Tre cieli. Quella volta che Murakami mi copiò
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Book preview
Tre cieli. Quella volta che Murakami mi copiò - Irene Chiozza
Indice
PRIMO CIELO
1
2
3
4
6
7
8
9
10
11
SECONDO CIELO
DOCUMENTO 1
DOCUMENTO 2
DOCUMENTO 3
DOCUMENTO 4
DOCUMENTO 5
DOCUMENTO 6
DOCUMENTO 7
DOCUMENTO 8
DOCUMENTO 9
DOCUMENTO 10
DOCUMENTO 11
TERZO CIELO
1
2
3
4
5
6
7
8
10
11
12
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Ringraziamenti
Note dell’autrice
I libri della collana Scrittura Zen Genova
Note
Della stessa autrice:
TESTAMORO COCKTAIL
di camelie, basilico, ricordi e segatura
(2018) Youcanprint/Scrittura Zen Genova
Irene Chiozza
TRE CIELI
Quella volta che Murakami mi copiò
Titolo | TRE CIELI - Quella volta che Murakami mi copiò
Autore | Irene Chiozza
A cura di Paola Farah Giorgi – Scrittura Zen Genova
Immagini di copertina e interne: Drina A12
ISBN | 978-88-31667-88-3
Prima edizione digitale: 2020
© Tutti i diritti riservati all'Autore.
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Questa volta
la dedica è tutta per lei
che è il futuro nato da me
che possiede il coraggio del cambiamento.
Caro lettore,
se avessi coraggio, ricorrerei ai più beceri luoghi comuni, con parole stucchevoli e smancerie. Il mio benvenuto sarebbe già bell’e scritto, ma il bon ton letterario per me è legge.
Mentre incrocio le dita superiori e inferiori e accarezzo un cornetto rosso, sento che non funzionano.
Mi resta l’indecente implorazione.
Leggi anche questa volta.
Ti prometto colpi di scena e sorprese.
PRIMO CIELO
Un cielo azzurro caliginoso, sporco di cotone grigiastro, si estende sui terrazzi delle case allungandosi in strie bianche che corrono parallele ai fili elettrici verso un pilone di ferro. Sembra la Tour Eiffel dei poveri, conficcata sul dorsale della collina, emersa da una diga di foglie. Oltre il muro, la roccia si arrende alla strada litoranea: un bus, un’edicola, un cavalcavia ferroviario e una cascata di oleandri rosa e bianchi.
La città sonnecchia incurante degli uomini, mentre una voce virtuale li accompagna a destinazione e gli alberi, scarni e indifferenti, li guardano.
Leggera e scura, una farfalla taglia il quadro in diagonale, lo macchia di giallo e nero, vola via. Alcuni squilli annegano in niente. Tutto intorno è antico, deteriorato e inutile. Una merla costruisce un nido inusuale.
Tutto comincia con un’illusione … e ho paura
Blu
La incontrerai nelle pagine del romanzo, senza fretta.
Giò
Chi è? … Lo scoprirai, quando sarà il momento.
1
«Caro Turdus merula, sai qual è la cosa più strana che ho fatto quest’anno? Il cappotto all’aspirapolvere. Ti sfido a scovare un’altra persona nel globo che si sia impegnata in un simile manufatto. Sì, mi dirai che il cappotto è un oggetto usuale, persino ordinario, e che solo chi ha scalato le vette della letteratura lo ha saputo fare assurgere a emblema esistenziale. Lo riconosco. Gogol’, il russo, gli ha dedicato parole illuminate, ma io resto convinto che nessuno mai abbia progettato, tagliato, cucito, misurato e, infine, infilato il cappotto alla scopa elettrica perché non righi il pavimento cerato. Per questo, nel torneo della fantasia vinco io uno a zero! Oh, dirai che Gogol’ era uomo ottocentesco e di sicuro manco sapeva che esistessero le faccende domestiche. Io, invece, uomo moderno, qualche volta ho persino lucidato il rame appeso nella mia cucina. Concludo confessandoti che, dopo avere dotato l’elettrodomestico anche di uno scaldacollo, ho scoperto che la parte tagliente e colpevole restava esterna all’imbottitura e mi rivolgeva umilianti sberleffi. Non ci si può fidare neanche degli elettrodomestici.»
Lo vedo che svolazza su una foglia della palma che lambisce le mie persiane socchiuse, per niente intimorito dal monologo. È un merlo albino. Intona sempre un canto che mi pare assomigli alla cantilena delle mie parole. Potrebbe essere, dato che da qualche primavera ha eletto il terrazzino di casa mia a suo monolocale prediletto, dove trova la mangiatoia allestita dal sottoscritto. Meglio nascere fortunati che ricchi, o no?
Ho appeso una bottiglietta di plastica da mezzo litro, chiusa con il tappo, a uno sportello della persiana del salotto in mansarda. Bucati i lati con un coltellino, ho fatto passare da una parte all’altra due mestoli di legno che funzionano da scodelline perché Turdus possa servirsi.
Lui gradisce molto, ma la finestra un po’ meno: la sua vernice bianca frustata dal libeccio e dal salino si sta scrostando, i vetri sono sempre opachi e il mio perfezionismo casalingo ne soffre parecchio.
Con un breve voletto, raggiunge il marciapiede e ghermisce qualcosa, forse un povero sopravvissuto lombrico, ingenuamente evaso dall’aiuola che delimita l’Aurelia.
Lo vedo mentre rigira una foglia e picchietta e strappa, poi si ferma brusco, gira la testa di lato, saltella scavando il terreno ai piedi dell’oleandro.
«Sai, volatile incolore, mi sono tanto abituato a te da tenere la finestra socchiusa, nonostante il continuo passare di auto e autobus accompagnati dalle loro mortifere esalazioni.»
«Tcink tcink tcink»
«Bravo Turdus, fatti sentire e cancella i clacson, le frenate, le grida e i miei dispiaceri. Accidenti a me.»
Sono sicuro che il mio esercito di armoniche schierate qui in ordine militaresco trova nel canto di questo animaletto rassicuranti suoni familiari. Come non farlo? È stato lui a dare il nome Unlucky bird all’umano che gironzola qui intorno, ovvero il sottoscritto. Non c’è bisogno di chiedersi perché.
Tcink tcink tcink
Io vi consiglio invece di chiedervelo il perché, tcink tcink tcink. Lo conosco bene Schitimiri. In questo momento è dietro la persiana che mi guarda. Anche io lo spio sempre, ed è per questo che so tutto, ma proprio tutto, di lui.
Compone malinconiche canzoni tra la libreria e il divano amaranto, predilige gli strumenti strani, inusuali, antiquati come lui. Chissà dove riuscì a scovarli, suo nonno.
Schiti suona di mancanza e vuoto e acido in gola, ma a volte i suoi fantasmi si trasformano in pura meraviglia che si scompone, oltre l’abbaino, per scendere a pioggia sui vicini increduli, sui negozi, sui passanti del lungomare. Spesso succede dopo un buon caffè.
Schiti entra suonando nel paesaggio del presente, della strada, di casa sua, del film che il suo archeologico videoregistratore proietta sullo schermogiga del salottino in mansarda. Subito lo abita e lo rivive fingendosi attore protagonista, alla facciazza della sua malinconia.
Ha ereditato da suo padre la passione per videocassette e pellicole, per i western e per il film che guarderà di nuovo tra poco per la millesima volta, uno dei migliori di sempre, creato dai grandi.
Qui, tra i rami del pothos, lo sorveglio che è una meraviglia e lui non si accorge di me, non mi vede.
Ecco, lo sapevo, ha infilato la cassetta. Ora mi avvicino, gli fa piacere. «C'era una volta il West! Figo! Però è lento, Schiti, … troppo.»
«No, Turdus, è fatto di lunghe attese, disegna un mondo che sta per finire perché sta arrivando il progresso con la ferrovia e i treni. Senti l’armonica.»
«Sublime Schiti.»
«Ma dove impari questo vocabolario antiquato?»
«Da te, da te.»
«Puoi rifarti gli occhi con una BEP.»
«Eh?»
«Bellissima ex prostituta.»
«Ah!»
«E così sia, fratello. Allegri.»
A proposito, chi ascolta con noi un po’ di musica? Vi consigliamo Ennio Moricone, C’era una volta il West, colonna sonora.
2
C'era una volta il West, c’era una volta … e comincia una fiaba. Mio padre amava il cinema. Bocca dischiusa e naso all’insù, solo davanti allo schermo.
Ho conosciuto il tempo di maghi, principesse e cavalieri in lotta con i draghi, i loro denti e le fiamme di serie. C’era una volta … ora è nostalgia e sa del passato che non potrò stanare da nessun angolo.
C’era lui, c’erano loro, anche mia madre, e li amavo. C’erano il pianto e la speranza che finisse, le urla e l’angoscia senza rimedio. Eppure, vorrei i loro occhi, le loro mani su di me e soprattutto le loro voci prima di quel giorno, di quell’urlo.
«Basta Schiti, non ti logorare.» Turdus si avvicina, «Guarda.»
Mi giro. Veloci, le ali esili e nervate di una farfalla si alzano dalle foglie del pothos; un raggio di sole illumina il giallo, il nero e il marrone e, per un attimo, lei si traveste. Ha macchie arancioni.
«Vieni qui, respira, sdraiati, sdraiati e respira.»
«Sempre bene non si può stare, lo so, Turdus.»
«Metti la cassetta e falla girare.»
«Aspetta, Turdus. Mi serve un caffè, un caffè qualsiasi, purché sia un caffè. Ora mi calmo.»
C’era una volta il west ...
«Inizia, zitto e guarda. Se fossi un uccello ti direi chiudi il becco.»
«E sia.»
Socchiudo gli occhi, suono l’armonica e sono là. La mosca in primo piano zampetta sul mio naso e ascolto le gocce d’acqua che cadono sul cappello del pistolero e sulle mie spalle. Con Armonica suono la colonna sonora e, strato su strato, diventa pelle, carne, sentimento.
Non mi sento né pistolero, né giustiziere, non fermo le locomotive, ma la mia voce è fatta d’armonica e suona.
Anche la mia faccia non è quella giusta, non proprio quella di Bronson, ma non importa.
«Tu non assomigli ad Armonica, ma a Frank il cattivo che, nonostante gli occhi cerulei e l’aria onesta, è un matricolato figlio di puttana, è bello e ha l’aspetto da buono, ma è il più cattivo di tutti.»
«Turdus, non è cinema, ma pura armonia, ogni scena segue il ritmo della musica, ogni inquadratura è cinque secondi di magia.»
«E le battute, Schiti … è vero che le sai a memoria?»
«Certo, e te le posso ripetere qui su due piedi.»
«Non solo … Vogliamo parlare di come ti vesti? Frank ti direbbe: «Come si fa a fidarsi di uno che porta insieme cinta e bretelle? Di uno che non si fida nemmeno dei suoi pantaloni?»
Do uno sguardo alla mia immagine riflessa nell’anta semiaperta della vetrinetta dei piccoli strumenti; forse Frank e Turdus hanno ragione, forse i mitici stilisti italiani dello scorso ventunesimo secolo si rivoltano nei loro loculi sofisticati.
«Ma a me ‘sta camicia rossa sui pantaloni cobalto con cintura, bretelle gialle e cappellino a pois sembra un look moooltointeressantemolto.»
Sento un sigh
seguito da un fremito del photos e da un secondo sigh
.
«E va bene, Turdus, non ti scaldare.»
Sorrido e il pensiero torna al film.
«Poi c’è il duello finale; chi sta lavorando alla ferrovia nemmeno se ne accorge. Se ne fregano, del duello: la ferrovia è il futuro, i due pistoleri a duello il passato. Forse questo film ha un posto nel mio cuore perché mi sento come quei pistoleri, spaesato e fuori posto. Il nuovo secolo è già superato, né carne, né pesce. Di moderno mi sembra abbia poco, visto che gli uomini continuano a odiarsi e farsi del male, egoisti e ripiegati sul proprio ombelico. Adorano il denaro e sono sempre più soli. Se i disonesti fossero come nuvole, ci sarebbe sempre il diluvio.»
C’era una volta … un mondo che non c’è più.
C’era una volta un mondo che non c’è ancora.
Ogni riferimento a persone e fatti contemporanei è puramente intenzionale. Fine. Il nastro nella bobina si ferma e torna velocissimo indietro. Del merlo e della farfalla non c’è più traccia. Dalla strada si alzano i suoni aggressivi di alcune sprintambulanzedoppie, trasporti multipli di feriti o malati, incidentati, tossici, violenti, vittime e suicidi. Niente duelli nel ventunesimo secolo ma, non illudetevi, in confronto il vecchio west era un collegio per signorine.
Il suono metallico ripetuto della porta precede la vicina di casa. Lei entra e si avvicina.
«Meno male che ci sei tu, Zilda.»
«Figurati Schit.» Mi chiama così da sempre.
«Gli altri inquilini non mi salutano neppure se li incrocio nelle scale.»
«Ho sistemato la cerniera della tua giacca.»
«Grazie. Me la cavo bene nelle pulizie, ma se c’è da cucire sono nella bratta.»
«Lo faccio con piacere, Schit, lo sai.»
«Sei la mia ancora di salvezza. Come farei senza di te.»
«Andresti dai sarti ghanesi.»
«Si, ma tu mi restituisci il lavoro lavato, stirato e profumato e non sali mai a mani vuote: un barattolo di pesto oggi, una frittata domani.»
Tcink tcink tcink
Lo tengo d’occhio dalla finestra della cucina, nascosto dalle tende. Lui apre il cartoccio di frittelle che lei gli ha messo tra le mani. Lo zucchero vanigliato si spande sul piano di noce del bancone. La donna si siede sulla panca tra i cuscini rigati.
«Zilda, non ho parole … sono morbide, leggere e uniche.»
Lui annusa i dolci, li fa scivolare su un tovagliolo di carta in un piatto di vetro blu e li porta in tavola. Sono ancora caldi.
«Hai cenato, Schit?»
«No, ho suonato.»
«Ti ho sentito e mi hai scaldato il cuore.»
«Deliziose, Zilda. E non dirmi che è la fame a parlare.»
«Lo credo, non ho mai cambiato una virgola della ricetta di tua madre.»
La donna accarezza il legno con gesto familiare e lieve. Schiti si ferma e distoglie lo sguardo, fissando la macchina impastatrice che è ancora tra i suoi utensili.
«Ora torno giù,