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Ciò che è stato non si cambia
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Ciò che è stato non si cambia

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About this ebook

Federica e Paola, amiche fin dall’infanzia, gestiscono insieme un laboratorio di pasta fresca nella loro città, Varese. Una vita come tante, finché qualcuno comincia a inviare a entrambe strani messaggi.  Paola pensa a uno scherzo, Federica invece pensa a uno stalker. Un’effrazione in casa la spinge a chiedere aiuto a Edoardo Perozzi, un amico ex poliziotto.
Pochi giorni dopo, Paola muore investita da un’auto pirata. Incidente o omicidio?
Il Perozzi decide di indagare, coadiuvato dell’ispettore Livio Fabbro. Con l’aiuto di Federica e grazie a ricerche serrate, scoprono un sentiero che porta lontano, indietro nel tempo, tra segreti e morti inspiegabili.
Il passato, anche se dimenticato, ci cerca, ci segue e spesso ci ritrova, perché ciò che è stato non si cambia e prima o poi presenta il conto.
LanguageItaliano
Release dateJul 21, 2020
ISBN9788894806892
Ciò che è stato non si cambia

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    Ciò che è stato non si cambia - Sergio Cova

    SERGIO COVA

    PATRIZIA EMILITRI

    Ciò che è stato

    non si cambia

    EDIZIONI IL VENTO ANTICO

    PAGINA DI BENVENUTO

    Inizia a leggere

    Informazioni su questo libro

    Informazioni sugli autori

    Copyright

    Indice

    Collana

    Limoni & Carboncini

    ABOUT THE BOOK

    Federica e Paola, amiche fin dall’infanzia, gestiscono insieme un laboratorio di pasta fresca nella loro città, Varese. Una vita come tante, finché qualcuno comincia a inviare a entrambe strani messaggi. Paola pensa a uno scherzo, Federica invece pensa a uno stalker. Un’effrazione in casa la spinge a chiedere aiuto a Edoardo Perozzi, un amico ex poliziotto.

    Pochi giorni dopo, Paola muore investita da un’auto pirata. Incidente o omicidio?

    Il Perozzi decide di indagare, coadiuvato dell’ispettore Livio Fabbro. Con l’aiuto di Federica e grazie a ricerche serrate, scoprono un sentiero che porta lontano, indietro nel tempo, tra segreti e morti inspiegabili.

    Il passato, anche se dimenticato, ci cerca, ci segue e spesso ci ritrova, perché ciò che è stato non si cambia e prima o poi presenta il conto.

    UNO

    La porta scivola leggera sui cardini…la prima busta gialla.

    Mi fanno male i piedi. E le gambe, le spalle, le braccia. Sono stanca e arrivare alla porta di casa spero sia l’ultima fatica della giornata.

    Sosta davanti alla fila delle cassette della posta. Solo la mia è piena. Sarà una settimana che non la apro. Gli altri condomini, invece, ne fanno un rito quotidiano. Tutti perfetti, loro.

    Le solite pubblicità e buoni sconto, oltre a un sollecito per il pagamento delle spese condominiali. La nota precedente me la sono dimenticata in fondo al cassetto delle cose inutili.

    Salgo le scale strappando i fogli colorati. Li metterò nella spazzatura, perché questa storia del riciclo dei rifiuti mi ha invaso il balcone di bidoni e la scatola della carta è ormai piena da tempo. Mi ricordassi mai il giorno del ritiro.

    Le chiavi entrano nella serratura e la porta scivola leggera sui cardini. L’umidità di questa giornata autunnale si è infilata attraverso la finestra socchiusa. Perché non ho abbassato la tapparella?

    Perché ieri sera c’era un magnifico film alla televisione e il fresco della sera si accompagnava bene alla lattina di birra gelata, alla ciotola di patatine e alle battute di George Clooney. Il riscaldamento centralizzato non mi permette di regolare la temperatura, qui fa sempre troppo caldo. Vivo tutto il giorno tra forno e fornelli, un po’ di fresco mi fa piacere. Poi, con il cuore pieno d’amore, gli occhi pieni di sonno, lo stomaco pieno di calorie che si trasferiranno stabilmente sui miei fianchi, mi sono trascinata tra le lenzuola, quelle con sopra i cagnolini che mi ha regalato mia madre a Natale.

    Tanto i miei chili in più non li vedrà nessuno. Un bel pensiero per una trentacinquenne. Non ho un uomo da quanto? Sei mesi? Sette? Come si chiamava? Arturo, Alfonso, forse Antonio. È durato il tempo di un Capodanno da favola a Londra e una settimana bianca a Ortisei. Tutto pagato da me. Forse per questo l’ho piantato. E dimenticato, cancellato.

    Ho avuto un quasi marito, anzi, due, eppure ho sempre dovuto lavorare per assicurarmi la sopravvivenza. Il primo quasi marito mi ha alleggerito dei miei risparmi, prima di andarsene con la polizia alle calcagna. Un sedicente finanziere che aveva investito i soldi di molti risparmiatori, tra i quali c’ero io, in una società che non è mai esistita. Lo hanno trovato disteso come un canotto nel mare calmo davanti a Taormina, e arrestato.

    Il secondo quasi marito, Pietro, avvocato, ha messo incinta la sua segretaria. Una splendida ragazza russa di vent’anni. Peggio per lei. Gli avevo anche regalato il decoder e l’abbonamento per vedere le partite di calcio. L’ho disdetto subito.

    Appoggio la spesa sul tavolo della cucina e continuo l’opera di distruzione dei volantini. Toh! Ho vinto una vacanza a Tahiti. Questo, invece, mi presta diecimila euro a tasso quasi zero. È quel quasi che m’insospettisce. Un altro mi promette che dimagrirò venti chili per il prossimo autunno, oppure smetterò di fumare in sole tre sedute da cento euro l’una. Una busta gialla, di quelle formato pagina di quaderno, attira la mia attenzione.

    Non l’avevo notata, nascosta tra le offerte di forniture di carta igienica.

    Federica Anselmi, Via Caracciolo, 22 Varese.

    Sono io. Non c’è il mittente. Non un timbro o un logo per avvisarmi di ciò che troverò all’interno. Non ho più voglia. Butto tutto nella spazzatura.

    Vado in bagno e apro la doccia. Il sudore della giornata mi si è appiccicato addosso come si appiccica alle tende l’odore di fritto della signora Maria del primo piano.

    Oggi sono peperoni. Annuso la tenda bianca alla finestra. Sì, peperoni. Invidio la sua capacità di digestione.

    Bagnoschiuma, shampoo, un po’ di tonico sul viso e mi sento rinata. Getto i batuffoli di cotone nella spazzatura e la busta gialla è sempre lì. La prendo. Dovrei proprio aprila. Mi chiedo se ne valga la pena o se è meglio usare la stessa tecnica che adopero per il telefono.

    Non rispondo mai alle chiamate se sul display appare la scritta Sconosciuto.

    Non ho molti amici, anzi, forse nessuno, a parte Paola che mi sopporta dalle scuole elementari, quindi, chiunque voglia parlare con me, faccia il piacere di annunciarsi. Non mi piacciono le sorprese. Nemmeno quelle nascoste sotto i fiocchi dei pacchi natalizi.

    E se fosse ancora l’amministratore? Mi dà il tormento perché parcheggio il motorino accanto al garage.

    - Signorina Anselmi, quando imparerà che deve parcheggiare all’interno della sua autorimessa?

    Ma per farlo devo aprire la serranda. E poi dentro ci sono la mia Smart bianca e scaffali pieni di roba. E gli sci, gli scarponi, l’angoliera di legno scuro che ancora non ho deciso dove mettere, chissà poi perché l’ho comprata, una scarpiera zeppa di calzature che non si sa mai tornino di moda, e un armadio a due ante dove ripongo le coperte pesanti. Il motorino sta bene dove sta.

    Intanto torno in bagno per asciugare i capelli o la mia cervicale mi terrà sveglia tutta la notte.

    Con questa convinzione, prendo la lima per le unghie dal bicchiere degli spazzolini. Uno scatto sotto l’aletta incollata. C’è solo un foglio bianco ripiegato. Lo apro.

    Anna Giulia.

    È scritto a computer, caratteri grandi abbastanza da scrivere il nome su due righe.

    Riguardo l’indirizzo e il nome sulla busta. È per me, non ci sono dubbi, ma Anna Giulia chi è?

    Che cosa significa?

    Ripasso mentalmente il nome delle persone che conosco e dei miei clienti, almeno quelli abituali. Anna Giulia, un nome così particolare me lo ricorderei. Magari si fa chiamare solo Anna? O Giulia? Che siano due nomi di persone diverse? Una è Anna, una Giulia. Ma chi?

    Forse è la pubblicità di una nuova linea di lingerie? Potrebbe essere. È un nome che ricorda grandi tette e fianchi abbondanti.

    Getto foglio e busta nel water. L’amministratore potrebbe bruciarmi viva se mi vedesse.

    Rosicchio un paio di crocchette di patate e una carota fresca. Non ho molta fame. Un paio d’ore inutili davanti alla televisione mentre la lavatrice completa il ciclo di lavaggio dei colorati, sperando di non aver fatto un disastro come l’ultima volta. La maglietta rossa stavolta l’ho lavata a parte. Non si sa mai. E poi a letto.

    Anna Giulia, ripeto, prima di cadere nel sonno dei giusti.

    Paola è ancora in ritardo. Possibile non riesca mai a prendere l’autobus delle sette e trenta?

    Apro la saracinesca e noto che, come al solito, qualcuno ha pisciato contro la porta e sull’insegna Pasta e pasta, c’è dello sputo secco.

    Potessi permettermelo, cambierei la serranda. La metterei chiusa e non a griglia come questa. A cosa serve, poi? Con una spallata esce dalle guide. Ma se anche entrasse un ladro cosa potrebbe rubare? Farina? Mozzarella? Spinaci congelati?

    La Via Como, dove lavoro, è abbastanza vicina alla stazione, abbastanza vicino al centro, abbastanza vicina a molti uffici pubblici e al Tribunale. Ma sempre abbastanza. E abbastanza non è abbastanza.

    Certo mi piacerebbe spostare il negozio in una zona più centrale, per lo meno più illuminata, ma gli affitti sono cosa da togliere il sangue, e le entrate, anche se buone, non sono sufficienti per il Corso Matteotti o la Via Morosini o Piazza della Motta.

    Dobbiamo sopravvivere, io e Paola, pagare il mutuo dell’appartamento da single e le bollette, la spesa e i divertimenti. Soprattutto i divertimenti. E qualche fine settimana a Santa Margherita d’estate e a Cervinia d’inverno.

    Apro i frigoriferi e prendo i contenitori della pasta preparata ieri sera, abbastanza da riempire la vetrina per le prossime ore. Intanto preparerò qualche agnolotto con spinaci e ricotta, qualcuno con la zucca che ho già tagliato e altri con melanzane e capperi.

    Ai miei clienti piace la varietà. Poi oggi è mercoledì, mia madre va dalla parrucchiera alla Brunella, passerà a salutarmi. Le darò un vassoio per lei e papà. Qualcosa anche per il gatto Ulisse.

    Paola entra trafelata.

    - Scusa il ritardo, l’autobus era pieno di studenti e mocciosi, forse vanno in gita da qualche parte. Ho dovuto aspettare l’altro.

    - C‘è piscio e sputo da pulire.

    - Sputo?

    - Sì, oggi doppio regalo.

    Mi piacerebbe vedere la faccia di uno che sputa su una vetrina. Un marocchino ubriaco, un ragazzino fatto di droga…

    - Magari invece è il ragioniere del piano di sopra.

    - Dici?

    In effetti il ragioniere ha un’espressione losca. O forse solo idiota.

    - Dico che non so più cosa passa nella testa delle persone, a volte nemmeno nella mia. Lava anche il marciapiede.

    Sì, perchè le signore del palazzo amano far cagare e pisciare i loro teneri cuccioli proprio qui davanti.

    Indosso il grembiule Birra Poretti e tolgo la pasta dall’impastatrice. Dovrà risposare un’oretta prima di poterla stendere. Intanto gli spinaci sono in pentola, le melanzane sotto sale e la zucca si asciuga in forno.

    - E se facessimo un po’ di arancini? - propone Paola con il secchio e lo spazzolone tra le mani.

    - Non c’è ragù e dobbiamo finire i cannelloni di ieri o li dovremo buttare.

    - Li rifilerò alla signora Marina, quella compra sempre quello che le consiglio.

    Mia madre, come immaginavo, varca la porta verso mezzogiorno con la testa bianchissima e riccioluta.

    - Ho fatto la permanente, così per un par de mes sono a posto.

    Mia madre, varesina doc, non riesce mai a dire una frase intera in italiano. Mio padre, invece, proprio non se lo fila l’italiano. Sono così abituata che quando parla traduco in simultanea per essere pronta a rispondere. Non che m’interessi rispondergli. Nemmeno parlargli. Non ci prendiamo proprio e dopo la mia storia in Questura di quasi vent’anni fa, quando mi ha invitato a lasciare la sua casa, ci sopportiamo per educazione. Ci vediamo pochissimo, forse due, tre volte l’anno.

    È un pensionato Aermacchi, uno di quelli che crede di aver costruito ogni aereo che passa in cielo. Lavorava in magazzino, non l’ha mai neanche visto un aereo. E non ci è mai nemmeno salito su un aereo, Aermacchi o no.

    Si reputa persona onesta e gran lavoratore solo perché ha piegato il capo per quarant’anni dalle otto del mattino alle cinque del pomeriggio. Mi vergognavo quando lo vedevo scendere dal pullman con la scritta Aermacchi sulla fiancata. I padri di tante mie compagne di scuola a lavorare ci andavano in automobile, con la giacca e la cravatta. Mio padre o usava l’autobus o la bicicletta.

    Non ha mai preso la patente, e anche di questo si vanta.

    Non ha contribuito all’inquinamento in città, dice. Non ha mai pensato a quante volte mia madre ha trascinato le borse della spesa lungo la strada. Non ha mai considerato altri che se stesso. Rientrava dalla fabbrica, si lavava le mani, si sdraiava sul divano in cucina e aspettava l’ora di cena davanti alla televisione.

    Il guerriero tornato dalla battaglia.

    Mia madre rientrava dalla maglieria dopo di lui. Una giornata seduta alla tagliacuci. Seduta, appunto, diceva mio padre. Come se mia madre si sollazzasse in quel capannone, troppo freddo d’inverno e troppo caldo d’estate.

    Lei posava la borsa, si cambiava, indossava il suo grembiulone a fiori e mentre la minestra cuoceva, correva da una stanza all’altra del nostro misero appartamento vicino al cinema Vela. Apriva le finestre delle due stanze e dava aria ai letti, intanto ripiegava la biancheria, puliva il bagno e girava il ragù. Toglieva la polvere dal mobile della sala e impanava quattro fettine di pollo. Allungava per bene i piumoni sui letti e condiva l’insalata. Quando si sedeva con me e papà, dalle labbra sottili usciva un sospiro. Ogni sera. E ogni sera mio padre la faceva alzare due o tre volte per il sale, lo zucchero, i grissini, la grappa da mettere nel caffè.

    No, mio padre non era un onesto e retto lavoratore, era un lavativo, senza educazione, prepotente e presuntuoso. Se non avesse lavorato anche mia madre, col cavolo che saremmo arrivati alla fine del mese. Nella sua vita non è mai andato oltre il necessario. Non ha mai comprato una casa, per esempio. Ancora oggi mia madre conserva in un quaderno i soldi per l’affitto. Li preleva all’inizio del mese dal conto in posta, dove, come dice lei, va su la pensione.

    Dice che è meglio metterli via subito, mica di spenderli prima e poi trovarsi col culo fuori dalla porta. Mio padre non l’ha mai portata in vacanza, e nemmeno me, le ferie le trascorrevamo in un paesino sul lago d’Iseo dal fratello di papà, zio Mario, dove occupavamo una stanza al primo piano e dove mia madre doveva sfacchinare per tutti a preparare pranzi e cene, lavorare l’orto e accatastare legna per sdebitarsi dell’ospitalità.

    Mio padre prendeva una sedia a sdraio di plastica alle prime ore del mattino e se la toglieva da sotto il culo per andare al cesso o a dormire.

    Da bambina per parecchio tempo ho creduto che le famiglie normali fossero tutte così. Poi ho capito. Eravamo degli alieni, gente di un altro pianeta. Ricordo cosa provai quando una mia compagna di scuola mi invitò a cena a casa sua. Abitava poco fuori Varese, in un appartamento ampio e luminoso. Sua madre accudiva la mia amica e altri tre fratellini. Come diceva mio padre, quella non lavorava. Eppure, il marito aveva preso la tovaglia, tovaglioli, piatti, bicchieri e aveva apparecchiato la tavola sul terrazzo e aveva fatto avanti e indietro per servirci cibo e bevande. E come chiacchieravano marito e moglie. Ridevano e si guardavano con complicità, come se ci stessero preparando uno scherzo.

    Ricordo cosa provai. Rabbia. Una rabbia che non mi ha più abbandonata.

    Anche la famiglia di Paola era diversa. Suo padre era un postino, sua madre era commessa alla Standa. Marito e moglie dividevano impegno e confidenze.

    Be’, mi dicevo, la famiglia è cosa che non si sceglie, ma porca miseria, il Creatore poteva sceglierne una migliore per me.

    Quella denuncia era stata una benedizione, in fondo. Avevo sbattuto la porta e me n’ero andata volentieri.

    Avevo solo diciassette anni e gli anni Novanta, prepotenti, chiedevano notti in discoteca, libertà sessuale e qualcosa per sballare ballando.

    Non che mi facessi di chissà che cosa. Qualche spinello, quando la mancia del sabato era sufficiente a comprarlo o quando un ragazzino credeva di ammorbidirmi con una canna.

    Nelle sere d’autunno, quando il fresco e l’umidità rendevano impossibile la serata seduti sul bordo della fontana di Piazza Montegrappa, con gli amici, ci spostavamo sotto il portico di fianco alla chiesa di San Vittore. Fu lì che una pattuglia di polizia ci chiese i documenti e la bustina di erba scivolò dalle mie tasche.

    Questura, telefonata a casa e segnalazione come consumatrice abituale di droga. Si risparmiarono la denuncia per spaccio perché, oltre a quella bustina, di droga non ne avevo altra.

    Venne mia madre a prendermi. Mio padre aspettava a casa.

    Quando entrai mi fece sedere sul divano con uno spintone e iniziò a gridare che suo padre aveva fatto la Resistenza, che il nostro cognome era riportato su una targa in città con gli altri combattenti, che mia nonna quasi ci rimaneva sotto i bombardamenti del ‘44, che aveva sconfitto il freddo e la fame con la forza dei suoi valori che pensava io avessi ereditato da tanto buon esempio. Lui si spaccava la schiena perché io potessi vivere in pace e libera, non perché mi ammazzassi con la droga.

    Frugò ogni angolo della mia stanza, buttò sottosopra il materasso, gettò dalla finestra del quinto piano tutti i miei vestiti e i miei dischi, i miei diari. Cercava droga in casa sua e se l’avesse trovata, Dio gli era testimone, mi avrebbe ammazzata di botte. Non trovò nulla perché non c’era niente da trovare.

    Mi trascinò alla porta, urlò che non si sarebbe sputtanato per me. Dovevo andarmene. Mia madre piangeva e ripeteva "Oh Signur, Oh Madona, Oh Signur", ma non si mise tra me e papà e non mi salutò quando me ne andai.

    Raccolsi dal selciato del cortile tutto ciò che mio padre aveva gettato e intanto pensavo a cosa avrei fatto, dove sarei andata.

    C’era una sola soluzione.

    Dopo la terza media avevo deciso che la scuola non faceva per me. Ne avevo avuto abbastanza di regole più o meno severe e professori antipatici. Avevo trovato lavoro grazie all’aiuto del parroco al quale si era rivolta mia madre. Tuttofare e cameriera nel ristorante Maria Pia alla Schiranna. Aiutavo il proprietario e chef eccezionale Felice Chinali, mantovano e sua moglie Antonietta, parmense. Un’accoppiata vincente quei due, la cucina ce l’avevano nel dna. Riuscivano a trasformare qualsiasi alimento in ottime pietanze.

    Prendevo servizio alle dieci del mattino e lavoravo fino alle quattordici. Riprendevo alle diciotto, ma raramente tornavo a casa. Nella bella stagione mi sdraiavo in riva al lago e d’inverno raggiungevo qualche amico in centro. Terminavo alle ventidue, ma d’estate, quando erano completi anche i tavoli all’esterno, mi fermavo finché serviva. Non mi aspettava nessuno. I miei genitori erano già a letto quando rientravo e già usciti quando mi alzavo al mattino. Meglio così.

    Potevo andare solo lì, al Maria Pia. Sopra al ristorante c’erano un paio di locali, uno dei quali utilizzato come magazzino per le scorte di cibo e l’altro parzialmente riempito di scope e stracci. Magari avrei potuto chiedere un angolino, almeno fino a quando non fossi riuscita a cavarmela da sola. Avrei potuto chiedere ospitalità alle mie amiche Eleonora e Paola, ma no, le loro famiglie sapevano cos’era successo, Paola era con me quando ero stata arrestata, Eleonora no, ma solo perché bloccata a letto con la tonsillite. Erano famiglie che si vantavano dei loro valori, come mio padre e non avrebbero mai ospitato una tossica in casa loro. Mi volevano bene, ma, pensavo, non fin a quel punto.

    C’era anche il convento delle suore alla Brunella, sapevo che davano riparo a ragazze in difficoltà, ma non era il mio caso. Non ero una moglie maltrattata, una ragazza abusata, ero solo una deficiente che si era fatta beccare con uno stupido e misero sacchetto di marijuana.

    Tutto questo pensavo mentre scendevo a piedi verso la Schiranna. Qualche chilometro, avrei potuto prendere l’autobus, ma volevo pensare, ragionare e, anche con il peso di tanta roba tra le braccia, camminare era la cosa giusta e, pensavo, anche una punizione. E ancora peggio sarebbe stato se Felice e Antonietta mi avessero detto di no e magari mi avrebbero anche licenziata.

    Invece mi ascoltarono. Certo, ripulii un po’ il racconto dei fatti, giurai che quella droga non era mia, che qualcuno me l’aveva infilata in tasca, che in effetti sì, io qualche spinello lo avevo fumato, pochissime volte, non mi era nemmeno piaciuto e non lo avrei fatto mai più. Mi credettero, mi abbracciarono e Antonietta costrinse Felice a portare di sopra nella stanza delle scope, come la chiamava lei, il letto di metallo che era rimasto in garage da quando una sua cugina se n’era andata e che proprio in quella camera c’era stata per anni. Non chiesi in che senso se n’era andata, magari era morta e allora quel letto mi sarebbe sembrato un letto di spine e li ringraziai con la promessa che me ne sarei andata prima possibile.

    Riordinammo tutto, l’armadio degli stracci accolse invece i miei pochi abiti sporchi per il tuffo dalla finestra e pulimmo il bagnetto adiacente: un lavandino, una doccia e un water. Era abbastanza. Prima di tornare a casa loro, a Gavirate, a qualche chilometro di distanza, mi fecero mille raccomandazioni. Sarei rimasta sola con Scalpo, il meticcio di grossa taglia trovato un anno prima abbandonato proprio sulla statale di Gavirate. Si chiamava così perché gli mancava il pelo sulla testa, calvizie dovuta a una ferita provocata da un’auto mentre girovagava spaurito.

    Dissero che erano contenti che avessi pensato a loro ma, se avessero anche solo sospettato la presenza di droga nella stanza o nei miei polmoni, avrei perso casa e lavoro prima di dire amen.

    Si resero disponibili per intercedere con mio padre. Potevano convincerlo a riprendermi in casa, a perdonare una ragazzina?

    Gli chiesi di non farlo. Magari tra un po’, dissi.

    Stare sola non mi faceva paura, stavo bene, mi facevo compagnia. Per la mia sicurezza Scalpo poteva bastare, ci volevamo bene io e lui. Poi, in caso di pericolo avrei potuto chiamare il ristorante Miralago accanto

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