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Il dolore segreto
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Il dolore segreto

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La Trento degli anni ‘60, città poco allegra, chiusa nella sua incerta identità,dominata da un cattolicesimo ancora saldamente al potere e orgogliosamentetrionfante. Un piccolo mondo che resisteva al cambiamento vorticoso chetutta la società italiana si apprestava a vivere, timoroso (ma al tempo stessocurioso) di fronte all’ onda gigantesca chestava travolgendo riti, sicurezze,tradizioni, l’ordine costituito, alzando il velo sulle ipocrisie e il perbenismo.Una vita di provincia ormai consegnata alla storia vista attraverso gli occhiingenui di un bambino. Uno sguardo-indagine non solo su un’epoca, masoprattutto sullo sviluppopsicologico e spirituale di una generazione.
LanguageItaliano
Release dateJun 26, 2020
ISBN9788835855576
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    Il dolore segreto - Zorzi Bruno

    Il dolore segreto

    Bruno Zorzi

    Il dolore segreto

    A Lisa

    La paura del mondo e di stare al mondo la provai per la prima volta, così almeno mi sembra, a dieci metri dal ponte che scavalca il Fersina. Il ponte quello più su, quello di piazza Vicenza. Se non era il ’64 era forse il ’63 che mi pare sia l’annoche in America, a Dallas, ammazzarono con due fucilate di un vecchio 91-38 il presidente Kennedy.

    Secondo me, ma non so perché, era un giovedì. Mia madre disse a nonna Paolina qualcosa come: Vesti il bambino e portalo fuori. E mia nonna, con la faccia dura perché era chiaro che non ne aveva tanta voglia, mi vestì e prendendomi per un braccio in modo un po’ selvaggio mi portò sulla strada. Era caldo, la luce era molta, forse c’era foschia. Le foglie sugli alberi erano una folla. Può darsi fosse maggio. Anzi, era maggio di sicuro perché c’erano i maggiolini. C’erano ancora i maggiolini, per loro la soluzione finale non era ancora arrivata e, con molta probabilità, lo sciame che mi capitò di incontrare quel giorno rappresentava già una minoranza di resistenti che i veleni gettati copiosamente nelle campagne, in preda ad un delirio progressista, non erano ancora riusciti definitivamente a stroncare.

    Quasi sul ponte che va su piazza Vicenza, come due puntini, ancor meno di due puntini, c’eravamo, in quel pomeriggio di un maggio lontano, io e mia nonna. Io avevo addosso una maglietta blu e i pantaloni grigi, ai piedi i mocassini, quelli belli che però mi facevano male dietro, sul calcagno. A forza di metterli, sopportando, mi avevano fatto venire piaghe così che mi mordevano anche di notte e si attaccavano alle lenzuola. Alla lunga mi era venuta anche un’infezione e i miei erano stati costretti a farmi fare le pantofole come quelle dei vecchi, quelle con la cernieradavanti, che per mesi e mesi misi ogni mattina con vergogna. Lei, invece, addosso aveva un vestito che era sempre quello: grigio, grigissimo con dei lavoretti fini fini che allora si usavano. Uno straccio da fiera; più o meno uno straccio che si trovava solo in fiera o in un negozio vicino al castello del Buonconsiglio. Che era, intendiamoci, un ottimo negozio e c’è ancora, ma già allora era una delle poche, come le chiamo io, macchine del tempo. Per me piccolo addirittura l’unica dell’intero globo, di sicuro era la sola macchina del tempo di Trento. Uno entrava e si trovava quarant’anni prima. Tutto immobile da chissà quando, merce compresa, commesse comprese, padrone comprese.

    Mia nonna aveva addosso questo vestito da vecchia e, del resto, vecchia lo era. Avrà avuto allora una sessantina d’anni e nel ’63 a sessant’anni si era già tanto vecchi. Non c’era né fitness né lifting; erano ancora gli anni nei quali, passata la cinquantina, come svago e gioia di vivere, potevi scegliere tra le messe cantate e il rosario. E così tra funzioni e orazioni uno scendeva la scala a chiocciola che lo portava al trapasso. Magari alla tomba uno ci arrivava, come si diceva spesso allora, preparato, ma più probabilmente, a mio sommesso avviso, ci arrivava talmente intristito che non vedeva l’ora di scegliersi la foto migliore per la lapide, tirare i piedi e salutare per l’eterno i congiunti.

    Lei era annoiata e pensava che a casa era rimasto ad aspettarla un lavoro da finire. Sarà stato magari un maglione; no forse no, che era quasi estate. Ecco, potrebbero essere stati un paio di pantaloncini per me. O magari era solo una scusa con sé stessa per rientrare un poco prima da quel giro all’aria.

    Io guardavo il Fersina e quant’era sporco. C’erano catini di Moplen; c’erano sacchetti e sacchetti di plastica e c’erano chissà quante, ma comunque tante, bottiglie anche loro di plastica. Anche una che a me sembrò di varechina. Anzi, sono sicuro che era di varechina perché c’era su il teschio con gli altri due ossi in croce e mio padre mi diceva che se su una bottiglia c’è il teschio con le tibie si deve stare alla larga, bocia. Perché è varechina o comunque è veleno.

    E anche l’acqua non era bella. E posso dire oggi, senza temere una richiesta danni da parte dell’Azienda di promozione turistica, che faceva proprio schifo: c’era attorno alle cascatelle una schiuma bianca-bianca che a me sembrava enorme, e probabilmente lo era. La schiuma però in fondo mi piaceva: mi sembrava qualcosa di allegro perché era come quella che, prima che mia madre arrivasse a sgridarmi, facevo io col Tide nel bidè. Se c’era il sole forte, poi, nelle bollicine si vedeva quasi tutto l’arcobaleno e il bianco attorno alle bolle più grandi era davvero bianchissimo.

    La tenevo per mano, o ad essere più precisi, era lei a tenere per mano me. E mi piaceva tanto stare nella sua mano anche perché potevo vedere più da vicino l’anello con la pietra rossa. Era un rosso cupo, che era rosso come il sangue che ha appena fatto la crosta. Il sangue non quand’è già secco ma quando non è più del tutto liquido e non ancora del tutto solido. Con lo sguardo passavo dal torrente, e i suoi tanti schifi, all’anellino. Lei diceva che era l’unica cosa che le aveva lasciato sua madre e quindi più che un’eredità era un ricordo. La sua mano era ruvida e a me sembrava anche come una radice perché era piena di nodi, di cose dure e storte. Mi sembrava carica di dolore, pesante di dolore. Tenere la mano nella sua mi piaceva, ma avevo anche l’idea che fosse una cosa troppo importante per uno così piccolo. La mano di mia nonna era troppo antica per me che al mondo c’ero da così poco tempo. Su quel palmo c’era passato troppo lavoro, troppo di chissà quante cose.

    Eravamo a dieci metri o poco più dal ponte e non ci accorgemmo fino all’ultimo di nulla. Secondo me era un G.91, di sicuro passò a cinquanta metri nemmeno da terra e dentro vidi anche il pilota col casco bianco e lo vidi anche farmi ciao con la mano. Mi venne incontro anche l’aria calda del reattore, e poi c’era il male forte nelle orecchie e qualcosa che mi correva dentro e che andava avanti e indietro dal terrore all’entusiasmo. La mano di mia nonna si serrò sulla mia e l’anello che era stato di sua madre si piantò da qualche parte. Ma fu un dolore inutile perché io non lo potevo sentire, sballottato com’ero tra la gioia perché il pilota mi aveva salutato con la mano e il terrore che il frastuono mi aveva infilato dentro.

    A dirla tutta, se mia nonna non avesse urlato: vieni via che bombardano, se non mi avesse strattonato fino a farmi venire un braccio lungo così, il ciao-ciao del pilota sarebbe bastato a calmarmi. La contraddizione, del resto, anche se le mie capacità logiche erano ancora quelle che erano, l’avevo colta: se l’aviatore mi salutava voleva dire che non aveva intenzione di bombardarci. Perlomeno non avrebbe avuto senso salutare due che stava per ammazzare. Però la mano tenagliosa di mia nonna diceva che non ci si doveva fidare, che la contraddizione, appunto, tra il ciao-ciao, lo sgancio di una bomba e l’azionamento delle mitragliatrici, era solo apparente e comunque assolutamente non necessaria. Con la sua stretta mi diceva che nelle faccende riguardanti l’umanità non sempre, anzi quasi mai, ciò che appare è reale e viceversa. Questo il succo.

    Per questo prevalse il terrore. Il rombo tonante del G.91 mi invase come una fiammata. Mi vidi correre trascinato dalla mano forte della nonna, ma non mi bastò: volevo andare ancora più forte, più forte, lontano, lontano da lì, e allora ero io che trascinavo la vecchia massiccia. E, tirandomela dietro io piccolo e lei quasi pachidermica, ansimante, la fronte tutta bagnata di sudore, che trascinava i piedi come fossero pietre, mi precipitavo giù per la strada in discesa con un male puntuto in un fianco che pensavo: Maledetta milza, sempre male mi fa quando corro in discesa. Giù di corsa incalzati da una specie di melma fatta di paura e di angoscia, tra male alla milza e i rantoli asmatici della nonna che ormai avrebbe preferito un proiettile in testa a quel calvario. Giù per quella discesa mentre l’aereo spariva lontano e con lui il rumore e quindi il timore e il tremore.

    Quando mi fermai il cuore mi faceva male, mi batteva troppo forte nella testa. Tanto forte che nel naso sentivo l’odore del sangue e del sapore del sangue avevo piena la bocca. Mia nonna respirava a fatica ed era grigia, un grigio da morta che me ne fece presagire la fine ormai non molto lontana.

    Si sentiva così male che non lo fece vedere, penso per non spaventarmi. Con gli occhi incavati ma fieri guardava verso casa con un aspetto duro come al solito, anzi più del solito. Lo sguardo di chi sta per vendicarsi. E già si vendicava su di me, non so di che cosa, ma si vendicava stringendomi la mano con tutta la sua forza e piantandomi ancora più a fondo l’anellino con la pietra rosso cupo che ormai mi sembrava una goccia del mio stesso sangue.

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