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L'affilata falce della luna
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L'affilata falce della luna
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L'affilata falce della luna

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About this ebook

Aldo Ferraris, sulla soglia dei settant’anni, ripercorre la sua vita tra ricordi dell’infanzia e vicende dell’età adulta. Psicoanalista di formazione freudiana, esercita questa professione a Bergamo, la sua città, dove fin da giovane ha vissuto incontrando amicizie e amori. La psicoanalisi lo porta nei labirinti delle inquietudini dell’animo umano, sino a non tollerare più i penosi risvolti di queste storie. Non volevo più saperne di analisi, interpretazioni; ero stanco di ascoltare i crucci esistenziali dei miei pazienti, le loro angosce, i turbamenti, tantomeno continuare ad annodare le loro fantasie, nella speranza che il gioco psicoanalitico portasse, prima o poi, a qualche beneficio”. La decisione di chiudere definitivamente con la pratica freudiana avverrà nel momento più drammatico per lui e per la sua città, quando la comparsa del Covid-19 si abbatterà come una falce affilata, mutilando la presenza degli affetti più cari e degli amici di una vita. Ma sotto la luna nascente, in questa notte buia, la sua esistenza tornerà a vivere, risvegliata da nuovi legami e riaccesi sentimenti.
LanguageItaliano
Release dateJun 23, 2020
ISBN9788835853879
L'affilata falce della luna

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    L'affilata falce della luna - Giovanni Torri

    Calasso)

    1.

    In pochi giorni avevo perso i miei affetti più cari. Anche per questo avevo deciso di chiudere subito lo studio, andare in pensione. A quasi settant’anni, accompagnarmi alla schiera delle persone anziane in attesa del giudizio universale, non era più un’idea peregrina.

    Avevo pensato tutto questo un freddo giovedì di aprile, ma non era un’idea nuova. Da alcuni anni, pochi a dire il vero, non volevo più saperne di analisi, interpretazioni; ero stanco di ascoltare i crucci esistenziali dei miei pazienti, le loro angosce, i turbamenti, tantomeno continuare ad annodare le loro fantasie, nella speranza che il gioco psicoanalitico portasse, prima o poi, a qualche beneficio.

    Non dico che la professione, il mio agire terapeutico, non li abbia aiutati. Certo non tutti, ma alcuni sì, anche con evidenze apprezzabili, forse non completamente guariti, ma, diciamo, in un certo qual modo restaurati. Taluni malesseri non si pigliano in strada, non c’è un batterio, un virus che ti infetta, né tantomeno un vaccino, un farmaco adeguato che ti possa curare, te li porti con te, dentro, in simbiosi fin dall’infanzia.

    Ne avevo avute di soddisfazioni professionali, non molte, ma le avevo avute. Con alcuni pazienti ero restato in contatto, anche per diversi anni, una sorta di simpatia che però, quasi per nessuno, era mai sfociata in amicizia.

    Tuttavia, ora più che mai, sentivo, ne ero certo, che il limone della mia esistenza aveva dato tutto il suo succo, spremuto sino all’ultima goccia. Restava solo una scorza indurita, ruvida e i pochi semi che erano rimasti non avrebbero avuto il tempo per nessun’altra nascita, per alcuna nuova vita.

    Abitavo a Bergamo da molto tempo. Una bella città, intatta nelle sue fortificazioni venete, nei palazzi della sua storia antica e pure ben curata, urbanisticamente ordinata, nella sua parte più recente. A dire il vero ci ero nato, non proprio in città, appena fuori, in un paese che già allora poteva dirsi una sua periferia.

    Da poco più di quattro anni mi ero trasferito nella sua parte alta, acquistando un bell’alloggio in piazza Mercato del Fieno. L’avevo comperato vendendo quello dei miei, in città bassa, aggiungendo non pochi altri denari, uniti ad un piccolo prestito bancario.

    L’avevo arredato mettendoci un’attenzione quasi maniacale: vecchi mobili in noce acquistati nella bottega di Giorgio, un amico antiquario che da anni trafficava in questo ambiente.

    Non era grande: una stanza, un piccolo locale adibito a soggiorno e cucina e un minuscolo bagno. I muri erano rifiniti in stucco veneziano, un colore smorto che non mi aveva mai entusiasmato nonostante buona parte fosse nascosto dai quadri che avevo recuperato dal mio vecchio appartamento.

    Il soffitto della camera invece era particolare, splendido alla vista. Strutturato a volta. Affioravano dall’intonaco due figure affrescate, non complete. Due giovani donne. Una in piedi, con un’anfora tra le mani che, appena piegata, riversava dell’acqua in una specie di laghetto dal quale emergevano piccoli getti di canneto verdeggianti. Dell’altra si intravvedevano appena il busto reclinato, parte del viso, e le gambe completamente nude. Questa aveva i piedi nell’acqua e le mani su una caviglia come si stesse lavando. Sopra le due figure, un cielo azzurro, stellato e, in un angolo, la falce della Luna.

    Non era una scena notturna, nonostante le stelle. I colori risplendevano a giorno e tutto era contornato, sui quattro lati della volta, da un ornamento geometrico. Una sorta di greca, incompleta in alcune sue parti, come l’affresco.

    L’appartamento era parte di uno stabile medioevale, ben tenuto, ristrutturato da poco. Era situato all’ultimo piano e, dall’unica finestra, potevo vedere la cupola della basilica di Santa Maria Maggiore.

    Mi ci ero trasferito dopo la morte della mia compagna. Anche Sigmund, il mio cane, mi aveva lasciato una notte, riverso sul suo cuscino senza più vita.

    Lo studio era restato in città bassa. Pochi locali adeguati per la mia attività. Stava in una zona non molto distante dalla stazione. Il mio rifugio di Città Alta l’avevano visitato pochissime persone e tra queste gli amici più cari che un maledetto virus, venuto dall’oriente, mi aveva portati via. Nessun paziente, solo la giovane Claudia, alla quale mi ero affezionato. E Linda.

    Non era sempre stato così. Quando c’era Valeria il tema della solitudine non mi aveva mai sfiorato. Avevo sempre creduto, contro la mia visione razionale del mondo, che la vita ci avrebbe accompagnato, mano nella mano, sino alla tomba. Solo una, per entrambi, aperta e chiusa nello stesso giorno.

    Ci eravamo conosciuti per caso una decina d’anni prima, in un caldo pomeriggio di maggio. Dico per caso, perché il nostro incontro non poteva essere più accidentale.

    Si era separata da uno strano uomo, uno che nella vita aveva riversato ogni energia e gran parte delle loro risorse economiche nel gioco d’azzardo. Non quello popolare che riempie le tabaccherie e le sale slot di avventori disperati. In un certo modo apparteneva all’élite, ai professionisti del rischio aleatorio.

    Valeria mi aveva raccontato che all’inizio era solo uno tra gli interessi del marito, nemmeno il più importante, solamente un divertimento, una sfida alla fortuna, ma dopo una vincita significativa era diventato una vera malattia.

    L’avevo intravisto un paio di volte. La prima me l’aveva indicato lei. Ben vestito, rigido come una statua di marmo, fermo, in attesa del bus. Non avevo avuto tempo di osservarlo attentamente, ma già quella figura e la postura - dritta come un fuso - nella mia fantasia di psicoanalista avevano subito occupato un posto tra le diverse sfaccettature della sindrome narcisistica.

    Non avevano avuto figli. Lei un giorno mi confidò che Stefano, così si chiamava il marito, non ne aveva mai voluto sapere, solo all’inizio avevano fatto progetti per una maternità, ma in seguito anche Valeria aveva desistito dall’impresa, forse pensando a quel padre già troppo preso con le sue manie di giocatore dostoevskiano: un Aleksej senza scrupoli, né per sé né per la sua Polina.

    Da un certo punto di vista l’avevo compresa. Mettere al mondo, in questo mondo, un figlio, non è una scelta facile. Tecnicamente non è difficile, ma le implicazioni, che non sempre si affacciano alla mente durante l’amplesso fatale, si dispiegano poi su un arco di vita che non lascia scampo a ripensamenti.

    L’avevo capita, perché anch’io, nonostante più di una storia con donne si fosse prolungata sino al punto di poterla concludere con una maternità, avevo fatto di tutto, mettendoci un’attenzione quasi maniacale, per evitare questo evento. Non certo per egoismo. E poi quale egoismo? Diciamo pure che questo fatto il più delle volte appartiene al Genere non tanto alla psiche e alla volontà. Il Genere, con le sue trappole dell’istinto e della conservazione, ha quasi sempre il sopravvento. Forse ci lascia l’illusione della scelta, ma in realtà è lui che alla fine detta le regole, illudendoci di tenere le redini della faccenda tra le mani.

    Il marito aveva trascinato la relazione con promesse e inganni.

    - Cambio vita, te lo giuro. Dammi tempo, vedrai che ci riuscirò.

    E lei aveva atteso, per anni aveva aspettato invano. Queste cose non si cambiano a piacimento. Non è un conto che puoi saldare, resta sempre aperto, sino a che un fatto, una scommessa sbagliata, una mano sfortunata ti danno il colpo di grazia.

    Il marito giocava al casinò, ma il più delle volte in case private, con amici, conoscenti della stessa razza: piccoli industriali, professionisti, gente a cui i soldi giravano anche fuori delle proprie tasche. Possedeva una piccola attività artigianale. Assemblava quadri elettrici in una misera ditta. Aveva tre operai alle sue dipendenze, pagando buona parte degli stipendi in nero e quando poteva. Sapeva che non sarebbe andato lontano e che, prima o poi, anche quest’impresa sarebbe fallita. Come tutto il resto. L’avevano compreso anche i suoi dipendenti che in più occasioni gli si erano schierati davanti, chiedendo spiegazioni e sicurezze. Lui aveva sempre tergiversato con scuse e spiegazioni continuamente diverse.

    Una mattina, come molte altre, era ritornato dalla moglie dopo una delle sue nottate passate in casa di un amico. Quella volta aveva fatto le ore piccole al tavolo del poker, perdendo una fortuna.

    Abitavano in un bell’appartamento in città. Lui l’aveva ereditato dai suoi, morti per tempo per poterselo intestare. Non era un alloggio di grande valore, ma sino ad allora aveva garantito un tetto dignitoso a entrambi. Quella notte, che sarebbe stata l’ultima anche per Valeria, glielo avevano portato via. Mani sbagliate sin dall’inizio, la fortuna che non l’aveva mai guardato in faccia, avevano fatto della sua abitazione l’ultima puntata, la più grande, quella definitiva. Era l’atto finale di una commedia che, trasformatasi in tragedia, aveva suggellato la loro separazione.

    Valeria era andata il giorno stesso dai suoi che abitavano in un paese in fondo alla Val Seriana: una lunga valle dove lei era cresciuta, staccandosene solo per studiare arte al liceo della città e poi restandoci, dopo il naufragio del suo matrimonio.

    L’ho incontrata la prima volta un pomeriggio di primavera inoltrata, nel negozio dell’amico antiquario. Giorgio mi aveva avvertito d’aver acquistato delle stampe di inizio ottocento e che alcune erano molto interessanti.

    La sua famiglia aveva fatto fortuna in questo ambiente con il modernariato, grazie al padre che, girando negli anni cinquanta e sessanta le valli e le campagne lombarde, aveva acquistato vecchi mobili da contadini e piccoli proprietari, irretiti dalle cucine componibili e dagli armadi di serie, per poi rivenderli, dopo un sommario restauro, alla borghesia cittadina, smaniosa nel fare di quell’arte povera un suggello della propria pacchiana ricchezza.

    Dell’attività del padre aveva fatto tesoro e, dopo il liceo, aveva continuato lui, arricchendosi e riuscendo a entrare nel circuito dell’antiquariato professionista, dove si era fatto un nome.

    I locali dello studio e pure l’appartamento dei miei erano decorati con alcune stampe, ma soprattutto da quadri antichi provenienti dalla sua bottega. Ritratti, arte figurativa soprattutto, nulla che avesse a che fare con quella contemporanea. La passione per i quadri era un vezzo che mi aveva preso fin da giovane. Non ero un grande esperto di storia dell’arte, mi affascinava soltanto e, quando da Giorgio trovavo qualche bel dipinto, mi spellavo le dita pur di averlo.

    Da qualche tempo avevo pensato di riempire le pareti ancora libere con nuovi quadri che richiamassero la mia professione, come usavano fare certi vecchi medici nei loro ambulatori; un’idea un poco bizzarra della quale ancora non ero del tutto convinto.

    Quel pomeriggio, mentre Giorgio cercava di convincermi ad acquistare alcune di quelle piccole stampe d’epoca, entrò Valeria, fermandosi in un angolo, come in attesa del suo turno.

    - Signora, vengo subito da lei!

    Esclamò l’amico che, con un colpo d’occhio, l’aveva già inquadrata. Poi, per alcuni istanti, uno strano silenzio e un profumo intenso invasero la bottega.

    Anch’io mi ero voltato verso quella donna. Era illuminata dalla luce di un sole fin troppo raggiante che filtrava dai vetri della porta, mostrando una particolare bellezza e un’eleganza discreta, ma al contempo non comune. Giorgio, come eccitato dalla nuova presenza o forse per voler concludere in fretta l’affare, aveva proseguito con maggiore foga nel tentativo di convincermi.

    - Aldo, se fossi in te le prenderei tutte e quattro. Spezzare la serie sarebbe ingiusto. Nel tuo studio staranno benissimo. E poi sono certificate, autentiche e antiche a sufficienza: milleottocentotrentuno. È anche un buon affare e, siccome sei un amico, ti faccio lo stesso prezzo che hanno fatto a me.

    Mentre parlava, mettendoci tutta la competenza di abile mercante, Valeria, incuriosita, si era avvicinata. Giorgio mi stava raccontando che erano quattro litografie di un certo Bartolomeo Pinelli, un artista romano vissuto a cavallo tra il settecento e l’ottocento, parte di venti tavole raffiguranti scene dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni.

    Ero titubante, non riuscivo a comprendere cosa c’entrassero con il mio lavoro, ma le tavole erano di una bellezza incredibile, con dettagli delicati, incisi con grande accuratezza e quasi stavo per concludere l’acquisto, quando intervenne Valeria.

    - È un amante delle stampe antiche?

    Prima che rispondessi, l’amico, andandole vicino come volesse sussurrarle qualcosa di intimo, rispose:

    - Il dottor Aldo Ferraris ama un po’ tutto: stampe, dipinti, a volte si è spinto anche verso piccole sculture, però deve essere aiutato, perché sceglie un po’ a casaccio, non ha una particolare predilezione se non per le opere che ritraggono personaggi, momenti di vita, volti. È un figurativo ortodosso, l’arte contemporanea non gli è mai entrata in testa.

    Lei, guardandomi con uno sguardo enigmatico, riprese a domandare:

    - È un medico?

    Non l’avevo ancora osservata con attenzione. Gli occhi, come quelli di una moderna Atena, erano di smalto blu profondo, vivaci e illuminavano la carnagione chiara, quasi pallida, che si staccava dalla cornice scura dei capelli. Mi fissava come aspettasse una risposta, poi, con un sorriso dolce, familiare, continuò:

    - Perdonatemi l’insolenza, non volevo intromettermi, ma a volte è più forte di me. Quando vedo una persona alle prese con opere d’arte resto affascinata dal suo sguardo, dall’interesse che mostra, non riesco a stare zitta, è come se una forza mi trascinasse nella sua passione.

    Aveva una voce flebile ma sicura, ingentilita da un leggero rotacismo che la rendeva elegante e quasi signorile.

    - No, non sono medico. Sono psicoanalista. Ogni tanto vengo a trovare Giorgio. A dire il vero è lui che mi chiama quando ha qualcosa di interessante da offrirmi, ma è un furbetto e, se non sto più che attento, è capace di vendermi delle croste orrende spacciandole per capolavori fiamminghi.

    Ridemmo entrambi, mentre l’amico, con un viso di circostanza, da venditore navigato, si mise a raccontare di noi, una sorta di sintetica biografia della nostra antica amicizia, finendo nuovamente sulle quattro stampe e su quanto avrebbero valorizzato il mio studio.

    Era nata una sorta di confidenza. Anche lei si era presentata: Valeria Bonetti. Disse che passava da quelle parti e che era entrata solo per curiosare.

    - Abita in città?

    Chiese Giorgio. Rispose che ci aveva abitato per diverso tempo e che ora stava con i suoi in un paesino del fondo valle. Questo negozio l’aveva intravisto un paio di volte passando, soffermandosi a guardare attraverso i vetri, ma che poi aveva sempre tirato dritto.

    - Mi sono diplomata al liceo artistico di Città Alta. Non sono un’artista, forse non lo sono mai stata. Solo all’inizio, terminata la scuola, pensavo di esserlo e mi ero cimentata nel disegno. Come molti studenti credevo che le tecniche apprese e una certa propensione per la bellezza mi potessero assistere e aiutare, ma poi le situazioni cambiano, le circostanze, la vita cambia e altre priorità ti rubano ogni spazio, tutto il tempo.

    Lo aveva detto cambiando il tono della voce: sembrava che dei pensieri tristi all’improvviso l’avessero raggiunta. Una strana sensazione mi aveva invaso il cuore, come se avessi colto, in quel suo dire, una domanda d’aiuto, un dolore nascosto.

    - E ora? Non dipinge più?

    Le domandai, come a volerla incoraggiare.

    - Sì, da quando la mia vita è cambiata, qualche tela ad olio, ma soprattutto acquarelli.

    - Quindi è cambiata in meglio. Mi scusi Valeria, ora sono io lo sfacciato, sa, la professione mi porta spesso a cercare l’epilogo delle storie degli altri. Mi scusi.

    Parlai d’istinto, come se le parole fossero uscite senza passare dal filtro del pensiero, ma le avevo pronunciate con sincerità. Avevo avvertito distintamente un velo di amarezza, ne ero certo, come se un’angoscia remota non l’avesse ancora completamente abbandonata.

    Lei non replicò, sorrise, con lo sguardo che aveva ripreso la dolcezza originaria.

    2.

    Qualche settimana dopo il nostro incontro nella bottega di Giorgio avevamo deciso di unire le nostre esistenze. Era nato un amore passionale e maturo. Sbocciato senza preavviso, senza progetti.

    Quel pomeriggio il suo sguardo e il sorriso erano stati sufficienti a far breccia nel mio cuore. Non so dire cosa esattamente, forse la sua bellezza discreta, forse l’audacia nell’intromettersi tra due, non più giovani, marpioni, oppure la familiarità che avevano trasmesso le sue parole, ma qualcosa di potente aveva plasmato i miei pensieri.

    Tra noi tre era nata una bizzarra amicizia e in pochi minuti i lei, erano diventati per tutti un tu. Il tema delle stampe e di quanto fossero attinenti al mio lavoro ci aveva impegnato in una accesa discussione, a tal punto che, dopo un’ora, di noi sapevamo più di quanto, in quella frugale circostanza, ognuno fosse disposto a far conoscere.

    Molti vincoli si erano allentati e, tra risate e stravaganti argomentazioni, alla fine avevo deciso di non acquistare le stampe. Giorgio non era riuscito a persuadermi, anche perché lei si era soffermata a guardare alcuni quadri, due in particolare. Era nata una piccola disputa: le quattro stampe o i due dipinti?

    Alla fine avevo deciso per i dipinti. Era stata Valeria che, con grande entusiasmo, aveva perorato la causa per quelle opere che l’amico mi aveva assicurato essere della scuola dei Macchiaioli.

    Erano due piccoli quadri. Uno, dipinto su tavola, poco più di un A4, ritraeva due ragazzini del popolo, scalzi e vestiti con poveri abiti. Erano di spalle, a mala pena si notavano i volti, nonostante fossero illuminati dalla luce che filtrava da una finestra. Erano intenti a lavorare qualcosa, sotto lo sguardo attento di una figura adulta che, nascosta nella penombra, appena si intravvedeva. La cornice, originaria, era molto elegante: intarsiata, di legno ricoperto d’argento in foglia.

    Il secondo, olio su tela, un poco più grande, raffigurava un paesaggio urbano ottocentesco. In primo piano un’ampia strada, forse una piazza, e alti palazzi che, allineati da una parte, facevano da sfondo. Era una città industriale. Lo si intuiva da due ciminiere che, dietro le case, buttavano del fumo nero. In strada diverse figure vestite con colori accesi, uomini e donne, davano l’impressione di camminare velocemente. Il selciato riluceva, come dopo un temporale.

    La tela era nel suo complesso abbastanza scura, ma, come aveva subito fatto notare Giorgio, se rivolta alla luce del sole d’incanto si illuminava e tutti i colori e ogni particolare riemergevano. Anche questo quadro aveva una cornice originale, di legno nudo, forse noce, intarsiato con un ricamo, semplice ma delicato, di foglie intrecciate.

    Evitammo la trattativa. Il costo delle due opere lo potevo sostenere tranquillamente e poi Giorgio, con me, non aveva mai calcato la mano. Si accontentava dell’amicizia e che lo andassi a trovare ogni tanto in negozio per organizzare cene nei luoghi più stravaganti della zona, soli o con la compagnia del momento, che per lui era sempre stata la stessa: Elisa, sua moglie.

    Eravamo amici fin dal liceo che avevamo frequentato assieme, nello stesso banco, per l’intero ciclo di studi. Sempre a fianco nella scuola e nelle lotte studentesche di quegli anni. Poi lui, dopo la maturità, aveva seguito il lavoro del padre. Io avevo continuato con l’università: filosofia, perché il pensiero umano mi aveva sempre affascinato e poi la scuola freudiana di psicoanalisi: un lungo percorso costoso e faticoso, per comprendere l’uomo e il suo profondo.

    Giorgio fin da giovane era sempre stato una persona solare, pronto alla battuta, generoso. Con lui avevo condiviso molto della mia esistenza e, per un certo periodo, mi aveva anche aiutato quando non volevo più dipendere completamente dai genitori e gli studi avevano raschiato il fondo delle mie, sempre scarse, sostanze economiche.

    Non venivo da una famiglia agiata, non lo era mai stata. Mio padre faceva l’operaio in una delle fabbriche della provincia e il suo stipendio bastava appena per tirare fine mese in modo dignitoso e la mamma, casalinga, non aveva mai messo piede fuori dalla città.

    Dopo la mia insistenza e grazie a un prete che aveva perorato la causa, mi avevano iscritto al liceo. Eravamo riusciti a convincerli che in seguito l’università mi avrebbe offerto più di una possibilità e un futuro migliore del loro. Questa decisione era stata presa con non pochi sacrifici e, quando avevo visto certi amici che, dopo il diploma di maturità tecnica, avevano subito trovato lavoro, ero stato preso da un profondo senso di colpa.

    Studiare in quella situazione mi aveva

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