Grand Hotel: Romanzo sopra le nuvole
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Book preview
Grand Hotel - Jaroslav Rudis
Tavola dei Contenuti (TOC)
I.
Salgo in alto
II.
Il macellaio
Lo stato dell’anima
Una lavatrice dell’aria
Adepto del futuro
Vivo e lavoro proprio qui
Il cielo è ancora azzurro
Il gobbo
Tra l’Islanda, le isole Orcadi e l’Irlanda
Correnti d’acqua
L’osservatore delle nuvole
L’autostrada Praga-Brno-Paradiso
Il mimetismo
Il tornado da Oriente
Lo sviluppo della crisi 6
Una storia per la dottoressa
Pillole e ancora pillole
L’elenco dei meritevoli
Tre chili di arance
Occhi e fulmini
La tabella di marcia
Il sogno
Chiaro come il sole
La parola più bella della Germania Est
Stalingrado
Quattro punti
Sole di primavera
Una vita felice
I peli
Le risse
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Chi è più sensibile
Ilja
In attesa delle nuvole
Due gradi
Il centro dell’Europa
La banda della tuta
L’effetto farfalla
Dove sta il busillis
La nebbia non è una nuvola
Giorni da cani
Unicità
Kinderkill al cento per cento
Morire per qualcosa
Il cumulonimbus capillatus incus
L’infinito
La vista dall’alto
La pace assoluta
Nome in codice Ještěd
Il museo del blocco orientale
Il punto di rugiada
Tre peli
Giustizia
Chi scappò e chi cercò di spegnerlo
Il fumo
Il vento
Alois Schräg
Fulmini dentro di noi
Il costume da bagno arancione
L’anno americano
Venti corse
Un passo nel vuoto
Del tutto normale
La cerbiatta
Nel cestino
Come le sardine
Il passato
Molto di più
Attraverso il cielo
Gli amori del jukebox
Il numero fortunato
Il cacciatore
Il centro della vita
In bocca al lupo
La volpe
Chi si sporge dove
Pillole
Rudi Schlitzer
Click
Accartocciare e buttare
L’orologio a cucù
Le fotografie
Reinhard Franz
Gott del crematorio
Andare al proprio funerale
amore.com
Le persone sono come le nuvole
Il mio vento
III.
Le dimissioni
Fragore
Silenzio
NováVlna
( 6 )
© 2006 Labyrint
© 2019 Miraggi edizioni
via Mazzini 46 – 10123 Torino
www.miraggiedizioni.it
Titolo originale dell’edizione ceca:
Grandhotel, Labyrint, Praha 2006
Translation of this book was realized with the support
of the Ministry of Culture of the Czech Republic
Ringraziamo il Ministero della Cultura
della Repubblica Ceca per il sostegno
alla traduzione e alla pubblicazione
Progetto grafico Miraggi
Finito di stampare a Chivasso nel mese di ottobre 2019
da A4 Servizi Grafici per conto di Miraggi edizioni
su Carta da Edizioni Avorio – Book Cream 80 gr
e Carta Fedrigoni Woodstok Materica Chalk 180 gr
Prima edizione digitale: novembre 2019
isbn
978-88-3386-081-7
Prima edizione cartacea: ottobre 2019
isbn
978-88-3386-079-4
Per Sonia e Solo Lovec
I.
Salgo in alto
Ce l’ho fatta. Ve lo dico fin dall’inizio per mettere le cose in chiaro. Altrimenti sareste preoccupati per me.
Io non ho paura.
Salgo in alto, ho le nuvole a portata di mano. Il cielo. I sogni. L’infinito. E alla fine anche me stesso.
La nostra città si dissolve lentamente in basso, sotto di me. La città che amo e odio. Stretta tra i monti, il passato, il tempo e la paura, perché il passato non è altro che paura. L’ho superato. Ho chiuso con il tempo e con il passato. Abbandono la città che mi aveva inghiottito e che non sono mai riuscito ad abbandonare.
Fino a ora.
Ce l’ho fatta.
Tengo sotto controllo l’altitudine, il vento e la direzione.
Anche se nessuno ci credeva, ce l’ho fatta.
Nessuno mi credeva. Nemmeno io ci credevo.
Salgo in alto, e il sole che cola sull’orizzonte mi abbaglia.
L’orizzonte non è piatto. È gibboso, perché anche le nuvole sono gibbose. Come i nostri sogni. E la nostra vita.
Non esistono notti senza sogni, e non esiste cielo senza nuvole. Sono sempre lì, anche se a volte non ce ne accorgiamo.
Ce l’ho fatta.
Oggi è il mio compleanno e mi sono fatto un regalo. Un regalo che ho aspettato per tutta la vita.
Sto volando.
Salgo in alto.
Tra poco guarderò oltre l’orizzonte.
Sono le sei e trenta del mattino. Abbastanza sereno. Nubi alte appena visibili. Cirri. Vento da occidente. Sei gradi Celsius.
Ce l’ho fatta.
Salgo in alto.
Mantengo la direzione.
Comincio a sentire quella splendida musica che nessun altro può ascoltare, perché quando si vogliono esaudire i propri sogni bisogna farlo in solitudine. Così nessuno li può rubare. Per viverli appieno. O almeno bisognerebbe farlo in solitudine.
Quella musica è il silenzio.
II.
Il macellaio
Il mio nome è Fleischman. Era il mio nome anche in passato. E anche in futuro mi chiamerò soltanto Fleischman. Che gli altri dicano quello che vogliono, che si diano tutti i nomi e titoli che vogliono, che ci sia un futuro oppure no.
Sono nato il 21 settembre 1973. È il giorno di San Matteo. Ve lo dico io, così non dovete cercarlo sul calendario, perché so bene che la gente ama cercare nel calendario informazioni come gli onomastici, le barzellette e i modi di dire; ed è per questo che ora nei calendari mettono anche perle di saggezza di personaggi illustri, fotografie di casette sui Monti dei Giganti e ricette di cucina. Sul serio, Jégr a volte se li legge di notte, accarezzandosi la pancia. Jégr, non io. Ma di Jégr vi parlerò più avanti.
A me i calendari piacciono per altri motivi, sempre che a voi interessi saperlo. In realtà mi piacciono soprattutto i numeri, perché i numeri non mentono mai. I numeri, i grafici e le nuvole.
Non ho mai festeggiato il mio compleanno. Da quando sono solo, intendo. Nemmeno il mio onomastico, anche perché Fleischman nel calendario non c’è. E io mi chiamo proprio Fleischman.
Das Fleisch in tedesco significa carne. Umana e di animale. Significa anche polpa di frutta. Der Mann, invece, significa uomo. O anche sposo, coniuge, vassallo, feudatario. Se posso scegliere, tra tutti preferisco uomo. Se si uniscono, ne potrebbe venir fuori uomo con la polpa. Carnoso. Con un tocco di fantasia anche uomo in carne (e ossa). Oppure uomo a cui piace la carne. Carnaiolo. Macellaio. In fin dei conti, significa macellaio e basta. Dico tutto questo perché i nomi non sono frutto del caso. I nomi non mentono. Rivelano molto di come siamo. Se non altro è quello che pensa la mia dottoressa.
Al passare delle nuvole sopra la mia città, anche una n
della parola Mann si è persa nel corso della storia della mia famiglia. Senza dubbio posso dire che quella n
è la più insignificante di tutte le cose che si potevano perdere nella nostra famiglia, e che pure si è persa.
Forse vi starete chiedendo qual è il mio nome intero. Per meglio dire, il mio nome di battesimo. Tutti di solito hanno un nome e un cognome. Ce l’hanno tutti, ma io ne ho uno solo. L’ho dimenticato. Ho dovuto farlo.
Il mio nome è Fleischman. Sono alto un metro e settantanove. Peso settantatré chili. Ve lo dico nel caso vi interessino i numeri quanto interessano a me.
Il mio nome è Fleischman. Sono un macellaio che non mangia la carne, perché non ama la vista del sangue. Sono un macellaio che nel piatto affetta piuttosto le nuvole e il clima, perché non c’è nulla di più importante al mondo. E sono anche me stesso. Ma di me vi racconterò più avanti. Vi racconterò tutto più avanti.
Ogni cosa deve procedere con ordine. Come quando costruite il modellino di un aeroplano. O quando cercate le letterine nella minestra per comporre le parole da mangiare. Nemmeno le nuvole si formano in cielo così di punto in bianco. Innanzitutto, serve del materiale di scarto. La polvere. È lì che si attacca l’umidità. Dall’umidità si creano piccole gocce d’acqua, poi gocce più grandi e infine si forma la nuvola.
Quindi all’inizio vi servo sul piatto un po’ di polvere. Un po’ del caos della vita di Fleischman. Ma a pensarci bene, credo che sarà meglio tralasciare qualcosa.
La mia dottoressa pensa che la vita delle persone sia come un mosaico. Dice che non la ricordiamo mai tutta intera. Che del passato vediamo sempre e solo dei frammenti. Dei bagliori. Dei lampi.
Lo stato dell’anima
Non è cominciato tutto in modo troppo tranquillo.
Il 21 settembre 1973 il cielo era sereno e faceva caldo. Il vento soffiava moderato. Altweibersommer, come la chiama Franz, il nostro ospite abituale. L’estate di San Martino, che dipende da una zona di alta pressione sopra la Russia.
Me lo ricordo come fosse oggi.
Quando in ospedale uscii dal ventre materno, la finestra era aperta e io vidi, provai e sentii tutto. In breve, ero presente.
« Ecco, ed è uscito », disse il dottore.
« Era ora », affermò l’infermiera.
« Cos’è? Una femminuccia? » chiese mia mamma.
« Un maschietto », rispose il dottore.
« A quest’ora il suo caffè si sarà già raffreddato », aggiunse l’infermiera.
« Me ne prepari un altro. »
Per un attimo volai, guardai tutta la scena dall’alto del soffitto, vidi la sala parto immacolata, mia mamma che mi teneva sul seno, l’infermiera che scriveva su dei fogli, il medico che si toglieva i guanti.
Volevo volare ancora più in alto, ma urtai la testa contro il soffitto. Improvvisamente mi mancò il respiro e iniziai a cadere giù. Vidi mia mamma che urlava che stavo soffocando, che non respiravo più, e poi il medico che correva verso di me e rovesciava la tazza del caffè, che si spargeva sul tavolo. La macchia marrone aveva la forma dell’Australia.
Nell’attimo in cui caddi sul pavimento, ci fu assoluto silenzio. Poco dopo, però, scoppiai di nuovo a piangere.
Più tardi il medico disse a mia mamma che ero quasi morto, ma aggiunse che questo fatto non avrebbe avuto il minimo influsso sulla mia vita futura, perché per il resto ero a posto. Sano come un pesce. Forte come una roccia.
« Una cosa del genere non se la può ricordare nessuno », mi disse Jégr.
« Cioè, io però me lo ricordo davvero. Ho visto tutto. E intanto alla radio trasmettevano una canzone di Waldemar Matuška. »
« Sì certo, come no. E accanto alla tua culla era seduto Karel Gott¹ in persona. »
« Davvero, stava cantando Oh, i ciliegi in fiore. »
« Questa raccontala a tua madre », disse Jégr tirandomi una sberla. « Mi vorresti far credere che ti saresti visto soffocare e poi salvare in quella sala parto? E il caffè del dottore era fatto alla turca? Oppure era di quello solubile? »
« Questo non lo so. Ma so che c’era l’estate di San Martino. Cioè, come oggi ecco. »
« Cioè, cioè… sempre così. Cioè tu sei normalmente pazzo, davvero. Mettiti il cuore in pace. »
« No, il medico ha detto che ero perfettamente a posto. »
« Se tu fossi a posto, non ti colerebbe sempre il naso, avresti una donna e tiferesti per lo Slovan Liberec. »
« Questo non c’entra nulla. »
« C’entra eccome! Chi non tifa, non scopa. Per me è sempre estate di San Martino. »
« Comunque anche lei non ha nessuno. »
« Ce l’avevo, amico mio. E quante! Quindi ho qualcosa da ricordare. »
« E quante? »
« A valanghe. Tutto il mondo era ai miei piedi. E lo rifarebbero tutte ogni volta, se ne avessi voglia. »
« Penso lo stesso di essere a posto. »
« Se tu sei a posto, allora io sono San Giuseppe, Segaiolo che non sei altro! »
Segaiolo sono io, se non altro a detta di Jégr. Segaiolo è uno stato dell’anima. La mia.
Una lavatrice dell’aria
Il 21 settembre 1973, durante una tempesta, ai sovietici affonda un sottomarino nello Stretto di Bering. In India si scontrano due treni passeggeri a causa della nebbia. Il Torino vince contro il Manchester United con lo sbalorditivo punteggio di 4 : 0. Husák² viaggia in treno da Praga fino a Mosca per una delle sue forzate lune di miele. Ad Amburgo gli scaricatori di porto sono in sciopero da ormai un mese. L’uragano Ivan colpisce la Florida causando una decina di morti. Lo hanno detto in televisione.
L’uragano è un ciclone tropicale. Un vortice di bassa pressione. Venti devastanti. In Giappone lo chiamano tifone. In Australia, invece, willy-willy. Nei Caraibi, uragano. Per formarsi ha bisogno di tre elementi: il calore dell’acqua, aria umida e venti equatoriali convergenti. Ma magari è sufficiente che da qualche parte una mosca sbatta le ali. O una farfalla. O una zanzara. Oppure che qualcuno saluti con la mano per la strada. Sarà per questo che non saluto mai così, per non provocare una catastrofe con il movimento della mia mano.
Un uragano è una gigantesca lavatrice dell’aria, un aspirapolvere così potente che forse a volte potrebbe servire a ognuno di noi. Un uragano, però, è forse anch’esso uno stato dell’anima, lo stato dell’anima del clima. Ora non so se mi capite fino in fondo. La mia dottoressa dice che a volte parlo facendo troppi giri di parole. Ma che non importa perché comunque sa cosa mi preoccupa e mi infastidisce. È un bene che almeno qualcuno lo sappia.
Adepto del futuro
Il 21 settembre 1973 nella mia città sono nato io e altri dieci adepti del futuro. Undici nuovi papà, allora, uscirono per ubriacarsi dalla gioia, immaginandosi che sarebbe durata per l’eternità. Rincasarono la sera tardi coi vestiti di viscosa sgualciti e le impronte sbavate di rossetto sul viso.
Nello stesso giorno, precisamente alle dieci del mattino, fu inaugurato l’hotel sulla collina, dove vivo oggi. E dove pure lavoro. E che hanno costruito grazie a un caso sfortunato capitato a mio nonno. E dove Jégr mi sgrida, perché anche lui lavora qui, e dove a volte lo sgrido anch’io perché sa essere proprio insopportabile. Secondo lui, sono io quello insopportabile. Ma io credo che possa dipendere dall’altitudine sul livello del mare, perché fa fare cose strane alla gente.
Il nostro Grand Hotel è sospeso a 1012 metri sopra il livello del mare. A volte ho l’impressione che non sia affatto un hotel, ma una gigantesca fabbrica di nuvole. Basta guardarsi un po’ attorno. A quest’altitudine si vedono le nuvole procedere in fila ordinata una dopo l’altra. Un’altitudine del genere dà alla gente filo da torcere.
L’hotel fu inaugurato con una grande festa, come sempre in onore del futuro, pensando che esso potesse risplendere per l’eternità. Ma non va mai a finire così, dice Franz. Prima o poi il futuro si spegne. Ma allora nessuno ci pensava, e io lo capisco.
Dalla città arrivò una troupe televisiva che girò un reportage di dieci minuti. Arrivò una banda musicale che suonò otto polke, sei valzer e sorprendentemente anche un blues, che però nessuno ballò. I giovani pionieri del socialismo consegnarono ai costruttori quaranta garofani rossi.
Si consumarono trecentocinquantatré tartine al prosciutto, duecentocinquantatré birre e dieci bottiglie di vera vodka sovietica. Trenta ospiti si svegliarono il mattino dopo con i postumi della sbornia. Altri due vomitarono ancora la sera seguente.
Un augurio speciale fu inviato dal Presidente della Repubblica, un generale malridotto che aveva sconfitto i nazisti sul passo di Dukla. È però andato perduto negli uffici postali. È chiaro che non posso sapere tutto questo per conto mio. Me lo ha detto Jégr. Lui sa tutto. È stato infatti anche responsabile di un self-service. E non solo. Ma di lui vi racconterò più avanti.
Vivo e lavoro proprio qui
Vivo e lavoro proprio qui. Al Grand Hotel sulla cima del monte Ještěd. Questa collina si chiamava Jeschken. E prima Jeschkenberg. E prima Jeschenberge. E prima Jesstied. E prima ancora Jesstiedr.
Dicono che il nome di questa collina abbia qualcosa a che vedere o con un riccio o con una caverna. I ricci ci sono. Le caverne pure. O qualcosa che ricorda una caverna. Dei buchi