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L'indicibile inverno: Una storia bipolare
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L'indicibile inverno: Una storia bipolare
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L'indicibile inverno: Una storia bipolare

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“L’indicibile inverno – Una storia bipolare” della scrittrice italo-svizzera Benedicta Froelich è la straordinaria storia di Apsley Cherry-Garrard, membro della spedizione “Terra Nova” in Antartide, scelto da Robert Falcon Scott nel 1910 per il ruolo di assistente biologo. A Cherry-Garrard toccò la sorte di essere l’unico superstite di quell’impresa nel corso della quale il Capitano Scott, nella marcia di rientro al campo base, perse la vita insieme ai membri della spedizione, tanto che, affetto com’era da sindrome “bipolare” o, se vogliamo, depressiva, per essere appunto sopravvissuto alla spedizione, si trovò in seguito afflitto da un disagio psichico talmente forte e prevaricante da perseguitarlo per tutta la vita, fino a scatenare in lui addirittura il grave attacco di catatonia dei suoi anni maturi.
Nel romanzo, il compito di scriverne la storia Benedicta Froelich lo affida a Frida, una ragazza a sua volta affetta da sindrome bipolare, mettendo così a contatto il suo malessere con quello di Cherry-Garrard, dando vita a una sorta di testimonianza della sua empatia e solidarietà nei confronti di quell’uomo. Ciò le consentirà di essere così ricettiva verso il suo dramma da raccontarlo specchiandosi in lui e, a sua volta, introiettando il personaggio dentro di sé, così trovando la propria salvezza e liberazione.
Il risultato è un’opera che, attraverso una scrittura peraltro di grande intensità, mostra tutta la sua originalità nel coniugare avventura e malattia, passato e presente, vita e morte.
LanguageItaliano
Release dateJun 30, 2020
ISBN9788899932930
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    L'indicibile inverno - Benedicta Froelich

    2012

    Ai miei genitori; e ai miei bambini e amici lontani –

    in attesa di raggiungere il Polo.

    (…) Roboante fiume di verità, puoi concedermi un sorso?

    La sacra fonte della giovinezza è stata ridotta a un rigagnolo Ma ho questa ardente fiducia nella salvezza e nell’amore

    – Una simile idea potrà essere naïf

    Ma quando il bisogno si farà pressante

    Saprò coltivare questo terreno…

    (Brandon Flowers, Playing With Fire)

    I. PRIMA DI MORIRE

    Ormai esisteva solo la paura.

    La paura era divenuta un’entità tangibile, dalla consistenza quasi fisica – qualcosa di viscido e minaccioso, che strisciava tra le trincee, facendosi strada tra il fango e i cadaveri fino a raggiungerlo e prendere possesso di lui, i suoi artigli gelidi e affilati che gli stringevano il cuore in una morsa di ghiaccio, impedendogli quasi di respirare. Ormai faceva fatica anche solo a pensare, e la voce emergeva dalle labbra soltanto sotto forma di singulti strozzati, che ben poco avevano di compiuto o di intelligibile: era come se fosse posseduto da un’essenza maligna, che aderiva al suo corpo proprio come il fango della trincea si attaccava all’uniforme, rendendola più pesante e umida di ora in ora. Questo qualcosa di immondo stava pian piano prendendo possesso di tutte le sue facoltà, piegandole al proprio volere e soffocando le sue percezioni, obnubilandogli la mente fino a rendergli difficile formulare un pensiero compiuto. Il suo cervello era come paralizzato, e lui se ne stava lì, ritto immobile in mezzo alla trincea, l’inferno che si scatenava tutt’intorno mentre le granate deflagravano sempre più vicine alla sua postazione e, ad appena pochi metri di distanza, terra, fango e rocce esplodevano in ogni direzione, minacciando in qualsiasi momento di travolgerlo. Ma ormai non era più in grado di reagire: era raggelato, e se ne stava semplicemente lì, inebetito – immobile e svuotato di ogni sensazione, come un cerbiatto accecato dai fari di un’auto, inevitabilmente destinato ad essere travolto dalla minaccia sempre più vicina. Gli altri intorno a lui erano già morti, ed era solo questione di tempo – pochissimo tempo – prima che toccasse a lui.

    La morte sarebbe stata un sollievo, lo sapeva bene. Un sollievo da pagare a caro prezzo, perché lui, Apsley Cherry-Garrard, non aveva mai desiderato morire, prima di allora… solo una volta, tanto tempo prima, era giunto seriamente a credere che la morte sarebbe stata una liberazione. Ma in quell’occasione – appena quattro anni prima, in Antartide, anche se ormai sembravano trascorsi secoli – non era stato solo, perché al suo fianco c’erano i suoi due indimenticati amici, Birdie e Bill: e ogni cosa era stata differente, allora. Era stato solo per loro, in fondo, che si era spinto allo stremo delle forze, affidandosi infine al mantra che aveva continuamente recitato nella sua mente per giorni interi – lunghi, interminabili e massacranti giorni di marcia sul pack, nel buio assoluto dell’inverno polare e a oltre cinquanta gradi sotto zero, nel disperato tentativo di riguadagnare la base, dove il Capitano Scott e i compagni attendevano loro notizie. ‘Resisti, Cherry, resisti’: questo era stato il semplice incoraggiamento, continuo e ridondante, che aveva continuato a ripetere ossessivamente a se stesso per chilometri e chilometri ogni giorno mentre, con sforzo estremo, tendeva il suo intero corpo contro le cinghie che lo legavano alla slitta, in un’agonia infinita che ogni volta bastava appena a farla muovere di pochi centimetri. Sapeva di averlo fatto per i suoi compagni di sventura: innanzitutto per Edward ‘Bill’ Wilson, il suo ‘Zio Bill’, quell’uomo imperturbabile, dall’ottimismo irreale quanto contagioso, una sorta di mistico dal grande cuore che gli aveva trasmesso determinazione, forza d’animo e coraggio lungo l’inferno di quel folle cammino – l’avventura ormai nota come ‘il Viaggio d’Inverno’, ovvero la loro lunga marcia, intrapresa senza l’ausilio di cani da slitta né pony, e condotta nel pieno dell’inverno antartico soltanto per andare a recuperare delle misere uova di pinguino sulla costa di Capo Crozier: perché nessuno aveva mai compiuto un’impresa del genere, prima di allora – nessuno aveva mai assistito alla nidificazione invernale dei Pinguini Imperatore, né aveva recuperato degli esemplari in stato ancora embrionale… E la scienza, così diceva lo Zio Bill, grande naturalista e zoologo, ne avrebbe immensamente beneficiato. Così lui, Apsley – anzi, ‘Cherry’, come i suoi compagni della spedizione lo avevano ribattezzato – lo aveva seguito, nonostante la tremenda paura che provava.

    Ma quello sforzo immane, lo sapeva bene, l’aveva compiuto anche per ‘Birdie’, il terzo membro della loro piccola spedizione: il buon Henry Bowers, il compagno più forte, vigoroso e instancabile che un ragazzo dell’età di Cherry potesse sognare – modesto e pacato, eppure pronto a qualsiasi cosa per gli altri, e per il successo della missione. Era stata la presenza pacata, fedele e costante di Birdie e Bill – le prove terrificanti superate insieme, il fatto di aver sfiorato la morte in decine di occasioni, ma senza mai perdere la speranza – ad averli uniti indissolubilmente, quasi come una cosa sola; e ad averlo salvato. Erano state l’incrollabile fiducia di Bill nella loro sopravvivenza e la continua, folle insistenza di Birdie a voler rimanere in vita, ad averlo salvato. ‘Va tutto bene’, continuava a dire lo Zio Bill; e alla fine, lui, Cherry, non aveva potuto fare altro che credergli, stringere i denti e proseguire, pur di non deludere lui e Birdie.

    Quella sofferenza terribile era stata resa sacra dal fatto di averla condivisa con loro: perché era stato solo grazie a quei due uomini, per lui presto divenuti dei fratelli nell’angusto e gelido spazio di una piccola tenda antartica, che non si era arreso, che non si era lasciato cadere nella neve per attendere la morte. Grazie a loro, c’era stato un tempo, prima della guerra, in cui, seppur convinto dell’incombenza di una morte inevitabile, aveva avuto la determinazione e la forza d’animo di tentare fino all’ultimo di resistere – di non avere, per se stesso e gli altri, che parole di incoraggiamento. Proprio quelle stesse parole che, infine, gli avevano permesso di rimanere in vita, mentre si trascinava esausto lungo la Barriera antartica, ogni muscolo teso nello sforzo sovrumano di riuscire a inspirare ed espirare in quel freddo disumano e di trainare la pesantissima slitta dietro di sé, con l’unico obiettivo di riuscire a fare un altro passo in avanti, e un altro ancora, fino a riguadagnare quella che aveva imparato a chiamare ‘casa’ – ovvero, la casupola di legno di Capo Evans, dove il Capitano Scott, leader della spedizione, e gli altri compagni li attendevano. Erano passati solo pochi anni da quel tempo, ma tutto era cambiato: perché ora, ora non c’era altro che l’incessante martellare del sangue nelle tempie, eco spietata del sordo terrore che lo coglieva ogni volta che una nuova granata esplodeva, sempre più vicina alla sua trincea; e l’impotenza assoluta di chi sapeva che qualsiasi gesto o azione sarebbero stati inevitabilmente inutili, e non avrebbero condotto a nessuna salvezza. Stavolta la forza d’animo non sarebbe stata ricompensata, Cherry lo sapeva bene. In guerra si era irrimediabilmente soli, e nel buio di una trincea non era possibile ritrovare nulla della logica ferrea o dell’affetto disinteressato che regolavano una spedizione polare. No, lui non poteva fare nulla, assolutamente nulla. Ecco che un nuovo bagliore, prima avvisaglia di un’esplosione certo ancora più devastante delle altre, lo inondava, accecandolo e annullando per un attimo ogni sua percezione. Mentre si accovacciava affannosamente in un angolo della trincea si portò le mani al viso, in un gesto istintivo di autodifesa; e in un attimo, prima che potesse impedirlo, sentì gli occhiali scivolare dal naso e cadere a terra, da qualche parte nel fango e nel luridume sotto i suoi piedi, persi per sempre, senza che lui potesse fare nulla al riguardo. Ora era cieco, cieco e inerme come un neonato; e in un attimo seppe, capì che stavolta sarebbe stata davvero la fine.

    Il suo corpo si preparò all’incombente, imminente deflagrazione, ogni singolo muscolo teso in uno spasmo di terrore e aspettativa, nell’illusoria speranza di avere ancora qualche possibilità di salvezza. Certo dovevano rimanere soltanto pochi secondi prima che venisse infine spazzato via, prima della fine di tutto… e in un ultimo, assurdo gesto disperato, Cherry si premette con foga le mani contro le orecchie, quasi nell’infantile speranza che quest’atto tanto ingenuo e ridicolo potesse bastare a bloccare il fragore che gli avrebbe lacerato i timpani, ponendo fine a tutto.

    Lamer Manor (Lamer, Hertfordshire, Inghilterra), 4 ottobre 1915

    Apsley Cherry-Garrard si svegliò di soprassalto, spalancando gli occhi nella penombra con un terribile sussulto. Gli ci volle qualche secondo per accorgersi d’essere sveglio, e che si trovava ancora nella solita stanza, nel suo letto; e purtroppo gli bastò afferrare gli occhiali che riposavano come sempre sul comodino e lanciare uno sguardo al piccolo orologio da tavolo, illuminato dall’abituale candela notturna, per rendersi conto che, anche stavolta, era ancora notte fonda.

    Non ricordava neanche di essersi infilato nel letto, poche ore prima – a dire il vero, non avrebbe nemmeno saputo dire come avesse raggiunto la sua camera. Era probabile che, ancora una volta, la sua coscienziosa infermiera fosse ricorsa all’aiuto dell’inserviente di turno per sollevarlo di peso e metterlo a letto come un bambino – un pensiero che lo fece arrossire con un impeto di disgustato imbarazzo. Comunque fossero andate le cose, sapeva solo che non avrebbe mai voluto svegliarsi, e ritrovarsi ancora una volta nella sua vita, nella sua storia di tutti i giorni: una storia che ormai gli appariva peggiore di un romanzo d’appendice di terza categoria.

    Sospirò, e si accorse con imbarazzo che il suo corpo era ancora scosso dai tremiti, e il cuore batteva più forte del normale: e non c’era da stupirsene, era terrorizzato, ancora immerso nella realtà illusoria della trincea onirica che, grazie al cielo, esisteva soltanto nella sua immaginazione. Soltanto un incubo… un altro, maledetto incubo, che sembrava ancora più reale del solito, e che lo aveva lasciato madido di sudore, il cuore martellante nelle orecchie e un terribile senso di angoscia nel petto. E, soprattutto, con il solito, osceno disgusto nel cuore: disgusto di se stesso, e di una paura che non era degna di lui – una paura che lo sminuiva e umiliava ai suoi stessi occhi.

    Perché il Tenente Comandante Cherry-Garrard non aveva mai davvero visto il servizio attivo come soldato, almeno non dall’inizio della guerra; grazie al suo rango e alle sue responsabilità di signorotto locale, aveva avuto la fortuna di essere incaricato dal comando aeronavale di dirigere uno squadrone di mezzi corazzati in un campo militare a poca distanza da Lamer, la sua residenza di famiglia. E, seppure la sua unità fosse in seguito stata inviata in Belgio, nel cuore del conflitto armato, non si sarebbe mai davvero trovato nel pieno dell’azione: né sulla linea del fronte, né in una trincea… i suoi autoblindo, per quanto importanti ai fini dello sforzo bellico inglese, non avevano mai oltrepassato le linee nemiche. Ma non aveva certo avuto bisogno di compiere un grande sforzo d’immaginazione, per sapere, con una sicurezza terribile quanto inevitabile, com’era il fronte: non solo perché questo si trovava ad appena pochi chilometri da dove il suo plotone era stanziato, ma anche perché tanti, troppi compagni della Spedizione Antartica Britannica erano stati inviati laggiù come soldati, e lui aveva ricevuto molte lettere da parte loro – lettere che, più di qualsiasi articolo intento a glorificare lo sforzo bellico dell’Impero di Sua Maestà, gli avevano fatto capire cosa davvero stesse accadendo laggiù, lasciando ben poco spazio alla retorica. Del resto, anche dalla sua postazione nel campo corazzieri poteva distintamente scorgere i bagliori innaturali delle granate e il fragore dei colpi scambiati con il nemico, fino allo scoppio di ogni singolo proiettile e cannonata. Inoltre, i cinegiornali gli avevano offerto un’ampia panoramica dell’orrore a cui i soldati semplici e i fantaccini di servizio sulle linee più esposte andavano incontro ogni giorno, mentre lui se ne stava comodamente a guidare cingolati nelle Fiandre: soltanto alla fine, il comando supremo si era accorto che quei mezzi tanto pesanti non potevano essere di grande aiuto nelle trincee, e il Battaglione nr. 5, al cui comando il Tenente Cherry-Garrard si trovava, era stato nuovamente inviato in Inghilterra in attesa di ulteriori ordini.

    Non molto tempo dopo era giunto il suo completo tracollo, proprio come gli era accaduto in Antartide nell’ultimo inverno trascorso laggiù, dopo che aveva fatto ritorno alla base senza essere riuscito a trovare traccia del gruppo di cinque uomini diretti alla conquista del Polo geografico – il famoso ‘Polar Party’, di cui facevano parte il suo comandante e i suoi più grandi amici, prescelti da Scott stesso per essere gli unici membri della spedizione a proseguire il viaggio fino all’ambìta meta finale: anche allora, il suo grave malessere psicofisico era coinciso con la tragedia che già aveva colpito i suoi compagni. Proprio come, durante la guerra, la sua angoscia davanti alle terribili notizie che giungevano giornalmente dal fronte si era infine concretizzata in quell’inaspettato cedimento della sua intera persona.

    Purtroppo, lui sapeva bene che quello di aver vissuto gli anni della guerra in condizioni di relativa sicurezza sarebbe sempre stato l’altro, grande senso di colpa che lo avrebbe attanagliato e perseguitato, insieme all’ossessione per quanto era accaduto in Antartide – molto prima che il conflitto avesse inizio e lui facesse ritorno in patria dal continente bianco. Ed era terribile vedere come le due gravi ossessioni della sua vita avessero trovato modo di fondersi subdolamente nei meandri del suo cervello malato, dando vita a quei nuovi incubi e sonni inquieti… Del resto, secondo alcuni dei tanti medici che lo avevano visitato, il suo senso di colpa per la morte dei compagni del Polar Party in Antartide – quel terribile, costante rimpianto di ogni singolo giorno – poteva essere almeno in parte responsabile del suo terrificante crollo fisico di pochi mesi prima, avvenuto proprio nel momento peggiore, nel mezzo delle operazioni di disbrigo del suo plotone di mezzi corazzati. Al di là delle loro pompose teorie, però, i medici erano perlopiù impotenti: per la seconda volta nella sua vita, lui era stato colto da un male senza nome, manifestatosi con degli attacchi di colite talmente estremi e devastanti da far sì che venisse presto congedato. Era stato così male, e per così tanto tempo, che alla fine non avevano trovato di meglio che fargli concludere lì il servizio attivo, e suggerirgli di passare il resto della guerra a riposo in un sanatorio per soldati convalescenti, poiché ritenuto non più idoneo a partecipare al conflitto: d’altra parte, nelle sue condizioni non poteva davvero essere più utile a nessuno.

    Oppresso da quei pensieri, Cherry serrò gli occhi con disperata determinazione, nella speranza di poter fingere con se stesso di non essersi ancora svegliato. Ma era inutile: anche stavolta avrebbe dovuto affrontare ad armi impari l’orrore di una nuova giornata che iniziava, poiché non c’era nulla che potesse fare per impedirlo. Neppure quella notte era riuscito a ritardare l’agonizzante e ripetitivo fenomeno del risveglio prematuro; e per quanto sperasse di sentirsi sufficientemente malato da poter dichiarare di non volersi muovere dal letto per l’intera giornata, ormai nessuno dei medici si beveva più questa bella storia. Anzi, il suo dottore personale continuava a ribadire che presto si sarebbe ripreso, e che addirittura, come paziente in via di guarigione, avrebbe dovuto sentirsi ottimista, e perfino felice, all’idea di tornare presto in piedi… che scemenza. D’altra parte, secondo molti, lui avrebbe dovuto ritenersi più che fortunato: a quanti convalescenti era concesso di trascorrere la degenza nella propria casa di famiglia, addirittura nella stessa stanza che erano usi occupare prima che tutto venisse stravolto dalla guerra? Un colpo di fortuna, dovuto al fatto che, con lo scoppio della guerra, Lamer Manor, la grande e sontuosa residenza di campagna della famiglia Cherry-Garrard, era stata convertita in sanatorio, proprio come accaduto a tante altre case nobiliari sparse in tutta l’Inghilterra, trasformatesi in ospedali e centri di raccolta per profughi; ed era quindi parso naturale mandare il povero Tenente Apsley George Benet a curarsi proprio laggiù, tra le braccia della sua preoccupatissima madre. In qualche modo, era stato pietosamente ‘rispedito a casa’; e per quanto la cosa, da un lato, lo rendesse più felice di quanto osasse ammettere, dall’altro il fatto di essere nulla più che un paziente nella propria stessa casa era terribilmente umiliante – e il senso di colpa per essersi, per così dire, ‘chiamato fuori’ dalla terrificante avventura rappresentata dalla guerra stava ormai iniziando a farsi avvertire con sempre maggior forza.

    Ormai erano settimane che si trovava a Lamer, servito e riverito tra mille comfort da un’infermiera particolarmente graziosa; e, per quanto lenti ed esitanti, i miglioramenti erano stati palpabili. Il dottore diceva che presto avrebbe potuto azzardare qualche piccola escursione nel mondo esterno e riprendere gradualmente una vita normale, almeno finché non fosse stato richiamato nuovamente al dovere, magari con un incarico di tipo amministrativo in qualche dipartimento bellico – eventualità improbabile, date le circostanze del suo congedo, ma comunque sempre presente nella sua mente ingenuamente speranzosa.

    Ma la vera malattia che lo affliggeva non era di natura fisica, e lui lo sapeva bene. Restava da vedere se quel qualcosa di terribile che gli divorava l’anima dal di dentro – e che, come un cancro che si propagasse per il corpo, riempiva via via ogni minuto della sua giornata – gli avrebbe mai dato pace. Era quello il suo vero nemico, ancor più della terribile infiammazione intestinale che perfino adesso, mentre se ne stava immobile nel letto, gli scatenava acuminate fitte al basso ventre, subito da lui represse con profondi respiri, come l’infermiera gli aveva insegnato. Non c’era nulla da fare: bastava che riprendesse coscienza di sé e della propria persona, e i dolori tornavano a tormentarlo – quegli stessi dolori che sparivano pietosamente quanto inspiegabilmente non appena si addormentava o, più semplicemente, si distraeva, allontanandosi per un attimo dagli stretti confini della propria mente oppressa. Del resto, come avevano definito la sua malattia? ‘Colite ulcerosa di origine psicologica’… una diagnosi che in qualche modo equivaleva a dargli del pazzo – o, peggio ancora, a farlo passare per qualcuno che aveva infine trovato il modo perfetto per farsi esonerare dal combattere quella maledetta guerra. Eppure lui non aveva mai voluto uscire di scena in quel modo – avrebbe preferito essere spedito dritto in una trincea, piuttosto che essere bollato come uno smidollato e un povero invalido.

    Ma in fondo, non era questo, ormai, ciò che era diventato? Come sembrava giovane e lontano il Cherry-Garrard (anzi, ‘Cherry’, come lo chiamavano i suoi compagni della spedizione antartica) che aveva compiuto il Viaggio d’Inverno fino a Capo Crozier con Bill e Birdie e che, con la sola forza dei muscoli e della propria disperazione, aveva trainato per centinaia di chilometri una slitta carica di masserizie, affondando nella neve fino alle ginocchia e scivolando continuamente nei terribili crepacci che il ghiaccio celava, tutto nel tentativo di riuscire a sopravvivere a un mese e mezzo di buio, gelo e terribili privazioni! Eppure, c’erano momenti in cui avrebbe davvero desiderato essere malato, molto più gravemente di quanto non fosse; così da poter essere giustificato dal mondo per la sua inadeguatezza a vivere, per la sua incapacità e debolezza davanti alle proprie responsabilità. Perché, se davvero fosse stato gravemente e definitivamente malato – se avesse perso un arto in trincea, o se fosse rimasto semiaccecato da un’esplosione, com’era accaduto al suo ex compagno di spedizione Edward ‘Atch’ Atkinson – almeno avrebbe avuto una scusante davanti all’evidenza della sua incapacità di recupero, anzi, della sua conclamata riluttanza a guarire.

    Con un gemito di disgusto, Cherry si rizzò faticosamente a sedere nel letto e abbandonò gli occhiali sul comodino; poi lasciò scivolare le gambe oltre il bordo del materasso e infilò le pantofole, issandosi in piedi con un certo sforzo. Si trascinò barcollante verso l’angolo della stanza e, non sapendo che altro fare, sollevò con esasperante lentezza la brocca poggiata sul tavolino da toeletta e lasciò che il rumore dell’acqua che scrosciava lentamente nella bacinella di ceramica riempisse di colpo la stanza silenziosa. Lasciò indugiare le mani all’interno di quella liquida conca, poi, dopo essersi bagnato il viso con un po’ troppa foga, schizzando acqua ovunque, trovò infine il coraggio di guardare il proprio riflesso nello specchio sopra il tavolino. E un pensiero esausto gli attraversò la mente: pensò che il suo viso vagamente infantile, con quei tratti da bambino mai del tutto cresciuto – quello sguardo ai suoi occhi perfino un po’ottuso, tipico di chi soffre di una tale miopia da essere costretto a strizzare gli occhi pur di riuscire a scorgere qualcosa – erano in fondo tipici e rivelatori della sua innata e colpevole debolezza, della sua inettitudine e incapacità ad affrontare la realtà.

    Fissò lo specchio con più veemenza, e la persona dal viso pallido e provato – una persona che quasi non gli sembrava di conoscere – ricambiò il suo sguardo con malcelata ostilità. Il riflesso gli mostrava che le sue occhiaie erano più marcate del solito, e lo sguardo appariva spento e perfino un po’ vacuo. Si capiva subito che era un uomo malato.

    Cherry sospirò e si passò una mano sul mento, cercando disperatamente di identificare sul proprio viso qualche tangibile segnale di forza o di implicito, evidente coraggio. Ma sapeva bene che il problema non era solo quello: la sua diversità non era mai stata soltanto una questione fisica – in fondo, non si era semplicemente trattato della fortissima miopia di cui aveva sofferto fin da quando aveva memoria, e che si era presto rivelata un limite non da poco, per un uomo destinato a divenire l’erede della stimata famiglia dei Cherry-Garrard. No, era qualcosa di ben più profondo. Era stato chiaro fin dall’inizio che non avrebbe mai potuto avere una vita sua, e quella era una verità che l’istinto gli aveva suggerito quasi da subito: perfino gli innocui e protetti anni della prima giovinezza erano stati macchiati da una sorta di tacita lotta contro il tempo, squisitamente intima e interiore e caratterizzata dal terrore che la sua esistenza non potesse davvero andare da nessuna parte. Già allora, qualcosa dentro di sé gli diceva che, una volta terminata l’inevitabile attesa dell’infanzia e dell’adolescenza, quando fosse venuto il momento di prendere in mano la propria vita lui non avrebbe avuto la forza, né il coraggio di agire: il suo percorso, la sua crescita di persona si sarebbero in qualche modo arrestati prima ancora dell’età adulta.

    Non poté evitare un sorriso amaro, che lo specchio non mancò di restituirgli subito. Infastidito, distolse lo sguardo. Il suo mancato sviluppo, tuttavia, non sembrava aver deluso i suoi genitori: a loro, in fondo, era importato soltanto che lui potesse diventare il meritevole erede delle fortune famigliari, e anzi, dopo la morte del proprio anziano padre, Cherry aveva perfino avuto un serio diverbio con sua madre, fortemente contraria alla sua partenza per l’Antartide – per quell’avventura assurda e insensata, rischiosa e ai suoi occhi assolutamente inutile. Il suo unico figlio maschio sarebbe stato lontano per almeno due anni, sottraendo alle casse famigliari una quantità ingente di denaro, che doveva, secondo lui, servire a garantire la gloria del Capitano Scott e della Spedizione Antartica Britannica; ma a sua madre non era mai importato molto della gloria altrui, e alla fine Cherry aveva dovuto ignorare l’opposizione genitoriale, voltare la testa dall’altra parte e partire, semplicemente; in caso contrario, non ce l’avrebbe mai fatta. Era stata l’unica decisione personale che avesse mai preso in tutta la sua vita; e dopo di essa, non era mai più riuscito a ripetere l’esperienza, troppo debole per riacquistare davvero il controllo della propria esistenza, o per riprodurre il miracolo dei tempi d’oro della spedizione Terra Nova – i tempi in cui c’erano stati il Capitano Scott, e Birdie, e Bill.

    E dire che, nonostante tutto, prima di quei giorni irripetibili lui era comunque passato attraverso tutte le esperienze che si convengono a un giovanotto del suo nome e ceto sociale: aveva frequentato l’università, nientemeno che a Oxford, diplomandosi in verità senza grandi elogi, niente più che uno studente di medio livello e dalla scarsa capacità di attenzione; aveva disperatamente cercato un qualche riconoscimento sociale almeno nel canottaggio, l’unico sport che la sua forte miopia e il fisico non esattamente possente gli avessero permesso di praticare con un certo successo negli anni da studente. Eppure, anche questi apparenti successi erano stati soltanto dei palliativi. Non era mai riuscito a conquistare quella sensazione di appartenenza, di profondo e sincero appagamento e soddisfazione personali, ed era sempre rimasto un outsider, a disagio in qualunque situazione; era come se non fosse mai riuscito a trovare il proprio posto nel mondo, perlomeno nel mondo per come lui lo conosceva – per come la sua storia personale e famigliare gli aveva permesso di conoscerlo. La festa per lui sembrava non aver mai avuto inizio: come a teatro, vi era stata una lunga attesa, una prova generale infinita, per una ‘prima’ che però non aveva avuto luogo. Capita, in fondo. E compiuti i vent’anni, lui era arrivato a credere che fosse ormai troppo tardi. Era rimasto un giovanotto apparentemente insignificante, e per di più goffo e imbranato in ogni circostanza ‘ufficiale’: in società era timido e impacciato, per non parlare dello scarso ascendente da lui esercitato sulle donne.

    Insomma, fino ai ventiquattro anni la sua vita era stata, ai suoi occhi, un continuo insuccesso, soprattutto dopo la morte del padre, che lo aveva di colpo proiettato nel poco esaltante universo del signorotto di campagna – del riluttante proprietario terriero di cui si era ritrovato a vestire i panni, poiché, unico figlio maschio in mezzo a una tribù di sorelle, era stato investito della gravosa responsabilità di gestire tutte le proprietà di famiglia e di occuparsi personalmente non solo della grande tenuta dei Cherry-Garrard a Lamer, ma anche degli altri possedimenti, tra cui la residenza di Denford, nel Berkshire. Dopotutto, lui era stato messo al mondo per rivestire quel ruolo, e tutta la sua infanzia e prima giovinezza erano trascorse nell’attenta preparazione al compito di ‘signore del maniero’, come lo si definiva nei romanzi d’appendice.

    Cherry ricordava ogni tappa di quel percorso: dall’esclusiva scuola per gentiluomini di Winchester – dove aveva trascorso quattro anni terribili, scanditi dalle gelide notti nel dormitorio non riscaldato e dai bagni ghiacciati nella vasca comune alle sei e un quarto del mattino – fino alla sua permanenza al Christchurch College di Oxford, dove suo padre prima di lui aveva studiato; solo verso quell’epoca, i suoi genitori si erano finalmente decisi a fornirlo di un paio di occhiali, dopo che il loro primogenito aveva trascorso i primi quindici anni della sua vita in una sorta di sfocata nebbia miope, tutto semplicemente per il fatto che, per il Generale Cherry-Garrard, l’idea di un figlio afflitto da un qualche difetto fisico era troppo umiliante da sopportare. Ma anche una volta provvisto di lenti, non si era mai adattato alla sua stessa esistenza; non si era mai rispecchiato nel futuro che la famiglia aveva scelto per lui, né nella carriera di classicista che per un breve periodo aveva contemplato, prima di cambiare corso e diplomarsi senza grandi onori in Storia Moderna. Non aveva mai brillato negli studi, né, del resto, nello sport; e con la morte di suo padre, ormai il destino già scontato di amministratore a vita delle terre di famiglia incombeva come una spada di Damocle su di lui. Un altro ruolo nel quale non si sentiva affatto a suo agio, disinvolto come un pesce fuor d’acqua e altrettanto abile. Nemmeno i lunghi e felici viaggi intercontinentali in nave, da lui intrapresi con l’intenzione di vedere il mondo e sfuggire a quell’inevitabile condanna, avevano risolto qualcosa, poiché presto era giunto il momento di fare ritorno a Lamer e prepararsi al peggio.

    Poi, d’un tratto, era successo: era diventato amico di Edward ‘Bill’ Wilson, e grazie a quest’amicizia era piombato nella vita di Cherry il Capitano Robert Falcon Scott, e con lui la Spedizione Antartica Britannica. Tutto era cambiato, dal nulla era giunto uno scopo, e un nobile obiettivo aveva occupato la mente di Cherry: un’avventura indicibile, apparentemente terrificante, nelle terre più inospitali del pianeta, quel continente antartico che a pochissime persone era concesso di vedere con i propri occhi. Cherry aveva puntato i piedi, aveva agito, aveva lottato, e infine, contro ogni probabilità, era riuscito ad essere accettato come membro di quella che sua madre definiva, sprezzante: ‘la nave dei folli’. Nello spazio di meno di tre anni, era felice come mai avrebbe pensato di poter essere. Finalmente era stato utile, e benvoluto; stava partecipando a qualcosa di grande, unito in una profonda comunione d’intenti con persone che stimava, e che lo stimavano a loro volta.

    E adesso, adesso che erano passati soltanto pochi anni da allora, poteva contare solamente su se stesso. Ma sapeva bene che da solo non valeva abbastanza, e che una parte di lui era morta con Birdie e Bill. Loro non avevano mai fatto ritorno dall’ultimo tratto del viaggio che, insieme al Capitano Scott (‘il Proprietario,’ come tutti lo chiamavano), a Lawrence ‘Titus’ Oates e al marinaio Edgar ‘Taff’ Evans, li aveva portati fino al Polo. Il loro ambitissimo traguardo era stato raggiunto dopo mesi di marcia, a costo di atroci fatiche e sofferenze, soltanto per scoprire che il rivale norvegese Amundsen li aveva battuti sul tempo di appena pochi giorni. Il massacrante viaggio di ritorno non li aveva risparmiati, e mentre i suoi amici arrancavano verso la base senza nessuna possibilità di sopravvivenza, Cherry era divenuto infine inutile e impotente, soltanto un elemento di poco peso all’interno dell’equazione – l’ingranaggio difettoso del meccanismo: benché inviato con una slitta trainata da cani a cercare di incrociare il gruppo di compagni sulla via del ritorno nella speranza di assisterli, aveva fallito. La sua inesperienza come navigatore, la sua invalidante miopia e gli ordini confusi lasciati dal Capitano Scott avevano fatto sì che, dopo qualche giorno di attesa, lui si arrendesse e facesse dietrofront – presto, troppo presto. La primavera successiva, lui stesso aveva rinvenuto la ‘tenda della morte’, dove si era trovato davanti i corpi congelati del Proprietario e dei suoi due grandi amici Bill e Birdie. Giacevano in mezzo al nulla, ad appena dodici miglia e mezzo dal punto in cui, mesi prima, lui, Cherry, aveva fatto voltare la slitta per fare ritorno alla base. Condannando i suoi compagni di un tempo a una morte impietosa, e riservando a se stesso una punizione forse ancor peggiore – la solitudine e l’eterno, costante senso di colpa: la consapevolezza di aver scritto l’atto finale nella vita che i suoi amici si erano lasciati alle spalle.

    Con un moto di disgusto, Cherry si riscosse da quelle riflessioni e avvicinò il viso allo specchio finché il suo respiro non lasciò un lieve alone sul vetro limpido. Scrutando il proprio volto così da vicino, era possibile scorgere ogni segno del suo malessere – ogni nuova ruga e linea tracciata sulla pelle dalla costante stanchezza e dalla mancanza di desideri.

    Sembrava una terribile vendetta del Fato, in fondo: proprio l’Antartide, quella stessa esperienza che aveva dato un senso alla sua vita, gliel’aveva anche, in qualche modo, distrutta, come a volergli dimostrare una volta di più che lui non meritava nulla di quanto, seppur solo per un attimo, aveva conquistato. In fondo, avrebbe dovuto immaginare che le cose sarebbero finite così: aveva osato troppo, e non avrebbe mai potuto sperare di uscirne incolume. Aveva un carattere debole, e questa era un’altra colpa palesatasi già ai tempi in cui era ancora studente. Non era mai stato leggiadro e sicuro di sé come la maggior parte dei suoi compagni di università: la sua timidezza, la tragica miopia e la mancanza di reali ambizioni avevano, ai suoi occhi, costituito un altro segnale rivelatore, attestando definitivamente la sua inadeguatezza.

    Certo, all’epoca non poteva sapere come, nel giro di pochi anni, un altro tipo di incapacità si sarebbe infine palesata: ora come ora, non vi era nessuno che non si fosse reso conto di come il signor Cherry-Garrard non fosse a proprio agio nemmeno nella propria mente, o nella propria coscienza. La sua persona, ormai irrimediabilmente compromessa, era piegata e schiacciata da quanto accaduto nel dannato continente bianco; e solo trasferire se stesso in un altro corpo, un’altra persona e un’altra coscienza – quasi come in uno di quegli improbabili romanzi di fantascienza che tanto stavano prendendo piede in quegli anni – avrebbe potuto cambiare questo stato di cose, e fargli infine trovare la pace.

    Perché l’unico momento in cui aveva creduto di essere una persona compiuta e completa era stato proprio in Antartide, con Scott e i suoi compagni; ma solo per un breve periodo, perché l’illusione era finita nel modo peggiore, quando – prima ancora della guerra, prima ancora che il mondo impazzisse – si era macchiato della terribile colpa che da allora lo perseguitava e che non gli avrebbe mai dato pace. A volte si chiedeva se ci fosse mai stato qualcos’altro, a riempire la sua vita, oltre al senso di colpa: se ci fosse mai stato un tempo in cui questo pensiero non aveva fatto parte della sua vita.

    Perché Apsley Cherry-Garrard non aveva mai davvero lasciato l’Antartide. La gente non lo immaginava, ma lui era ancora laggiù: vi tornava ogni singola notte, ogni volta che chiudeva gli occhi, e rimaneva solo con i propri pensieri. La sua guerra privata e personale con il Polo Sud continuava – e sarebbe proseguita anche dopo la fine del terribile conflitto che stava dissanguando l’Europa.

    Perché la guerra di Cherry non avrebbe mai avuto fine, se non con la sua morte.

    Ho sbagliato vita e quella che conduco

    è scritta da nessuno

    in una lingua che io non capisco.

    Chiudo il libro e gli occhi,

    per non veder la luce di quel che mi è negato.

    Come chi sbaglia treno in un libro diverso

    ho sbagliato la vita

    e non so dove mi conduca

    questa teoria di errori.

    (Juan Vicente Piqueras, ‘Ho Sbagliato Vita’)

    Appiate Brianzolo, Brianza (Nord Italia), 9 gennaio 2012

    Mi sveglio lentamente, la coscienza che riprende inesorabilmente possesso del mio corpo appesantito con graduale quanto dolorosa puntualità. Niente da fare: anche oggi qualcosa dentro di me mi spinge a riprendere penosamente consapevolezza di me stessa e della mia presenza in questo odiato angolo di mondo, e a iniziare una nuova giornata. Semplicemente, non posso impedirlo – è la vita, che in un modo o nell’altro prende sempre il sopravvento, anche quando non lo si vorrebbe.

    Basta uno sguardo alla sveglia sul comodino per rendermi conto che, anche stavolta, è mezzogiorno passato; e del resto, dovevano essere almeno le cinque del mattino quando, finalmente, sono riuscita a prendere sonno. Peccato non aver potuto dormire di più – fino a sera, magari.

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