell’ordine e informato che la zona di Asti è chiusa. I due, decisi a incontrarsi comunque, decidono di tagliare per il bosco, dandosi appuntamento presso la Cascina di Pian San Pè, di proprietà della famiglia di Ivan. Una decisione che segnerà le loro vite e quella dei loro congiunti.
Lungo il percorso, infatti, Ivan rinverrà il corpo del secondo marito della madre, corpo che il presunto assassino farà sparire di lì a poco, scatenando ipotesi e sospetti. Intanto, nella casa di Pralormo, la madre di Ivan si ammala e scatta subito l’allarme Coronavirus. Confinati tra quattro mura, undici persone dovranno fare i conti non solo con la paura del virus ma soprattutto con i propri demoni.
Con grande finezza, Franco Sorba esplora il tema delle relazioni interpersonali, rivelando la vulnerabilità e le contraddizioni che covano sotto la cenere in ogni famiglia.
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Finché Coronavirus non ci separi - Franco Sorba
Epilogo
1
La sera del sette marzo Duemilaventi sarà ricordata da molte persone con apprensione. Chi potrà ricordarlo, naturalmente.
È particolarmente strano lo stato di inquietudine, più o meno irragionevole che si prova di fronte a un evento inatteso inizialmente sottovalutato forse anche per la lontana origine di provenienza.
A ven da la Cina qula roba lì. Ariva nen ambele sì.
Viene dalla Cina quella cosa. Non arriva qua.
Decretava con sicurezza assoluta, grazie alla sua navigata esperienza nonno Tonin. Negli ultimi anni si era ingobbito e magari non riusciva più ad avere una visione aerea globale del mondo o più probabilmente le sue terminazioni nervose col tempo si erano appannate.
Ma è solo un’influenza. Quante storie…
affermava mio padre prima di andare al lavoro, non più tardi di una quindicina di giorni fa.
Dopo il sette marzo ci siamo resi conto che il Covid-19, noto anche come Coronavirus, è più pericoloso del previsto e, ahimè, l’umanità intera potrebbe essere messa a rischio se il virus incorresse in mutazioni.
Una malattia sconosciuta, dunque, ci ha raggiunti, non sappiamo quasi nulla di lei, non conosciamo i meccanismi con cui ci aggredisce, né come si sviluppa dentro i nostri corpi e neppure in che modo si estingue o pone fine alle nostre esistenze. Bella situazione non c’è che dire.
In comune con la peste nera del Milletrecento ha solo il mistero della sua diffusione. Allora non si immaginava che il contagio avesse origine dai topi tramite le loro pulci, vere portatrici della pandemia, che trasferendosi sul corpo degli esseri umani pungendo la trasmettevano. Ovviamente la gran parte della popolazione viveva in condizioni igieniche spaventose e nelle abitazioni si conviveva con i topi e i loro escrementi. Fa impressione pensare a queste cose oggi, ma un tempo era la normalità,
asseriva sempre mio padre, laureato in gioventù in materie letterarie e anche insegnante di italiano e storia nelle scuole medie per alcuni anni, prima di lavorare nelle assicurazioni.
Mia madre Gemma Castoldi non viveva più con noi. Una quindicina di anni fa si era legata a un maresciallo della Guardia di Finanza che aveva notato in lei l’avvenenza propria delle quarantenni, ma che regolarmente sfuggiva a mio padre troppo occupato nel suo lavoro. Si erano conosciuti mentre portavano i figli a scuola a Poirino. Ovviamente i figli di mia madre eravamo noi: io, Ivan Moretta, e mia sorella Sara. Anche il maresciallo Tommaso Azzariti aveva due figli. Tiziana veniva nella mia scuola, mentre Tiziano frequentava la stessa materna di Sara. Una casualità davvero straordinaria. Il Maresciallone, così lo chiamavo io perché era fisicamente voluminoso, talvolta era in ritardo perché lavorava a Carmagnola. In quel caso mia madre si prendeva l’incarico di tenerci tutti e quattro in attesa del suo arrivo. Fu così fino a quando ci disse, esattamente l’ultimo giorno dell’anno scolastico, di essere stato trasferito in un’altra città. Quando cominciai la quarta i suoi due figli non erano più in classe con noi.
Ma lo ricordo ancora adesso quando veniva a recuperare le sue creature da noi. Si toglieva sempre il cappello da militare, mostrando i suoi radi capelli grigi e il cerchio sulla fronte che causava il berretto troppo stretto. La mamma gli preparava il caffè, Tommaso Azzariti lo gustava profondamente, seduto al tavolo della cucina e non smetteva di fare i complimenti alla mamma.
Io non ho mai visto una famiglia come la sua. E lei Gemma... segue così bene i figli che invidio suo marito.
Ma non dica queste cose Tommaso…
Arrossiva mia madre e non capivo il perché.
Lo invidio anche per altro… perché lei è una ragazza davvero meravigliosa.
Ragazza… ma per favore maresciallo, alla mia età.
Fossero tutte belle come lei le mamme… noi papà avremmo sempre il torcicollo.
Non comprendevo perché doveva avere male al collo se mia mamma era bella… Come non capii per quale motivo, in quell’estate, la mamma cominciò a frequentare assiduamente la chiesa di Poirino e le riunioni serali che la parrocchia organizzava. Per me era più importante che la mamma ci aiutasse nei compiti, sempre molto difficili. Anche il papà la pensava come me.
Noi abitavamo a Pralormo, un paese cinque chilometri dopo Poirino, molto più piccolo, ma con una bella chiesa e un ottimo parroco, don Igino Ferramonti. Ma a Poirino abitava il Maresciallone e il fatto avrebbe dovuto insospettire mio padre. Ma lui niente, preso com’era dai conteggi delle polizze, pareva non vedere altro. Fino a che…
Fino al giorno in cui la nonna Rosa, moglie del nonno Tonin, si sentì male. Mio padre e il nonno seguirono l’ambulanza che li portò all’ospedale di Carmagnola, comune più grande, dove, tra l’altro, c’era l’agenzia di assicurazioni di famiglia.
Nonno Tonin si fermò in ospedale, mentre mio padre andò a recuperare la mamma a Poirino, impegnata in una riunione della Caritas. Ma trovò la porta della chiesa sbarrata e l’adiacente aula degli incontri chiusa e priva di illuminazione.
Ma dov’è Gemma? si chiese.
Girò per le vie di Poirino, deserte alle dieci di sera. Vide infine l’auto celeste della moglie. Era parcheggiata sotto un viale alberato. Chiamò il numero di telefono della mamma, ma era staccato. Attese. Non molto, ci raccontò anni dopo. Gemma uscì dal portone ravviandosi i capelli. Dietro di lei il Maresciallone l’accompagnava tenendole la mano. Mio padre uscì dall’auto e si parò di fronte ai due amanti.
E allora?
disse guardandoli negli occhi.
Domani vengo a prendere le mie cose,
disse Gemma Castoldi, mia madre, poi si voltò e tornò indietro con il Maresciallone.
Cosa era successo? La moglie di Tommaso Azzariti lo aveva lasciato per un altro uomo e il Maresciallone, rimasto solo, aveva trovato conforto nelle braccia di nostra madre. Molto semplice, anche se un tempo non era così frequente come oggi.
Che fece mio padre? Niente. Rimase da solo. Per prima cosa si dovette occupare del funerale della nonna Rosa, che dall’ospedale di Carmagnola viva non tornò.
Mi ricordo di quel periodo, faceva caldo perché era estate, ma l’aria in casa era gelida e solida, si poteva tagliare con un coltello affilato.
In autunno, coi primi freddi, mio padre Gabriele Moretta e sua moglie Gemma Castoldi si accordarono per la separazione e il successivo divorzio. Niente alimenti, anche perché mia madre gestiva con alcune cugine una tabaccheria a Villanova d’Asti, non più distante di dieci minuti di auto da Poirino, che era un’attività ben redditizia. Fu sui figli che scatenarono la loro fantasia.
Ci divisero. Io