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ROMA
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Ebook367 pages5 hours

ROMA

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Il mondo di Cinecittà, la Roma dei primi anni Settanta, il cinema, Fellini, gli attori americani, le spiagge di Ostia e il quartiere del Pigneto, la tenerezza e l’oscurità dell’estate, e l’educazione sentimentale di un ragazzo. Il giovane Tommaso, apprendista giornalista, si trasferisce a Roma nell’estate del 1970 e finisce per occuparsi di gossip nel mondo di Cinecittà, brulicante di personaggi famosi e altri misteriosi, e delle loro leggende. Frequenta una ragazza inglese di nome Judy, si ritrova sul set del film Roma di Fellini, e conosce la propria storia attraverso le storie degli altri.
Fra cammei e apparizioni, storie vere e storie false, attori, seminaristi, trapezisti, musicisti, giardinieri, un moderno “giorno della locusta” ambientato a Roma.
LanguageItaliano
Release dateDec 1, 2018
ISBN9788833860190
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    ROMA - Nicola Manuppelli

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Prologo

    Uno

    Due

    Tre

    Quattro

    Cinque

    Sei

    Sette

    Otto

    Nove

    Dieci

    Undici

    Dodici

    Tredici

    Quattordici

    Quindici

    Sedici

    Diciassette

    Diciotto

    Diciannove

    Venti

    Ventuno

    Ventidue

    Ventitré

    Ventiquattro

    Venticinque

    Ventisei

    Ventisette

    Ventotto

    Ventinove

    Trenta

    Trentuno

    Trentadue

    Trentatré

    Trentaquattro

    Trentacinque

    Trentasei

    Trentasette

    Trentotto

    Trentanove

    Quaranta

    Quarantuno

    golem / romanzo

    ©

    2018

    Miraggi Edizioni

    via Mazzini

    46

    ,

    10123

    Torino

    www.miraggiedizioni.it

    Progetto grafico Miraggi

    In copertina: disegno di Marco Petrella

    Finito di stampare a Borgoricco (PD)

    nel mese di ottobre

    2018

    da Logo srl

    per conto di Miraggi Edizioni

    su Carta da Edizioni Avorio Book Cream

    80

    gr

    Edizione cartacea: ottobre

    2018

    isbn

    978-88-3386-005-3

    Edizione digitale: ottobre

    2018

    isbn

    978-88-3386-019-0

    nicola manuppelli

    Roma

    Miraggi Edizioni

    AAA (Ad Annie Ancora)

    E a mio padre per Fellini, mia madre

    per Scola e Ivan per Monicelli

    In ricordo di William Styron

    Il romanzo è una mescolanza di frottole e realtà, e anche la vita.

    Aaron Klopstein

    Ho vissuto in ogni tempo e in ogni luogo in modo tale da sfruttare ogni giorno come se non dovesse più tornare.

    Petronio

    Meglio avere notizie esagerate che essere senza notizie.

    da La dolce vita

    Prologo

    Dunque, c’era questa storia che girava a Cinecittà, credo che l’attore in questione fosse Burt Lancaster, anche se alcuni sostenevano si trattasse di Richard Burton, e altri addirittura dell’ex re Farouk, prima che morisse in un ristorante; ma la maggior parte di noi concordava sul nome di Burt, o perlomeno era così che la storia mi era stata raccontata.

    L’ex trapezista divenuto attore era già quasi sulla sessantina all’epoca dei fatti e reduce da un paio di clamorosi flop, soprattutto quella pellicola dove girava per tutto il tempo in costume da bagno da una casa all’altra, coi capelli appiccicati alla fronte e un fisico ancora perfetto, anche se poi era saltato fuori che il povero Burt non sapesse nuotare e per il film avevano ingaggiato un insegnante. Burt era il classico uomo bello e triste che la gente amava colpire nei punti deboli. Così quando ci capitava di portarci qualche attricetta o aspirante tale sul lido di Ostia oppure a fare un bagno nel Tevere di notte, c’era sempre qualcuno che tirava in ballo la storia di Burt, di quello stupido costume, dell’insegnante e della sua nostalgia per quando lavorava per il circo.

    Ricordo che una sera in spiaggia – ero arrivato da un paio di mesi a Roma – lo vedemmo. Fu la ragazza con cui uscivo a indicarmelo, una giovane attrice inglese di nome Judy che da tre anni abitava a Roma con la speranza di sfondare mentre si guadagnava da vivere vendendo gelati, e che chissà perché si era messa in testa che potessi metterla in contatto con qualche pezzo grosso del cinema.

    Me lo indicò dall’altra parte della riva.

    Quello è Burt Lancaster, mi disse sottovoce, come se lui a tutti quei metri di distanza potesse sentirci.

    Sei sicura?, le chiesi, convinto che la sua smania di sfondare le stesse facendo venire le traveggole.

    Annuì, proprio mentre un piccolo banco di nuvole si spostava, lasciando spazio al chiaro di luna.

    Guarda!

    L’attore era da solo, in costume ovviamente, illuminato dalla luce delle migliaia di stelle che puntellavano quella notte d’agosto, e pareva concentrato sulla lastra nera dell’acqua, come se fosse indeciso se tuffarsi o meno.

    Judy si portò le ginocchia al petto. Aveva dei riccioli castani che ricordavano quelli che forma il legno sotto una pialla e un corpo che era una vera delizia, sebbene minuto.

    Credevo che Norma gli avesse tirato le orecchie per bene, questa volta, mi disse, come se volesse farmi abboccare all’amo.

    Norma era Norma Anderson, la seconda moglie di Burt, che come tutti gli altri divi di Hollywood e loro relativi, veniva chiamato da noi del giro per nome, come se si trattasse di uno di famiglia.

    D’accordo, dissi alla mia amica, ormai sull’attenti. Raccontami.

    Mi disse che spesso, e di nascosto, Burt faceva ritorno a Roma, e a Cinecittà, perché aveva un sacco di amici e soprattutto di ammiratrici. Qui la gente lo chiamava ancora Don Fabrizio, come il personaggio da lui interpretato nel Gattopardo. Ma soprattutto, l’ormai più che maturo attore, si era trovato una nuova fiamma, una certa Dora che, con quel nome un po’ d’antan così facile da pronunciare anche per un americano e il visino incorniciato da capelli a caschetto lisci e neri come lucido da scarpe, aveva fatto perdere la testa a più di un uomo - e alcuni dicevano anche a qualche donna, negli studios all’inizio degli anni Cinquanta.

    La mia amica mi disse che quando Burt l’aveva conosciuta, Dora era già piuttosto sfatta, dopo quindici anni di vizi e feste e lussi. I fianchi le erano un po’ ceduti e il trucco un po’ pesante nascondeva i segni del viso, dove il famoso taglio di capelli ora risultava un po’ grottesco. Ma gli occhi erano ancora incantevoli e la voce era rimasta un’oasi di pace per chi si rifugiava nel suo letto a strappare una parentesi, rosa ovviamente, ai ritmi frenetici della celebrità.

    Dora si era comprata, coi soldi di qualche vecchio ammiratore, una villetta nel nuovo e lussuoso quartiere residenziale di Casal Palocco. Era una zona a sud di Roma di grandi e piccole ville, lussuose ma non ancora in modo esagerato, con ampi spazi di verde, una sorta di piccolo sobborgo – o il borghetto, come lo chiamavamo fra noi – ovviamente pensato per persone benestanti. Le imprese edili avevano iniziato a intensificare i lavori fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta. Molti attori e produttori erano andati a viverci, e a volte fiumane di auto si riversavano da quelle parti nelle sere d’estate per mangiare popcorn, bere coca da una bottiglietta di vetro e vedere un film all’Auto Cine, nel drive-in più grande d’Europa.

    Dora aveva fatto di Casal Palocco la propria base logistica per intrattenere relazioni. Lì aveva tutto a portata di mano, in fondo, e non doveva più trascinarsi fra gli studi cinematografici in cerca di celebrità da accalappiare. Una vera e propria pensione dorata. La mattina, Dora correva fra gli splendidi viali alberati per mantenere un minimo di forma, e la sera si intrufolava in una delle molte feste in cerca di amanti attempati e dal portafoglio pieno. Anche se la sua bellezza non era più abbagliante come un tempo, Dora aveva ormai un bagaglio di pettegolezzi tale da renderla interessante anche agli occhi delle nuove star; come, per esempio, quella volta che Gregory Peck le aveva offerto un caffè durante una pausa del film Vacanze romane ed erano stati sul punto di baciarsi. Poi il bel Gregory si era fermato e le aveva detto che non poteva farlo, no signore. Era ancora sposato e prima di arrivare a Roma era stato intervistato da una donna a Parigi, una certa Veronique, per cui aveva perso la testa. Oh, Gregory era così romantico, diceva Dora, il più galantuomo di tutti!

    Ma per tornare al nostro Burt – era chiaro che Judy adorasse tirarla per le lunghe, mentre non staccava per un attimo gli occhi dall’attore bitorzoluto sull’altro lato della spiaggia – il poveretto era infelice con Norma, un’infelicità che lo avrebbe portato al divorzio, e spesso la sua presenza malinconica faceva capolino (o capoccella, come si diceva a Roma) in uno dei rumorosi party di Casal Palocco. Così una sera Burt si era ritrovato a una festa organizzata da un produttore – Judy non ricordava come si chiamasse – e come al solito stava morendo di noia. Quelle feste erano un melting pot di lingue – francese, inglese, italiano, romano – e a seconda delle capacità linguistiche di ciascuno, ma a volte anche no, si creavano gruppetti di persone che chiacchieravano e ridevano e facevano tintinnare i bicchieri. L’argomento principale, quella sera, pareva essere Marlon Brando, che aveva sostituito lo sfortunato Montgomery Clift in Riflessi in un occhio d’oro e che poi era andato incontro a un flop epico recitando con Sophia Loren – quando si arrivava a questo punto della conversazione, di solito tutti si voltavano per vedere se la permalosa Sophia non fosse presente alla festa – nell’ultima disastrosa pellicola di Chaplin. Insomma, era tutto un Marlon di qua e Marlon di là, e così il triste Burt si era rifugiato in un angolo a cercare di trangugiare più Martini possibile, con o senza oliva dentro.

    Era stato in quel modo che Dora lo aveva adocchiato e gli si era avvicinata. I due avevano cominciato a parlare. Dora era tutta orecchie. Con la sua voce delicata, annuiva e accennava un solo ogni tanto, ma gradevole come una carezza. Qualcuno che lo ascoltasse, proprio ciò di cui l’attore americano aveva bisogno.

    Burt le aveva raccontato dell’infanzia a New York, nel quartiere di Harlem, che non era molto diverso da certe periferie di Roma, e di quando aveva perso la madre a quindici anni e poi, a ventuno, si era innamorato di una ragazza che lavorava nel circo ed era partito con tutto il carrozzone. Era stato un incidente a troncare la sua carriera da trapezista ed era il più grande rimorso della sua vita, diceva…

    Guardai la mia amica un po’ agitato, e anche in parte offeso perché da quando aveva visto Burt non mi degnava di un’occhiata. Ero giovane – anzi, eravamo giovani – e la spiaggia era quasi deserta. La brezza che giungeva dal mare mi faceva venire il desiderio di cose proibite. La pelle della mia amica era chiara e liscia come la superficie delle conchiglie che ci graffiavano le dita dei piedi affondati nella sabbia. Invece quel vecchio divo americano era arrivato a guastarci la festa. La mia curiosità professionale avrebbe dovuto avere la meglio, lo sapevo, ma in quel momento avevo tutt’altro tipo di pensieri per la testa.

    Quindi poi cos’è successo?, dissi, tagliando corto. So che hai una storia più succosa in serbo per me.

    Judy sbuffò.

    Siete sempre impazienti, voi uomini!

    Non so se si riferisse alla mia brama di giungere al punto della storia, o a tutt’altro tipo di punto. Oppure a Burt che l’aveva ipnotizzata.

    Beh, fatto sta – mi disse Judy – che da allora l’ex trapezista aveva cominciato a frequentare Dora, sempre più assiduamente. Per non creare strane voci, che sarebbero potute giungere a Norma Anderson, i due si vedevano nella casa di lei, una piccola villetta rosa fiancheggiata da altre abitazioni monofamiliari, ognuna di un colore diverso. Era un ambiente artificiale, un po’ come stare a Disneyland. La casa immediatamente vicina a quella di Dora era color giallo canarino e ci abitavano un’anziana ereditiera con il nipote, venuto a trovare la zia per prepararsi agli studi da seminarista. Fu la zia a insistere perché la raggiungesse a Casal Palocco. Quel quartiere era così privo di vita, a volte – gli aveva detto – soprattutto per lei che non faceva parte del jet-set, ma la sua via era una delizia in quanto a tranquillità, nessuna festa laggiù, solo anziani ricchi pensionati; insomma, la presenza del nipote l’avrebbe aiutata a vincere un po’ di quella sensazione di solitudine e lui avrebbe potuto avere tutto il silenzio necessario per concentrarsi negli studi, oltre alla possibilità di rilassarsi nelle pause con un tuffo nella piscina sul retro della casa gialla.

    Ma la pace era durata solo fino all’arrivo dell’attore americano. Dora e Burt, a quanto pare, facevano scintille, come se i cinquant’anni passati per entrambi si fossero d’improvviso dimezzati. Erano due veri fringuelli, e presto anche le precauzioni di Burt avevano ceduto il passo a quella folle euforia. Così una notte, la strana coppia si era intrufolata di nascosto nella piscina della casa gialla per una nuotata romantica. Sentendo dei rumori, e pensando che qualche bizzarro uccello fosse andato a finire nell’acqua, la vecchia si era svegliata e aveva guardato fuori dalla finestra, e c’erano sì degli uccellini, due passerotti, due sproporzionati, eccitati pappagalli in amore. Dora e Burt erano al centro della piscina, entrambi nudi, bianchi e monolitici come pietre lunari che pure si muovevano mentre si tenevano abbracciati e danzavano coi corpi sommersi nell’acqua.

    Subito l’ereditiera aveva svegliato il nipote addormentato.

    Ehi, gli aveva detto, apri quegli occhi.

    Il seminarista era scattato a sedere sul letto nella sua cameretta degli ospiti al primo piano.

    Guarda fuori dalla finestra, gli aveva detto la zia. Ma quando il nipote era arrivato alla finestra, la sola cosa che era riuscito a fare era stato sgranare gli occhi e dire: Oh.

    Solo a quel punto, la zia si era accorta di quanto svegliarlo fosse stata forse un’idea inopportuna.

    Credi che siano dei ladri?, aveva detto il ragazzo.

    Non lo so. Ma perché dei ladri dovrebbero… beh…

    A quel punto la zia aveva smesso di parlare, vedendo che il nipote era fin troppo concentrato sui seni nudi di Dora.

    Marco!

    Dimmi, zia.

    Cosa stai guardando?

    Sto… cercando di capire se siano dei ladri o…

    Judy si era persa ancora nella propria foresta di parole e ridacchiava, forse divertita da quei riferimenti che dovevano sembrarle piccanti.

    Anche se c’era buio, capivo che le sue guance erano rosse in quel momento, e a ogni risata sembrava avvicinarsi di più a me. Era come se il suo corpo fosse circondato da uno strato di calore e riuscissi a toccarla anche se in realtà non lo stavo facendo. Avrei voluto coprirla di baci e nello stesso tempo provavo un singolare piacere in questo indugiare e rimandare il momento. Avrei voluto che parlasse e parlasse, senza essere sicuro del premio finale, e avrei voluto anche quel premio subito, immediatamente, fra le mie mani.

    Che cos’è successo dopo?, dissi.

    La mia amica scoppiò a ridere.

    Beh, dopo hanno chiamato i carabinieri, disse.

    Quando i carabinieri erano arrivati, il fascio di luce dei fari delle auto aveva subito immortalato la scena nella piscina. Stranamente non avevano nessun paparazzo a seguito, come di solito avveniva in quel quartiere. Burt e Dora erano mezzi ubriachi e per qualche istante avevano fissato col sorriso sulla bocca gli uomini in divisa attorno alla vasca. Poi qualcuno, forse uno dei carabinieri, era andato a prendere due accappatoi dentro la villetta di Dora e la coppietta era stata accompagnata dentro casa. I carabinieri avevano parlato per un po’ con Burt e poi erano tornati dall’ereditiera chiedendole, a nome dell’attore, se per quella notte non potesse chiudere un occhio. Così la vecchia aveva evitato di sporgere denuncia e il giorno dopo Burt le aveva fatto trovare un’enorme scatola di cioccolatini con un biglietto di scuse davanti alla porta d’ingresso.

    Naturalmente, era estate e i cioccolati si erano già sciolti tutti quando la donna aveva aperto la confezione. Li aveva messi nel suo modernissimo frigo e poi aveva annunciato al nipote che li avrebbero mangiati quella sera. Ma proprio mentre si stavano preparando a mettersi a tavola, la cena era stata interrotta dalla visita del famoso attore. Era accompagnato da Dora e si erano portati dietro anche due tizi dall’aspetto orientale, con la divisa bianca e due borse piene di cibo.

    Se permettete, questa sera il pasto lo offriamo noi, aveva detto Dora. Il suo viso non era più distrutto come la sera precedente. Si era truccata e le guance erano cosparse di brillantini dorati, e dal lungo vestito nero scollato emergeva la linea scura degli ampi seni.

    Burt era stato favoloso. Spiccicava solo poche parole in italiano, ma era elegante e gentile e non faceva che parlare dell’Italia come del suo paese preferito. Con l’aiuto di Dora, aveva raccontato alcuni episodi riguardanti la vita sul set e incoraggiato sotto traccia il giovane seminarista a mollare tutto per lanciarsi in una carriera artistica.

    Non il cinema, però, aveva precisato. Il circo!

    Avevano bevuto parecchio, con Burt che stappava le bottiglie personalmente e riempiva i bicchieri mentre i due camerieri orientali si occupavano delle pietanze. Poi, quando era stato il momento di salutarsi, Dora si era avvicinata imbarazzata all’ereditiera.

    Sa, le aveva detto, Burt è un uomo piuttosto famoso… e ancora sposato… .

    Capisco, aveva detto l’ereditiera.

    Le siamo grati, aveva risposto Dora. E se il ragazzo avesse piacere, Burt gradirebbe fargli fare un giro negli studi i prossimi giorni.

    Gli studi?

    Cinecittà.

    Oh.

    In questo modo, la pace sembrava ristabilita, anche se la zia era un po’ preoccupata per l’influenza dell’attore sul giovane seminarista.

    Il ragazzo fece effettivamente un giro a Cinecittà con Burt, che affittò per l’occasione una splendida Spider rossa, e tornò a casa tutto eccitato. La zia era felice di vederlo, però… c’erano gli esami e tutto ciò le sembrava una distrazione. E in fondo, non si trattava solo di questo.

    Dopo l’episodio della piscina, Dora e Burt si erano impegnati a racchiudere la loro passione fra le mura di casa; ma se i loro corpi affamati rimanevano nascosti, non si poteva certo dire la stessa cosa delle loro voci, e dei loro schiamazzi e ansimi e sospiri. Era estate, gli aceri, i platani, i tigli, i pini facevano da piacevole schermo alle finestre della abitazione del ricco quartiere, che così rimanevano aperte. La sera si sentivano i bicchieri tintinnare nelle case, il ronzio dell’aria condizionata, i televisori accesi, mentre nel pomeriggio tutto si confondeva in un brusio rilassante, interrotto ogni tanto da qualche falciatrice o da un auto che lasciava il vialetto di casa. Ma dalla villetta rosa di Dora giungeva tutt’altro tipo di concerto, indistinto notte e giorno; un canto di grilli che si faceva strada fino alle orecchie del povero seminarista che si sforzava di studiare.

    Oh, Burt… che bello! Che bello!

    E c’era ovviamente anche la musica del grammofono, la voce di Edith Piaf o le note di qualche tango argentino, quando verso il tramonto i due interrompevano la loro rovente attività per mangiare qualcosa e ballare romanticamente nel salotto.

    La vecchia ereditiera era indignata, e più di una volta era stata tentata di afferrare nuovamente la cornetta per chiamare i carabinieri. Ma che cosa avrebbero potuto dirle? In che modo avrebbero potuto soccorrerla? Poteva forse impedire a quei due… sconsiderati di accoppiarsi? In fondo ora lo stavano facendo dentro le loro mura di casa e ne avevano tutto il diritto, no?

    Ma non era solo questo a frenare l’ereditiera. Burt e Dora erano così gentili, li riempivano sempre di doni, pacchetti fatti trovare davanti alla porta, e Burt stravedeva per il ragazzo, lo trattava come se fosse un figlio o un… nipote, e il sentimento era ricambiato, certo, anche se…

    Burt vorrebbe portare suo nipote Marco al circo… .

    Dora si era presentata alla porta più bella che mai, gli occhi immensi, un abito lungo color corvo, con delle cuciture d’oro sulle spalle, sui fianchi e sotto i seni, una figura d’altri tempi. Non ti saresti stupito di vederla uscire così agghindata da uno di quei maestosi alberghi carichi di storia che si trovavano nel centro di Roma. Il vestito doveva essere sicuramente un regalo di Burt. La vecchia ereditiera la fissò ancora per un po’. Dora era dimagrita da quando lei e l’attore si frequentavano. D’altronde con tutta quell’attività! La donna si chiedeva come facessero. Lei dopo i cinquant’anni aveva, come si diceva, chiuso bottega. E non solo perché il povero marito era morto per un attacco cardiaco mentre nuotava nella piscina. Avrebbe potuto rifarsi una vita, in seguito, ma aveva sempre pensato di essere troppo in là con gli anni. E se invece si fosse sbagliata? Ora c’era questa donna… con tutta questa… brama!

    La vecchia squadrò Dora dalla testa ai piedi. Era scalza. D’altronde c’erano solo due prati a separare le rispettive case.

    Il circo?, chiese, come se Dora le avesse appena proposto di portare il nipote su Marte.

    Già. Hanno appena piantato un circo non molto lontano da qui. Vicino al Torrino. E come sa, Burt ha una tale passione per questo tipo di cose e vorrebbe che il ragazzo…

    Marco.

    Sì… vorrebbe mostrare a Marco…

    Lo so. Lo so, tagliò corto l’ereditiera. Ma mio nipote sta studiando per il seminario e…

    Si tratta solo di una notte…

    Non saprei…

    Dora si avvicinò di qualche passo.

    Glielo riporteremo sano e salvo.

    A quel punto Marco era comparso alle spalle della zia.

    Che succede?, disse.

    La donna era sicura che avesse sentito l’intera conversazione. Vide negli occhi del nipote una luce tale che capì che il ragazzo non desiderava altro che quell’invito. Perché negarglielo? Non aveva mai avuto figli, solo quel nipote, e certi sguardi non era proprio in grado di reggerli. Il suo buon cuore si era fatto troppo tenero con l’età.

    Credo che il tuo… amico americano ti voglia invitare al circo. Sempre che l’idea… ti vada a genio.

    Il ragazzo sorrise come se gli avessero appena detto che aveva ereditato un milione.

    Quando?, disse, guardando verso un punto imprecisato nello spazio d’aria fra la zia e la vicina di casa.

    Domani sera, rispose Dora.

    Ci sarò.

    La sera dopo, Dora e Burt erano passati a ritirare il ragazzo con un’altra Spider a noleggio, questa volta color azzurro cenere. Il sole non era ancora tramontato. Burt indossava una camicia a maniche corte a righe sopra un paio di pantaloncini rossi. Il viso era schermato da un vistoso paio di occhiali da sole. Dora era già leggermente brilla. Il rossetto sulle sue labbra luccicava come l’oro che si trova sulle spiagge al mattino, il lungo abito scuro come sempre nascondeva certe imperfezioni dell’età. I due amanti occupavano i sedili davanti e Marco si accomodò su quello posteriore, simile a un bambino che parte in gita con gli zii. Si era pettinato all’indietro i capelli lisci, castani e già radi. Gli occhi azzurri parevano persi nel vuoto. Gli zigomi sembravano voler tenersi il più distante possibile dalle guance, che erano incavate e segnate dalle lentiggini. Le mani infilate nelle tasche dei pantaloni eleganti color cachi pizzicavano nervosamente qualcosa che non c’era.

    Burt si piegò sotto il sedile e senza dire nulla tirò fuori uno Stetson di paglia che posò sulla testa del ragazzo.

    Un regalo dall’America, disse Dora, sorridendo.

    Adesso sei un vero cowboy, disse Burt in un italiano incerto, stringendo nuovamente il volante fra le mani.

    La zia non riuscì a dire nulla. Si limitò a starsene lì a fissare con gli occhi sgranati l’immagine che aveva davanti a sé. C’era una bottiglia di spumante incastrata fra i due sedili davanti, con le bollicine che si sollevavano velocemente verso il tappo, e dei bicchieri sbucavano dal cruscotto aperto. Dalla radio giungevano le note soffuse di un brano jazz. E Marco era lì dietro, come rimpicciolito mentre se ne stava appollaiato sul sedile con quel cappello troppo largo a coprirgli la testa.

    Burt si sollevò gli occhiali con un dito a mo’ di saluto e mise in moto.

    La vecchia ereditiera vide allontanarsi la Spider nel cielo cristallo che avvolgeva le strade tranquille e la vegetazione di Casal Palocco, dove una luna prematura e ancora nascosta dal giorno sembrava un cubetto di ghiaccio che galleggiava in un bicchiere.

    La donna anziana aveva sospirato, poi aveva trascinato i piedi nel prato fino a raggiungere casa, dove si era chiusa la porta alle spalle lasciando i grilli liberi di iniziare il loro concerto notturno.

    La vecchia, mi disse Judy, rimase parecchie ore sveglia quella notte, passeggiando avanti e indietro, fino a lasciarsi cadere spossata sul divano verde del proprio elegante salotto, fissando l’enorme finestra e il buio. Il nipote e i suoi due nuovi amici non facevano ritorno. Forse si erano fermati a mangiare un boccone? C’erano dei ristoranti che rimanevano aperti fino a tardi lungo la via del Mare, vicino a dove il circo aveva piantato la tenda. Oppure era successo qualcosa? Il povero nipote non rincasava mai dopo le dieci e non andava mai a dormire dopo mezzanotte. Che cosa accidenti gli era capitato?

    Chiuse gli occhi e sognò. Nel sogno dovevano esserci delle palme, come quelle del viaggio di nozze col marito ai Tropici. Le sentiva frusciare sopra la testa. Era stata una splendida crociera. Ricordava ancora la sensazione del sole che le scottava la pelle e quelle bestiole simili a formiche rosse che le pizzicavano le caviglie, e il suo bel Giorgio che le diceva…

    Il campanello suonò e lui aprì gli occhi. Fissò l’orologio alla parete, una vecchia pendola. Erano quasi le cinque del mattino. Corse ad aprire la porta.

    Fuori c’erano Burt e Dora ma non il nipote. Burt era spettinato. Un grosso ciuffo di capelli neri gli si era appiccicato alla fronte.

    È successo qualcosa, disse Dora, rendendo affermazione la domanda che la vecchia stava per porgere.

    A Marco?

    Burt annuì con la testa.

    Niente di grave, disse Dora, e si lasciò sfuggire un risolino che tradì l’espressione che intendeva essere seria. Dovevano avere bevuto parecchio. Un saporaccio acido circondava le loro sagome illuminate dal faretto esterno ancora acceso. Alle loro spalle, il cielo stava cominciando a inazzurrarsi e le stelle lucenti a chiudere gli occhi, e la Spider era ferma nel vialetto silenzioso, come una presenza giunta dall’altro mondo.

    Che… che cosa è successo?, chiese l’ereditiera.

    Oh disse Dora. Si coprì la bocca con la mano, lanciò un’occhiata divertita a Burt che si sforzava di rimanere posato e poi fissò di nuovo l’anziana signora. Ecco, lui ha incontrato…

    Era successo proprio come in un copione, uno di quelli che allo sfrontato attore americano sarebbe piaciuto interpretare. I tre erano arrivati al circo e ovviamente avevano ottenuto i posti migliori, in prima fila. Marco era rigido, emozionato, paralizzato dalla novità di quella serata, e così Burt, per farlo sciogliere, gli aveva passato la propria fiaschetta di whisky. Il famoso attore sedeva in mezzo al trio e col braccio sinistro cingeva Dora per le spalle e ogni tanto la sbaciucchiava. Nella penombra che avvolgeva il pubblico era al sicuro da sguardi indiscreti. Con l’altro braccio, dava qualche sporadica pacca sulla schiena del ragazzo, come per caricarlo. Continuava a ripetere la parola pronti, come fanno certi americani quando il vocabolario un po’ ristretto li spinge a usare alcune espressioni economiche valide per tutte le situazioni.

    Le luci si erano spente, poi c’era stato un rullo di tamburi e, come per magia, le note di una marcetta si erano sollevate da qualche parte dietro il palco. Pa-ppa-pa-ppa-parrà-pà. Poi una singola luce aveva illuminato il centro della scena ed era entrato il clown. Era avanzato verso il pubblico, con le braccia ciondoloni, il passo strascicato e l’espressione triste. Oh, signori e signore, aveva detto. Sono così abbattuto! Avevo una bella muta di cani, dei magnifici cuccioli, e li ho persi tutti! Ohi, ohi! Erano come figli per me ed ecco che sono spariti!. Poi la tenda alle sue spalle si era aperta di nuovo, senza che il clown se ne accorgesse, e in silenzio aveva fatto il proprio ingresso un tizio enorme, forse reso ancora più grosso da un po’ di spugna sotto il costume da fabbro. Aveva due baffi lunghi che gli arrivavano fin sotto il mento e le braccia spesse come macigni erano completamente tatuate da scene che parevano piccoli racconti. Si era avvicinato alle spalle del clown, aveva piegato un ginocchio, sempre molto lentamente, e poi gli aveva mollato un

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