In un cielo di stelle rotte
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About this ebook
Uno scrittore senza nome è nella sua vecchia casa di Ferrara, alle prese con gli appunti di storie che non ha mai pubblicato. Attraverso libri, canzoni e ricordi cerca di comporre innumerevoli tessere in un mosaico unitario, utilizzando i mondiali di calcio come innesco narrativo. Il risultato è la ricostruzione di un lungo periodo storico attraverso racconti tangenti, intersecanti o paralleli alle varie edizioni della competizione internazionale. Nel mosaico di Mazzoni trovano posto un anarchico a Montevideo, le tigri di Mompracem, riti voodoo nell’Italia fascista, un misterioso girovago indonesiano, un vecchio ubriacone in un bar di Rio, Caraibi e violenza carnale, l’Lsd, Corea del Nord e psichedelia, la guerra del Vietnam e la controcultura, la Ddr, i desaparecidos, la guerra delle Falkland, i Nar, Gramsci, la Colombia di Escobar, l’Iran, l’attrice porno Karen Lancaume, Nizza, l’Angola e la guerra di indipendenza, Bucarest, Aruba, New York, Keith Moon, i Beatles…
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Book preview
In un cielo di stelle rotte - Lorenzo Mazzoni
Tavola dei Contenuti (TOC)
L’incantatore di serpenti
(1930-1938)
La giustizia individuale di Ricardo Brau
Uruguay, 1930
Finale
Uruguay-Argentina 4-2
Gli arditissimi del Vodun
Italia, 1934
Finale
Italia-Cecoslovacchia 2-1 (d.t.s.)
Il pedinatore di Batavia
Francia, 1938
Ottavi di finale
Ungheria-Indie Orientali Olandesi 6-0
Crepe
(1950-1962)
Chi ha fatto piangere il Brasile?
Brasile, 1950
Girone finale - Terza Giornata
Brasile-Uruguay 1-2
L’estraneo
Svizzera, 1954
Finale
Ungheria-Germania Ovest 2-3
Brugmansia
Svezia, 1958
Finale
Svezia-Brasile 2-5
Terremoti
Cile, 1962
Gruppo 2 - Seconda giornata
Cile-Italia 2-0
Il compagno Albert Hofmann
(1966-1978)
I proletari lisergici della Repubblica Psichedelica di Corea
Inghilterra, 1966
Quarti di finale
Portogallo-Corea Del Nord 5-3
Gli aerei spruzzano veleno
Messico, 1970
Semifinale
Italia-Germania Ovest 4-3 (d.t.s.)
Il muro della pace
Germania Ovest, 1974
Gruppo 1 - Terza giornata
Germania Ovest-Germania Est 0-1
Il timbro
Argentina, 1978
Finale
Argentina-Paesi Bassi 3-1 (d.t.s.)
Lucy in the Sky With Broken Stars
(1982-1998)
La tripletta di Labaro
Spagna, 1982
Gruppo C - Seconda fase
Italia-Brasile 3-2
La madre di mille morti
Messico, 1986
Quarti di finale
Argentina-Inghilterra 2-1
Le favole di Antonio
Italia, 1990
Ottavi di finale
Irlanda-Romania 5-4 (d.c.r.)
Gli Escobar
Stati Uniti, 1994
Gruppo A - Seconda giornata
Stati Uniti-Colombia 2-1
Polizia
Francia, 1998
Gruppo F - Seconda giornata
Stati Uniti-Iran 1-2
21 giugno - Lione, Stade de Gerland. 39.100 spettatori. Ore 21.00
Clichy-Sous-Bois. 30.202 abitanti. Ore 21.45
Tehran. 8.429.807 abitanti. Ore 1.30 (23.00 in Francia)
Tra Jordaan e Lewisham
(2002-2014)
Le navi sopra i tetti
Corea del Sud/Giappone, 2002
Finale 3°/4° posto
Corea del Sud - Turchia 2-3
Colonie
Germania, 2006
Gruppo D - Prima giornata
Angola-Portogallo 0-1
Passeggiando per il Village ho incontrato Little Steven
Sudafrica, 2010
Quarti di finale
Uruguay-Ghana 4-2 (d.c.r.)
Caribe Securitate
Brasile, 2014
Girone B - Prima giornata
Spagna-Paesi Bassi 1-5
Keith Moon non suonava lo Hi-Hat
Titoli di coda
golem / racconti
©
2019
Miraggi Edizioni
via Mazzini
46
,
10123
Torino
www.miraggiedizioni.it
Progetto grafico Miraggi
Finito di stampare a Borgoricco (PD)
nel mese di maggio
2019
da Logo srl
per conto di Miraggi Edizioni
su Carta da Edizioni Avorio Book Cream
80
gr
Prima edizione digitale: maggio
2019
isbn
978-88-3386-055-8
Prima edizione cartacea: maggio
2019
isbn
978-88-3386-049-7
Alla mia famiglia,
e ai miei amici.
Con gratitudine e amore.
Ho tirato fuori tutto da un armadio nel quale nel corso
di molti anni ero andato depositando storie
che mi piacevano. E all’improvviso mi sono detto:
"Non voglio tornare a fare più nella mia vita letteratura lineare,
non me lo merito, né se lo meritano i miei lettori".
Paco Ignacio Taibo II
Un racconto è come un bacio veloce, nel buio,
ricevuto da uno sconosciuto. Naturalmente non è la stessa cosa
di una relazione o un matrimonio, ma un bacio può
essere dolcissimo, e nell’intrinseca brevità del gesto risiede
la sua speciale attrazione.
Stephen King
Found my way upstairs and had a smoke
Somebody spoke and I went into a dream…
I’d love to turn you on…
The Beatles
L’incantatore di serpenti
(1930-1938)
Lo stormo di piccioni, come ogni mattina, volteggia in circolo sopra le case dell’isolato e si ferma sul tetto del capannone. È un rito che si ripete da quando io ho memoria: quasi quarant’anni.
Quant’è la vita media di un piccione? Sei anni? Dieci anni? Presumo che nel tempo si siano susseguite generazioni di inesperti volatili ai decani della turba, ma la tradizione non è mai stata scalfita. I piccioni non concepiscono il colpo di Stato, il cambio di rotta, la conquista del Sol dell’Avvenire. Del resto non ne hanno bisogno: danno l’idea di divertirsi un sacco impegnati nei loro circolari voli di routine.
Passano sulla mia terrazza, sui tetti delle vecchie case a due piani. Planano sugli orti e sui giardini interni e concludono il loro periplo sopra il tetto laminato del caseificio.
Grugano e tubano per qualche minuto e poi ripartono. Stesso percorso. Stessa formazione: il comandante pennuto in avanscoperta, il grosso dello stormo a formare una macchia nera e bianca nel cielo, i soliti tre ritardatari arrancanti, le ali scomposte cercando di rimanere faticosamente al passo.
L’attività motoria dei piccioni inizia alle otto e mezzo e finisce alle nove e dieci del mattino. Non so dove vadano dopo, perché decidano di rompere la formazione, perché tutti i giorni si diano appuntamento a un orario fisso per rincontrarsi e volare in circolo. È una celebrazione quotidiana che ha il sapore della concretezza e del ripetibile. Una prassi radicata nel passato, nel calderone dei ricordi e delle malinconie.
Il cerimoniale columbiforme me lo ha fatto notare, quando ero un bambino, mio nonno. Un mattino d’estate ce ne stavamo qui, su questa terrazza, e lui mi aveva indicato lo stormo che stava volando sulle nostre teste. Lo fanno tutti i giorni
, aveva detto, alla stessa ora
. Dopo eravamo scesi, avevamo dato da mangiare alle galline e ai conigli, infine mi ero seduto su uno sgabello dentro il laboratorio a guardarlo intagliare un pezzo di legno che avrebbe trasformato in una chitarra senza corde. Ho fatto lunghe tournée immaginarie con quello strumento. In piedi in mezzo alla camera da letto, circondato dai polli, sul divano del salotto. Perlopiù cantavo Furia e Sandokan.
Mio nonno si chiamava Enrico. Questa era casa sua. Se n’è andato al tramonto del secolo scorso. Un secolo che ha vissuto quasi per intero.
All’alba degli otto anni, ai tempi della disfatta di Caporetto, si era stancato di andare alla scuola di Denore, un minuscolo paesino della campagna ferrarese, e aveva deciso di seguire il padre su una bicicletta. Percorsi i cinquanta chilometri che li separavano dal mare Adriatico, si erano offerti come manovali per costruire case ai borghesucci locali.
Poi c’erano stati il lungo periodo Littorio, l’arresto di sua madre colpevole di aver sventolato una bandiera rossa nella piazza del paese, un impiego, ancora come muratore, nella nuova Tresigallo, da edificare seguendo i dettami di Rossoni e della solennità fascista.
Si era trasferito a Ferrara alla viglia della guerra. Povero e anarchico. Con disgusto aveva osservato i crucchi in divisa spadroneggiare per la città. Era stato testimone dei bombardamenti Alleati. Protagonista della processione, sfollato tra gli sfollati, verso la campagna. Buongustaio di gatti cotti sul fuoco vivo, per non morire di fame. Partecipe, motivato da una sua personalissima solidarietà verso gli oppressi, in cui si riconosceva, partigiano della Trentacinquesima Brigata Garibaldi Bruno Rizzieri
, era rientrato a Ferrara con i vincitori.
Nel Dopoguerra era diventato custode e bibliotecario – non male per un uomo che a fatica sapeva leggere e scrivere – della Biblioteca Comunale Ariostea. Aveva aperto un allevamento di cani nella corte interna del palazzo, nel giardino costeggiato dai sambuchi e dagli alberi secolari. Collie e pastori tedeschi convivevano con Ariosto e con gli studenti di Medicina. Si era comprato un televisore, era l’unico nel quartiere a possederne uno e ogni sera amici, vicini, conoscenti e curiosi si riversavano in casa sua a guardare gli annunci di Fulvia Colombo, il Festival di Sanremo, il telegiornale, i varietà, Carosello, L’Oréal: un personaggio per voi
, con il giovane Mike Bongiorno.
I miei ricordi di lui iniziano in questo mito di provincia. Era già in pensione e aveva abbandonato l’alloggio alla biblioteca per sistemare questa grande e vecchia casa a ridosso del centro storico di Ferrara, quando andavamo in giro per la città, a comprare galline e conigli che poi allevava nel cortile. Mi portava all’ippodromo, parlavamo con stallieri e cavalli, guardavamo le prove di trotto all’ombra della vecchia tribuna. A quei tempi l’ippodromo di Ferrara era un luogo pacifico, adatto a un vecchio e a un bambino, a quei tempi i rappresentanti dell’ordine non vi uccidevano ragazzi e con loro l’innocenza. Su certi giornali si leggevano ancora, ogni tanto, delle belle storie, o almeno si leggevano su Tex Willer.
Il suo rapporto con la carta stampata era primitivo e magico. Leggeva solo i quotidiani abbandonati che trovavamo nelle nostre passeggiate. Notizie del giorno prima, informazioni recepite in ritardo, parole d’inchiostro buone per l’archivio e per il freddo. I giornali erano un ottimo sistema contro il vento se infilati sotto la camicia a proteggere lo stomaco quando si andava in bicicletta.
Era un uomo pratico. Aveva pochi oggetti a cui teneva molto. Una fiocina fatta in casa con cui raccoglieva le foglie e ogni tanto azzardava il tiro al bersaglio delle lucertole. Il vecchio giradischi di legno. Le medaglie vinte dai suoi cani alle gare internazionali. Un cannocchiale appartenente all’esercito tedesco. Insieme a questo pare ci fosse anche una Luger P08, sotterrata in cortile, come era usanza nel Dopoguerra, e mai più ritrovata.
E poi c’era il suo oggetto magico. L’oggetto capace di farlo sognare e di farmi sognare. Il libro Il mondo degli animali nella grande pittura di tutti i tempi. Un volume dalla copertina verde, stampato agli inizi degli anni Sessanta, che raccoglieva su carta patinata le illustrazioni di quadri celebri di animali: il drago di Paolo Uccello, il falcone di Tiziano, le scimmie di Pieter Bruegel, i tori di Cesetti, i cammelli di Odoardo Borrani.
Sfogliava il libro molto lentamente, tenendomi sulle sue ginocchia. Guardavamo gli animali di ogni specie, ritratti in mille modi diversi. Quando vedeva che mi soffermavo su un quadro particolare iniziava a raccontarmi la storia. La sua storia. Non era adatto a leggere libri per bambini, ma era nato per inventarsi fiabe prendendo spunto da quelle figure.
E così siamo andati a vedere l’oceano con il Paolo di Picasso e il suo asino, abbiamo salvato i pigmei aggrediti dai coccodrilli raffigurati negli affreschi pompeiani, abbiamo risolto gli indovinelli della scimmia fiamminga e cavalcato da Tahiti all’ippodromo di Ferrara con i polinesiani di Gauguin.
Ma la storia più incredibile, la storia delle storie, quella che lo assorbiva completamente e che ci faceva attraversare un mondo di pirati, buoni sentimenti, cowboy, indiani, principesse, partigiani e tamburini coraggiosi, nasceva sempre dall’Incantatrice di serpenti del doganiere Rousseau. Nella foresta, alle spalle della suonatrice, si aprivano mondi magici, e flotte di fantasiosa bellezza si avvicinavano sull’acqua calma, fino all’ora del pranzo, quando lui chiudeva il libro e lo riponeva sullo scaffale, a fianco del giradischi.
Molti anni dopo, quando lui se n’era andato e io tentavo, per la prima volta, di mettere su carta l’eco di quelle favole, è accaduta una cosa incredibile. Ero in terrazza, come adesso. Davanti a me il vecchio capannone e, dietro, gli alberi dell’ippodromo. In basso gli orti e, sulla sinistra, alle spalle dei fichi, un grande balcone con il muro bianco. Sul balcone una donna su una scala. In mano un pennello. Ai suoi piedi alcune latte di vernice. Ho posato i fogli e la penna e mi sono messo a osservarla. Era una giornata calda e mite. Il silenzio e il volteggiare costante e circolare dei piccioni. Al tramonto il grande murales dipinto dalla donna aveva preso forma. La giungla, l’acqua, la suonatrice, il serpente. La forma dell’innocenza e della mia infanzia. La forma delle favole e del mondo dove tutto è ancora possibile.
Sono entrato in casa, ho estratto il volume dalla libreria e sono tornato in terrazza. Gli ultimi raggi del sole coloravano il dipinto di arancione e fuoco. Ho aperto il libro. La piccola Incantatrice di serpenti gareggiava con la gigantesca Incantatrice di serpenti. I richiami delle antiche fiabe a braccetto con le nuove fantasie di un adulto-bambino.
Mio nonno era un grande narratore orale, consapevole che la verosimiglianza sta nei dettagli, che l’apparente verità è contenuta nei particolari, che tutte le storie possono essere migliorate o peggiorate a seconda di chi le racconta. Le performance teatrali, le confessioni davanti a un falò, i romanzi funzionano per il modo in cui vengono raccontati, non per quello che raccontano.
Come lo scrittore che non è stato, mio nonno sapeva che la precisione e la presunta esattezza dei dati erano essenziali per tenere insieme l’intreccio, renderlo narrabile, attendibile. Anche quando raccontava di destrieri volanti cavalcati da sabotatori anarchici (due cavalli e due cavalieri armati di dieci candelotti di dinamite ciascuno
) e di pirati cinesi con artigli al posto delle mani che assaltavano l’Istituto Nazionale Fascista di Previdenza Sociale (erano dieci uomini pronti a tutto pur di espropriare quel luogo, e a difesa di esso stavano asserragliati duecento mostri con la faccia da maiali e le camicie nere strette sul corpo maleodorante
).
Mio nonno ha avuto la capacità di rendermi una persona curiosa, di insegnarmi a estrapolare, amalgamare, scomporre, ricreare imprese mirabolanti da qualsiasi cosa.
Ho capito molto presto, ero ancora alle scuole medie, che, con quella nuova forma fatta di immagini, parole, fantasie, ricordi, desideri che avevo plasmato, potevo riempire quaderni e bloc-notes.
I piccioni passano davanti al murales e io dovrei tornare in studio a buttare giù appunti. Fare schizzi, grafici, schemi. Suonare il mio flauto e risvegliare i serpenti della creatività.
Devo farlo, perché scrivere storie è il mio mestiere e, come lo stormo che adesso plana sugli orti, sono contento della mia quotidianità. Di come sono riuscito a trasformare in professione gli echi e le suggestioni del vivere, come mi ha insegnato tanto tempo fa mio nonno.
Ho quarantatré anni, una laurea al DAMS, una seconda in Storia contemporanea. Ho fatto il lavapiatti, il fattorino, la maschera in un cinema, il cameriere, la guida turistica, il DJ, il promotore finanziario. Ho raccolto le mele, trasportato fiori, pulito teatri, volantinato per pizzerie da asporto, insegnato Italiano. Sono stato con diverse donne, molte meno di quelle che ho corteggiato o desiderato. Sono stato arrestato due volte, una per atti osceni in luogo pubblico – pisciavo contro il muro di una chiesa – l’altra per possesso di sostanze stupefacenti. Ho assunto molte droghe. Ho abitato a Londra, Parigi, Istanbul, Marrakech, Sana’a, Amsterdam, Bucarest, a volte per qualche mese, a volte per diversi anni. Ho suonato la batteria in una band di rock psichedelico. I miei romanzi hanno un discreto successo. Sono stato tradotto in varie lingue e ne parlo quattro, fluentemente solo il francese e il turco.
Letta così, la mia scheda personale ricorda uno dei tanti profili che si ritrovano nei quarti di copertina dei romanzi dei self-made men, di solito statunitensi, a cui manca solo, per completare il curriculum, di aver rapito la Regina d’Inghilterra, essere andati a letto con settantasette donne contemporaneamente e aver trovato la cura contro il cancro una sera bevendo Jack Daniel’s in un bar dalle luci soffuse a South Los Angeles, nel luogo dove fino a qualche anno prima c’era l’orfanotrofio in cui erano cresciuti tra soprusi e privazioni.
È una questione di dettagli. Udito e vista plasmano le parole. Bisogna solo saperle raccontare, le storie, e non sempre ci si riesce.
L’origine dell’idea primordiale mi è sconosciuta. Più precisamente: non me la ricordo.
So solo che ero seduto al tavolo dello studio e guardavo i tanti bloc-notes, fogli volanti, retro di scontrini fiscali, articoli di giornale riempiti della mia calligrafia. Tracce per storie da ambientare in ogni luogo, in ogni tempo. Storie sentimentali, di coraggio, di infamia, d’allegria, di leggerezza. Si trattava di tutto il materiale rimasto fuori da quello che avevo scritto, concluso e pubblicato fino a quel momento. Dovevo trovare un punto di incontro.
Ho osservato quel mondo ancora da plasmare e ho deciso che serviva un collante per tenere insieme, in qualche modo, una quasi-sostanza non lineare. Dopo c’è stata una distratta e fugace seduta al PC. Internet, un mondo meraviglioso e devastante. Internet patria delle marginalità per gli amanti, come me, del borderline.
L’occhio mi è caduto su un trafiletto insignificante comparso su un sito di divulgazione sportiva. In un font dalle dimensioni molto piccole erano riportati i risultati degli incontri valevoli per le qualificazioni ai campionati mondiali di calcio del 2018, in Russia. Samoa-Papua Nuova Guinea 8 a 0. Nuova Zelanda-Vanuatu 5 a 0. Sul fronte caraibico: Curaçao-Cuba 1 a 1, Antigua-Santa Lucia 4 a 1.
Deve essere saltata fuori lì, l’intuizione: i campionati mondiali di calcio. Un evento che si ripete ogni quattro anni e che può fare da cornice, magari solo temporale e non fisica, a delle storie che meritano di essere sviluppate. Scrivere un romanzo a racconti che non parli di calcio, ma che usi il suo massimo avvenimento internazionale per raccontare altro. Un percorso attraverso la Storia. Un viaggio accidentale, pieno di ostacoli, bìvi e cattivi da affrontare o rifuggire.
Per mesi ho guardato sul PC spezzoni di partite quasi sempre finite nel dimenticatoio sportivo. Dalla prima edizione in Uruguay, nel 1930, fino all’ultima, in Brasile, nel 2014. Ho comprato L’Almanacco dei mondiali di calcio, pieno di statistiche, dati, aneddoti. I campionati del mondo affiancano l’avvento del nazismo, la Guerra di Spagna, le minacce di un conflitto atomico che verrà, il mondo nuovo, la caccia alle streghe, il rock’n’roll, le lotte di liberazione, Che Guevara, il Vietnam, le droghe, gli anni di Piombo, Pippo Baudo, l’eroina di Stato, la caduta dei miti e dei muri, l’avvento dei cellulari, la lobotomia sociale, la paura di baciarsi in pubblico, gli arabi buoni e quelli cattivi, l’Africa sospinta da un pallone, i forti che vincono nella politica e nello sport, i miracoli spostati sempre avanti, per un’occasione migliore, nel mentre, voi poveracci, continuate a prenderlo nel didietro. In fondo ci si abitua. No es así, compañeros?
Non mi interessa scrivere di calcio. Mi interessa avere dei punti fermi, delle date, dalle quali far partire le mie storie.
Il tempo passa, i piccioni stanno per concludere il rito, la distanza tra il comandante pennuto e i tre ritardatari si sta facendo drammatica: un altro giro e quelli si schiantano stecchiti a causa di un infarto.
Dal cortile provengono le voci di mia madre, di mio figlio e della mia compagna che stanno dando da mangiare alle tartarughe, Paco e Norman, rettili con ascendenze letterarie.
La giornata è afosa, il tasso di umidità sfiora il novanta per cento: Ferrara come Bangkok, senza l’inquinamento, i fish cakes e il Wat Arun. Luglio è appena iniziato e ci sono quaranta gradi percepiti nelle ore meno calde del giorno.
Il tempo passa, sudo e devo scrivere.
Rientro in casa e vado nello studio. I muri dipinti in azzurro provenzale, il pavimento di assi di legno scuro. Migliaia di libri sistemati sulle scaffalature, in colonne sbilenche che partono da terra e sopra il tavolino e il divano. Il vecchio giradischi di mio nonno ancora funzionante. Le pile di vinili sistemate in ordine dentro a cassette di legno. Il tavolo ricoperto di fogli sparsi, fotografie e bloc-notes. Il laptop e un posacenere colmo di mozziconi che emergono da quel mare di carta. Il tappeto blu bosniaco dove ho collocato un atlante geografico del 1962, cartelle contenenti articoli di giornale, istantanee, schemi geometrici e scalette narrative scritte in penna rossa.
Sono alla resa dei conti.
Deve venire fuori come il lunghissimo medley del lato B di Abbey Road dei Beatles nel quale i brani si susseguono senza soluzione di continuità, con temi ripresi e variazioni, per arrivare al celebre finale, in cui il potente crescendo introdotto da Carry That Weight si risolve all’improvviso nella delicata melodia di The End. Oppure, facendo un passo indietro nell’universo compositivo dei Fab Four, come l’attacco di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, fino a Lucy in the Sky with Diamonds o, ancora meglio, come il finale: l’aggancio tra la vibrante ed energica Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (Reprise) e l’inarrivabile A Day in the Life, regina di tutte le storie che siano mai state cantate. I read the news today, oh boy. About a lucky man who made the grade. And though the news was rather sad. Well I just had to laugh…
Un cane, in strada o in qualche cortile, abbaia. Forse ha caldo, forse è stanco di essere legato alla catena, forse ci sta mandando tutti al diavolo. Forse è semplicemente impazzito.
Mi guardo intorno, al centro del mio personale bazar creativo. Sulla libreria di fianco alla finestra i volumi degli autori che con le loro parole mi hanno aiutato, e continuano a farlo, nel mio percorso narrativo. Eccoli lì, Paco Ignacio Taibo II, Emilio Salgari, David Peace, Graham Greene, Norman Mailer, Hunter S. Thompson, Ryszard Kapuściński, Aidan Hartley, Elmore Leonard, Brain Gomez, Georges Simenon, Tom Robbins, Émile Zola…
Intorno a me appunti, fogli, giornali, riviste, libri consultati e studiati per mesi. Il cane abbaia e io sono alla resa dei conti.
Le storie vanno scritte.
Sul tappeto blu c’è un libro di V. S. Naipaul: La maschera dell’Africa. Si tratta di una raccolta di reportage dedicati alle credenze arcaiche e ai sacrifici rituali. Lo sfoglio e annoto delle parole su un bloc-notes.
Apro l’atlante. Nelle due pagine raffiguranti la cartina politica dell’Asia compare ancora, sbiadita, la mia calligrafia di seienne: Vietnam: 10.000 giorni di guerra
. Uno slogan scritto perché a quei tempi seguivo con incoscienza e curiosità un documentario che facevano alla TV che aveva quel titolo. La scritta sbanda verso il finale: rni di guerra
copre buona parte della provincia indonesiana di Giava.
L’atlante è il mio libro preferito. Senza l’atlante non sarei mai andato realmente, un giorno, in Vietnam, in Laos, in Francia, nello Yemen, in Thailandia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti… Devo dargli importanza: sarà il mio allenatore in seconda. Mappe, cartine, bandiere al mio servizio.
I mondiali come collante… George Bernard Shaw diceva che il calcio è l’arte di comprimere la storia universale in novanta minuti e penso possa essere un’ulteriore suggestione, utile per quello che voglio fare.
Da fuori il cane sembra proprio non voler smettere di abbaiare. Ha un timbro basso, gutturale e catarroso. È fastidioso e straziante.
Mi alzo, guardo i libri sul tavolo. La breve estate dell’anarchia. Vita e morte di Buenaventura Durruti di Hans Magnus Enzensberger, Arcangeli di Paco Ignacio Taibo II, I misteri della jungla nera di Emilio Salgari e Ama il prossimo tuo di Erich Maria Remarque. Anarchici, rivoluzionari, pirati e fuggiaschi nell’Europa degli anni Trenta.
Prendo appunti e consulto L’Almanacco dei mondiali di calcio. Guardando una foto dell’edizione del 1934 mi torna in mente di quando mio nonno mi ha raccontato della sua esperienza come manovale sottopagato a Tresigallo. Braccia tra altre braccia non pensanti, pronte a contribuire alla fondazione della nuova città fascista in mezzo alla campagna ferrarese.
Annoto. Rileggo. Studio. Ho sempre odiato l’approssimazione. Odio chi non è curioso. Diffido di chi, in un posto nuovo, su un bus, una macchina, un treno non guarda fuori dal finestrino. Di chi si limita a respirare. Un autore che non approfondisce gli argomenti su cui vuole scrivere vale come il più triviale degli uomini da social network che dà responsi per sentito dire. Manca di amor proprio per se stesso e per il proprio lavoro.
Il cane non la smette di abbaiare. Non gli si secca la gola. È la reincarnazione di Garmr, a guardia di Hel, la caverna d’accesso al regno dei morti.
Estraggo dalla custodia l’LP Electric Ladyland, il terzo e ultimo album della Jimi Hendrix Experience. Abbasso la puntina del giradischi nel solco del quarto brano del lato A. L’infinita ed espandente Voodoo Chile.
Riprendo il libro di V. S. Naipaul sulle credenze pagane d’Africa.
Stregoni, teste di gazzelle fracassate, spiriti degli antenati, riti di possessione e sacrifici umani.
Fa caldo. La stanza è un forno.
Userò il metodo di Georges Simenon mischiato a quello di Charles Bukowski, sempre che quest’ultimo ne avesse uno, con un pizzico di David Peace, Graham Greene e tanto, tantissimo dell’affiatata coppia Emilio Salgari e Paco Ignacio Taibo II. Assemblerò il tutto e diventerà il mio metodo. Il mio rituale di lettura, elaborazione e scrittura. Ogni giorno, dopo il rito dei piccioni, dopo pranzo e dopo cena. Tre ore al mattino, tre ore al pomeriggio, tre ore alla sera. Lettura e scrittura dirette.
È ora che queste storie trovino la loro collocazione.
I didn’t mean to take up all your sweet time…
I’ll give it right back one of these days…
La giustizia individuale di Ricardo Brau
Uruguay, 1930
Finale
Uruguay-Argentina 4-2
Io decido se è la cosa giusta per me.
Max Stirner
Ricardo Brau si era imbarcato verso le otto del mattino al porto di La Plata insieme agli oltre diecimila tifosi argentini in fermento. Era disarmato, e fu una fortuna perché, quando ore dopo giunse all’ingresso