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Tre cieli. Quella volta che Murakami mi copiò
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Ebook245 pages2 hours

Tre cieli. Quella volta che Murakami mi copiò

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About this ebook

La vita del bidello Schitimiri percorre tre scenari che, nel romanzo, si succedono con tonalità differenti. Il primo scenario è fatto di presente quotidiano, accompagnato da un fitto dialogo con l'amico merlo; il secondo è un futuro prossimo di anestetica felicità collettiva; il terzo è un percorso di rinascita attraverso suggestioni artistiche e pittoriche, in cui il protagonista viene preso per mano da una misteriosa donna-farfalla.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateApr 20, 2020
ISBN9788831667883
Tre cieli. Quella volta che Murakami mi copiò

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    Tre cieli. Quella volta che Murakami mi copiò - Irene Chiozza

    Indice

    PRIMO CIELO

    1

    2

    3

    4

    6

    7

    8

    9

    10

    11

    SECONDO CIELO

    DOCUMENTO 1

    DOCUMENTO 2

    DOCUMENTO 3

    DOCUMENTO 4

    DOCUMENTO 5

    DOCUMENTO 6

    DOCUMENTO 7

    DOCUMENTO 8

    DOCUMENTO 9

    DOCUMENTO 10

    DOCUMENTO 11

    TERZO CIELO

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    10

    11

    12

    13

    14

    15

    16

    17

    18

    19

    20

    21

    22

    23

    24

    Ringraziamenti

    Note dell’autrice

    I libri della collana Scrittura Zen Genova

    Note

    Del­la stes­sa au­tri­ce:

    TE­STA­MO­RO COCK­TAIL

    di ca­me­lie, ba­si­li­co, ri­cor­di e se­ga­tu­ra

    (2018) You­can­print/Scrit­tu­ra Zen Ge­no­va

    Ire­ne Chioz­za

    TRE CIE­LI

    Quel­la vol­ta che Mu­ra­ka­mi mi co­piò

    Ti­to­lo | TRE CIE­LI - Quel­la vol­ta che Mu­ra­ka­mi mi co­piò

    Au­to­re | Ire­ne Chioz­za

    A cu­ra di Pao­la Fa­rah Gior­gi – Scrit­tu­ra Zen Ge­no­va

    Im­ma­gi­ni di co­per­ti­na e in­ter­ne: Dri­na A12

    ISBN | 978-88-31667-88-3

    Pri­ma edi­zio­ne di­gi­ta­le: 2020

    © Tut­ti i di­rit­ti ri­ser­va­ti all'Au­to­re.

    Que­sta ope­ra è pub­bli­ca­ta di­ret­ta­men­te dall'au­to­re tra­mi­te la piat­ta­for­ma di sel­fpu­bli­shing You­can­print e l'au­to­re de­tie­ne ogni di­rit­to del­la stes­sa in ma­nie­ra esclu­si­va. Nes­su­na par­te di que­sto li­bro può es­se­re per­tan­to ri­pro­dot­ta sen­za il pre­ven­ti­vo as­sen­so dell'au­to­re.

    You­can­print Self-Pu­bli­shing

    Via Mar­co Bia­gi 6, 73100 Lec­ce

    www.you­can­print.it

    in­fo@you­can­print.it

    Qual­sia­si di­stri­bu­zio­ne o frui­zio­ne non au­to­riz­za­ta co­sti­tui­sce vio­la­zio­ne dei di­rit­ti dell’au­to­re e sa­rà san­zio­na­ta ci­vil­men­te e pe­nal­men­te se­con­do quan­to pre­vi­sto dal­la leg­ge 633/1941.

    Que­sta vol­ta

    la de­di­ca è tut­ta per lei

    che è il fu­tu­ro na­to da me

    che pos­sie­de il co­rag­gio del cam­bia­men­to.

    Ca­ro let­to­re,

    se aves­si co­rag­gio, ri­cor­re­rei ai più be­ce­ri luo­ghi co­mu­ni, con pa­ro­le stuc­che­vo­li e sman­ce­rie. Il mio ben­ve­nu­to sa­reb­be già bell’e scrit­to, ma il bon ton let­te­ra­rio per me è leg­ge.

    Men­tre in­cro­cio le di­ta su­pe­rio­ri e in­fe­rio­ri e ac­ca­rez­zo un cor­net­to ros­so, sen­to che non fun­zio­na­no.

    Mi re­sta l’in­de­cen­te im­plo­ra­zio­ne.

    Leg­gi an­che que­sta vol­ta.

    Ti pro­met­to col­pi di sce­na e sor­pre­se.

    PRI­MO CIE­LO

    Un cie­lo az­zur­ro ca­li­gi­no­so, spor­co di co­to­ne gri­gia­stro, si esten­de sui ter­raz­zi del­le ca­se al­lun­gan­do­si in strie bian­che che cor­ro­no pa­ral­le­le ai fi­li elet­tri­ci ver­so un pi­lo­ne di fer­ro. Sem­bra la Tour Eif­fel dei po­ve­ri, con­fic­ca­ta sul dor­sa­le del­la col­li­na, emer­sa da una di­ga di fo­glie. Ol­tre il mu­ro, la roc­cia si ar­ren­de al­la stra­da li­to­ra­nea: un bus, un’edi­co­la, un ca­val­ca­via fer­ro­via­rio e una ca­sca­ta di olean­dri ro­sa e bian­chi.

    La cit­tà son­nec­chia in­cu­ran­te de­gli uo­mi­ni, men­tre una vo­ce vir­tua­le li ac­com­pa­gna a de­sti­na­zio­ne e gli al­be­ri, scar­ni e in­dif­fe­ren­ti, li guar­da­no.

    Leg­ge­ra e scu­ra, una far­fal­la ta­glia il qua­dro in dia­go­na­le, lo mac­chia di gial­lo e ne­ro, vo­la via. Al­cu­ni squil­li an­ne­ga­no in nien­te. Tut­to in­tor­no è an­ti­co, de­te­rio­ra­to e inu­ti­le. Una mer­la co­strui­sce un ni­do inu­sua­le.

    Tut­to co­min­cia con un’il­lu­sio­ne … e ho pau­ra

    Blu

    La in­con­tre­rai nel­le pa­gi­ne del ro­man­zo, sen­za fret­ta.

    Giò

    Chi è? … Lo sco­pri­rai, quan­do sa­rà il mo­men­to.

    1

    «Ca­ro Tur­dus me­ru­la, sai qual è la co­sa più stra­na che ho fat­to que­st’an­no? Il cap­pot­to all’aspi­ra­pol­ve­re. Ti sfi­do a sco­va­re un’al­tra per­so­na nel glo­bo che si sia im­pe­gna­ta in un si­mi­le ma­nu­fat­to. Sì, mi di­rai che il cap­pot­to è un og­get­to usua­le, per­si­no or­di­na­rio, e che so­lo chi ha sca­la­to le vet­te del­la let­te­ra­tu­ra lo ha sa­pu­to fa­re as­sur­ge­re a em­ble­ma esi­sten­zia­le. Lo ri­co­no­sco. Go­gol’, il rus­so, gli ha de­di­ca­to pa­ro­le il­lu­mi­na­te, ma io re­sto con­vin­to che nes­su­no mai ab­bia pro­get­ta­to, ta­glia­to, cu­ci­to, mi­su­ra­to e, in­fi­ne, in­fi­la­to il cap­pot­to al­la sco­pa elet­tri­ca per­ché non ri­ghi il pa­vi­men­to ce­ra­to. Per que­sto, nel tor­neo del­la fan­ta­sia vin­co io uno a ze­ro! Oh, di­rai che Go­gol’ era uo­mo ot­to­cen­te­sco e di si­cu­ro man­co sa­pe­va che esi­stes­se­ro le fac­cen­de do­me­sti­che. Io, in­ve­ce, uo­mo mo­der­no, qual­che vol­ta ho per­si­no lu­ci­da­to il ra­me ap­pe­so nel­la mia cu­ci­na. Con­clu­do con­fes­san­do­ti che, do­po ave­re do­ta­to l’elet­tro­do­me­sti­co an­che di uno scal­da­col­lo, ho sco­per­to che la par­te ta­glien­te e col­pe­vo­le re­sta­va ester­na all’im­bot­ti­tu­ra e mi ri­vol­ge­va umi­lian­ti sber­lef­fi. Non ci si può fi­da­re nean­che de­gli elet­tro­do­me­sti­ci.»

    Lo ve­do che svo­laz­za su una fo­glia del­la pal­ma che lam­bi­sce le mie per­sia­ne soc­chiu­se, per nien­te in­ti­mo­ri­to dal mo­no­lo­go. È un mer­lo al­bi­no. In­to­na sem­pre un can­to che mi pa­re as­so­mi­gli al­la can­ti­le­na del­le mie pa­ro­le. Po­treb­be es­se­re, da­to che da qual­che pri­ma­ve­ra ha elet­to il ter­raz­zi­no di ca­sa mia a suo mo­no­lo­ca­le pre­di­let­to, do­ve tro­va la man­gia­to­ia al­le­sti­ta dal sot­to­scrit­to. Me­glio na­sce­re for­tu­na­ti che ric­chi, o no?

    Ho ap­pe­so una bot­ti­gliet­ta di pla­sti­ca da mez­zo li­tro, chiu­sa con il tap­po, a uno spor­tel­lo del­la per­sia­na del sa­lot­to in man­sar­da. Bu­ca­ti i la­ti con un col­tel­li­no, ho fat­to pas­sa­re da una par­te all’al­tra due me­sto­li di le­gno che fun­zio­na­no da sco­del­li­ne per­ché Tur­dus pos­sa ser­vir­si.

    Lui gra­di­sce mol­to, ma la fi­ne­stra un po’ me­no: la sua ver­ni­ce bian­ca fru­sta­ta dal li­bec­cio e dal sa­li­no si sta scro­stan­do, i ve­tri so­no sem­pre opa­chi e il mio per­fe­zio­ni­smo ca­sa­lin­go ne sof­fre pa­rec­chio.

    Con un bre­ve vo­let­to, rag­giun­ge il mar­cia­pie­de e gher­mi­sce qual­co­sa, for­se un po­ve­ro so­prav­vis­su­to lom­bri­co, in­ge­nua­men­te eva­so dall’aiuo­la che de­li­mi­ta l’Au­re­lia.

    Lo ve­do men­tre ri­gi­ra una fo­glia e pic­chiet­ta e strap­pa, poi si fer­ma bru­sco, gi­ra la te­sta di la­to, sal­tel­la sca­van­do il ter­re­no ai pie­di dell’olean­dro.

    «Sai, vo­la­ti­le in­co­lo­re, mi so­no tan­to abi­tua­to a te da te­ne­re la fi­ne­stra soc­chiu­sa, no­no­stan­te il con­ti­nuo pas­sa­re di au­to e au­to­bus ac­com­pa­gna­ti dal­le lo­ro mor­ti­fe­re esa­la­zio­ni.»

    «Tcink tcink tcink»

    «Bra­vo Tur­dus, fat­ti sen­ti­re e can­cel­la i clac­son, le fre­na­te, le gri­da e i miei di­spia­ce­ri. Ac­ci­den­ti a me.»

    So­no si­cu­ro che il mio eser­ci­to di ar­mo­ni­che schie­ra­te qui in or­di­ne mi­li­ta­re­sco tro­va nel can­to di que­sto ani­ma­let­to ras­si­cu­ran­ti suo­ni fa­mi­lia­ri. Co­me non far­lo? È sta­to lui a da­re il no­me Un­luc­ky bird all’uma­no che gi­ron­zo­la qui in­tor­no, ov­ve­ro il sot­to­scrit­to. Non c’è bi­so­gno di chie­der­si per­ché.

    Tcink tcink tcink

    Io vi con­si­glio in­ve­ce di chie­der­ve­lo il per­ché, tcink tcink tcink. Lo co­no­sco be­ne Schi­ti­mi­ri. In que­sto mo­men­to è die­tro la per­sia­na che mi guar­da. An­che io lo spio sem­pre, ed è per que­sto che so tut­to, ma pro­prio tut­to, di lui.

    Com­po­ne ma­lin­co­ni­che can­zo­ni tra la li­bre­ria e il di­va­no ama­ran­to, pre­di­li­ge gli stru­men­ti stra­ni, inu­sua­li, an­ti­qua­ti co­me lui. Chis­sà do­ve riu­scì a sco­var­li, suo non­no.

    Schi­ti suo­na di man­can­za e vuo­to e aci­do in go­la, ma a vol­te i suoi fan­ta­smi si tra­sfor­ma­no in pu­ra me­ra­vi­glia che si scom­po­ne, ol­tre l’ab­bai­no, per scen­de­re a piog­gia sui vi­ci­ni in­cre­du­li, sui ne­go­zi, sui pas­san­ti del lun­go­ma­re. Spes­so suc­ce­de do­po un buon caf­fè.

    Schi­ti en­tra suo­nan­do nel pae­sag­gio del pre­sen­te, del­la stra­da, di ca­sa sua, del film che il suo ar­cheo­lo­gi­co vi­deo­re­gi­stra­to­re pro­iet­ta sul­lo scher­mo­gi­ga del sa­lot­ti­no in man­sar­da. Su­bi­to lo abi­ta e lo ri­vi­ve fin­gen­do­si at­to­re pro­ta­go­ni­sta, al­la fac­ciaz­za del­la sua ma­lin­co­nia.

    Ha ere­di­ta­to da suo pa­dre la pas­sio­ne per vi­deo­cas­set­te e pel­li­co­le, per i we­stern e per il film che guar­de­rà di nuo­vo tra po­co per la mil­le­si­ma vol­ta, uno dei mi­glio­ri di sem­pre, crea­to dai gran­di.

    Qui, tra i ra­mi del po­thos, lo sor­ve­glio che è una me­ra­vi­glia e lui non si ac­cor­ge di me, non mi ve­de.

    Ec­co, lo sa­pe­vo, ha in­fi­la­to la cas­set­ta. Ora mi av­vi­ci­no, gli fa pia­ce­re. «C'era una vol­ta il We­st! Fi­go! Pe­rò è len­to, Schi­ti, … trop­po.»

    «No, Tur­dus, è fat­to di lun­ghe at­te­se, di­se­gna un mon­do che sta per fi­ni­re per­ché sta ar­ri­van­do il pro­gres­so con la fer­ro­via e i tre­ni. Sen­ti l’ar­mo­ni­ca.»

    «Su­bli­me Schi­ti.»

    «Ma do­ve im­pa­ri que­sto vo­ca­bo­la­rio an­ti­qua­to?»

    «Da te, da te.»

    «Puoi ri­far­ti gli oc­chi con una BEP.»

    «Eh?»

    «Bel­lis­si­ma ex pro­sti­tu­ta.»

    «Ah!»

    «E co­sì sia, fra­tel­lo. Al­le­gri.»

    A pro­po­si­to, chi ascol­ta con noi un po’ di mu­si­ca? Vi con­si­glia­mo En­nio Mo­ri­co­ne, C’era una vol­ta il We­st, co­lon­na so­no­ra.

    2

    C'era una vol­ta il We­st, c’era una vol­ta … e co­min­cia una fia­ba. Mio pa­dre ama­va il ci­ne­ma. Boc­ca di­schiu­sa e na­so all’in­sù, so­lo da­van­ti al­lo scher­mo.

    Ho co­no­sciu­to il tem­po di ma­ghi, prin­ci­pes­se e ca­va­lie­ri in lot­ta con i dra­ghi, i lo­ro den­ti e le fiam­me di se­rie. C’era una vol­ta … ora è no­stal­gia e sa del pas­sa­to che non po­trò sta­na­re da nes­sun an­go­lo.

    C’era lui, c’era­no lo­ro, an­che mia ma­dre, e li ama­vo. C’era­no il pian­to e la spe­ran­za che fi­nis­se, le ur­la e l’an­go­scia sen­za ri­me­dio. Ep­pu­re, vor­rei i lo­ro oc­chi, le lo­ro ma­ni su di me e so­prat­tut­to le lo­ro vo­ci pri­ma di quel gior­no, di quell’ur­lo.

    «Ba­sta Schi­ti, non ti lo­go­ra­re.» Tur­dus si av­vi­ci­na, «Guar­da.»

    Mi gi­ro. Ve­lo­ci, le ali esi­li e ner­va­te di una far­fal­la si al­za­no dal­le fo­glie del po­thos; un rag­gio di so­le il­lu­mi­na il gial­lo, il ne­ro e il mar­ro­ne e, per un at­ti­mo, lei si tra­ve­ste. Ha mac­chie aran­cio­ni.

    «Vie­ni qui, re­spi­ra, sdra­ia­ti, sdra­ia­ti e re­spi­ra.»

    «Sem­pre be­ne non si può sta­re, lo so, Tur­dus.»

    «Met­ti la cas­set­ta e fal­la gi­ra­re.»

    «Aspet­ta, Tur­dus. Mi ser­ve un caf­fè, un caf­fè qual­sia­si, pur­ché sia un caf­fè. Ora mi cal­mo.»

    C’era una vol­ta il we­st ...

    «Ini­zia, zit­to e guar­da. Se fos­si un uc­cel­lo ti di­rei chiu­di il bec­co.»

    «E sia.»

    Soc­chiu­do gli oc­chi, suo­no l’ar­mo­ni­ca e so­no là. La mo­sca in pri­mo pia­no zam­pet­ta sul mio na­so e ascol­to le goc­ce d’ac­qua che ca­do­no sul cap­pel­lo del pi­sto­le­ro e sul­le mie spal­le. Con Ar­mo­ni­ca suo­no la co­lon­na so­no­ra e, stra­to su stra­to, di­ven­ta pel­le, car­ne, sen­ti­men­to.

    Non mi sen­to né pi­sto­le­ro, né giu­sti­zie­re, non fer­mo le lo­co­mo­ti­ve, ma la mia vo­ce è fat­ta d’ar­mo­ni­ca e suo­na.

    An­che la mia fac­cia non è quel­la giu­sta, non pro­prio quel­la di Bron­son, ma non im­por­ta.

    «Tu non as­so­mi­gli ad Ar­mo­ni­ca, ma a Frank il cat­ti­vo che, no­no­stan­te gli oc­chi ce­ru­lei e l’aria one­sta, è un ma­tri­co­la­to fi­glio di put­ta­na, è bel­lo e ha l’aspet­to da buo­no, ma è il più cat­ti­vo di tut­ti.»

    «Tur­dus, non è ci­ne­ma, ma pu­ra ar­mo­nia, ogni sce­na se­gue il rit­mo del­la mu­si­ca, ogni in­qua­dra­tu­ra è cin­que se­con­di di ma­gia.»

    «E le bat­tu­te, Schi­ti … è ve­ro che le sai a me­mo­ria?»

    «Cer­to, e te le pos­so ri­pe­te­re qui su due pie­di.»

    «Non so­lo … Vo­glia­mo par­la­re di co­me ti ve­sti? Frank ti di­reb­be: «Co­me si fa a fi­dar­si di uno che por­ta in­sie­me cin­ta e bre­tel­le? Di uno che non si fi­da nem­me­no dei suoi pan­ta­lo­ni?»

    Do uno sguar­do al­la mia im­ma­gi­ne ri­fles­sa nell’an­ta se­mia­per­ta del­la ve­tri­net­ta dei pic­co­li stru­men­ti; for­se Frank e Tur­dus han­no ra­gio­ne, for­se i mi­ti­ci sti­li­sti ita­lia­ni del­lo scor­so ven­tu­ne­si­mo se­co­lo si ri­vol­ta­no nei lo­ro lo­cu­li so­fi­sti­ca­ti.

    «Ma a me ‘sta ca­mi­cia ros­sa sui pan­ta­lo­ni co­bal­to con cin­tu­ra, bre­tel­le gial­le e cap­pel­li­no a pois sem­bra un look moool­toin­te­res­san­te­mol­to.»

    Sen­to un si­gh se­gui­to da un fre­mi­to del pho­tos e da un se­con­do si­gh.

    «E va be­ne, Tur­dus, non ti scal­da­re.»

    Sor­ri­do e il pen­sie­ro tor­na al film.

    «Poi c’è il duel­lo fi­na­le; chi sta la­vo­ran­do al­la fer­ro­via nem­me­no se ne ac­cor­ge. Se ne fre­ga­no, del duel­lo: la fer­ro­via è il fu­tu­ro, i due pi­sto­le­ri a duel­lo il pas­sa­to. For­se que­sto film ha un po­sto nel mio cuo­re per­ché mi sen­to co­me quei pi­sto­le­ri, spae­sa­to e fuo­ri po­sto. Il nuo­vo se­co­lo è già su­pe­ra­to, né car­ne, né pe­sce. Di mo­der­no mi sem­bra ab­bia po­co, vi­sto che gli uo­mi­ni con­ti­nua­no a odiar­si e far­si del ma­le, egoi­sti e ri­pie­ga­ti sul pro­prio om­be­li­co. Ado­ra­no il de­na­ro e so­no sem­pre più so­li. Se i di­so­ne­sti fos­se­ro co­me nu­vo­le, ci sa­reb­be sem­pre il di­lu­vio.»

    C’era una vol­ta … un mon­do che non c’è più.

    C’era una vol­ta un mon­do che non c’è an­co­ra.

    Ogni ri­fe­ri­men­to a per­so­ne e fat­ti con­tem­po­ra­nei è pu­ra­men­te in­ten­zio­na­le. Fi­ne. Il na­stro nel­la bo­bi­na si fer­ma e tor­na ve­lo­cis­si­mo in­die­tro. Del mer­lo e del­la far­fal­la non c’è più trac­cia. Dal­la stra­da si al­za­no i suo­ni ag­gres­si­vi di al­cu­ne sprin­tam­bu­lan­ze­dop­pie, tra­spor­ti mul­ti­pli di fe­ri­ti o ma­la­ti, in­ci­den­ta­ti, tos­si­ci, vio­len­ti, vit­ti­me e sui­ci­di. Nien­te duel­li nel ven­tu­ne­si­mo se­co­lo ma, non il­lu­de­te­vi, in con­fron­to il vec­chio we­st era un col­le­gio per si­gno­ri­ne.

    Il suo­no me­tal­li­co ri­pe­tu­to del­la por­ta pre­ce­de la vi­ci­na di ca­sa. Lei en­tra e si av­vi­ci­na.

    «Me­no ma­le che ci sei tu, Zil­da.»

    «Fi­gu­ra­ti Schit.» Mi chia­ma co­sì da sem­pre.

    «Gli al­tri in­qui­li­ni non mi sa­lu­ta­no nep­pu­re se li in­cro­cio nel­le sca­le.»

    «Ho si­ste­ma­to la cer­nie­ra del­la tua giac­ca.»

    «Gra­zie. Me la ca­vo be­ne nel­le pu­li­zie, ma se c’è da cu­ci­re so­no nel­la brat­ta.»

    «Lo fac­cio con pia­ce­re, Schit, lo sai.»

    «Sei la mia an­co­ra di sal­vez­za. Co­me fa­rei sen­za di te.»

    «An­dre­sti dai sar­ti gha­ne­si.»

    «Si, ma tu mi re­sti­tui­sci il la­vo­ro la­va­to, sti­ra­to e pro­fu­ma­to e non sa­li mai a ma­ni vuo­te: un ba­rat­to­lo di pe­sto og­gi, una frit­ta­ta do­ma­ni.»

    Tcink tcink tcink

    Lo ten­go d’oc­chio dal­la fi­ne­stra del­la cu­ci­na, na­sco­sto dal­le ten­de. Lui apre il car­toc­cio di frit­tel­le che lei gli ha mes­so tra le ma­ni. Lo zuc­che­ro va­ni­glia­to si span­de sul pia­no di no­ce del ban­co­ne. La don­na si sie­de sul­la pan­ca tra i cu­sci­ni ri­ga­ti.

    «Zil­da, non ho pa­ro­le … so­no mor­bi­de, leg­ge­re e uni­che.»

    Lui an­nu­sa i dol­ci, li fa sci­vo­la­re su un to­va­glio­lo di car­ta in un piat­to di ve­tro blu e li por­ta in ta­vo­la. So­no an­co­ra cal­di.

    «Hai ce­na­to, Schit?»

    «No, ho suo­na­to.»

    «Ti ho sen­ti­to e mi hai scal­da­to il cuo­re.»

    «De­li­zio­se, Zil­da. E non dir­mi che è la fa­me a par­la­re.»

    «Lo cre­do, non ho mai cam­bia­to una vir­go­la del­la ri­cet­ta di tua ma­dre.»

    La don­na ac­ca­rez­za il le­gno con ge­sto fa­mi­lia­re e lie­ve. Schi­ti si fer­ma e di­sto­glie lo sguar­do, fis­san­do la mac­chi­na im­pa­sta­tri­ce che è an­co­ra tra i suoi uten­si­li.

    «Ora tor­no giù,

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