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L'isola di vetro: I magnifici lord De Lara
L'isola di vetro: I magnifici lord De Lara
L'isola di vetro: I magnifici lord De Lara
Ebook369 pages5 hours

L'isola di vetro: I magnifici lord De Lara

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About this ebook

Una donna ribelle e un valoroso cavaliere; riusciranno a trovare l’amore?

1333 – La bella e istruita Lady Aubrielle de Witney è considerata da tutti una ragazza ingestibile. Poiché sua madre non è più in grado di controllarla, l’ha affidata allo zio, il Conte di Wrexham. Come un codardo, il Conte delega i suoi doveri al suo più fidato cavaliere, Sir Kennet St. Héver, con l’istruzione di metterla in riga. Aubrielle e Kenneth sono fin da subito ai ferri corti; Kenneth si aspetta obbedienza e Aubrielle è tutto fuorché compiacente. Placate le ostilità iniziali e creatasi fra i due una certa, strana complicità, Kenneth scopre che Aubrielle nasconde un segreto. Per ragioni diverse, una setta misteriosa e un cavaliere impazzito vogliono morta la Lady. Kenneth si ritroverà a proteggerla non perché gli è stato ordinato, ma perché lo vuole con tutto sé stesso.

LanguageItaliano
PublisherBadPress
Release dateJun 24, 2020
ISBN9781071553312
L'isola di vetro: I magnifici lord De Lara

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    L'isola di vetro - Kathryn Le Veque

    L’isola di vetro

    Kathryn Le Veque

    Traduzione di Domingo Ottati

    Copyright 2005 di Kathryn Le Veque

    Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo libro può essere utilizzata o riprodotta in alcun modo senza autorizzazione scritta, tranne nel caso di brevi citazioni incorporate in articoli critici o recensioni.

    Stampato da Dragonblade Publishing negli Stati Uniti d’America

    Copyright del testo 2005 di Kathryn Le Veque

    Copyright della copertina 2005 di Kathryn Le Veque

    Numero di controllo della Library of Congress 2014-032

    Sommario

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Epilogo

    Alla mia musa, Lee Reherman

    Che in un’altra vita era sicuramente Kenneth

    Capitolo 1

    Castello di Kirk

    Marche gallesi

    Ottobre, 1333

    «Non sai quanto sono in pena» disse la donna sconsolata. «È la mia unica figlia! Non capisco dove ho sbagliato con lei. Ha ricevuto la miglior educazione che io e mio marito potessimo fornirle. Non le è mai mancato nulla. Non capisco perché si ribelli contro di me.»

    L’uomo seduto di fronte a lei aveva già sentito questa storia. Malgrado il tormento in quelle parole, era difficile trattenere gli sbadigli. Aveva smesso di darle consigli molto tempo fa, principalmente perché non aveva figli e, di conseguenza, non era un esperto in materia. Ma sapeva benissimo dove aveva sbagliato sua sorella, esperienza o meno. Anche uno scemo se ne sarebbe reso conto.

    «L’hai viziata» si limitò a dire.

    La donna alzò il tono del suo piagnisteo, attutito solo dal pregiato foulard che si teneva intorno al naso. «Cosa avresti fatto di diverso al posto mio?»

    Garson Mortimer, cugino di Roger Mortimer e Conte di Wrexham, non aveva nella pazienza la sua miglior virtù. Sua sorella lo stava mettendo a dura prova al punto da fargli venir voglia di strapparsi quei pochi capelli radi che gli rimanevano in testa. Non lo ascoltava mai e, di fatto, lo usava solo per sfogare le sue frustrazioni.

    Garson si appoggiò allo schienale della sedia, un mobile robusto costruito da artigiani gallesi. Così vicino al confine, le culture di Galles e Inghilterra sembravano essersi ormai mescolate, soprattutto in campi come la cucina o l’architettura. Le sue opinioni sulle donne e sull’educazione dei figli, comunque, erano rigidamente inglesi.

    «Dobbiamo per forza tornare su questo argomento?»

    «Certo!»

    «Allora, per quanto mi riguarda, non l’avrei mandata a studiare in quel monastero» disse annoiato. «Te l’avevo detto che era un errore. L’educazione a St. Wenburgh è decisamente troppo eccentrica.»

    «Ma suo padre...»

    «Pace all’anima sua. Ha sempre voluto il meglio per Aubrielle, ma lei non si è degnata di apprezzare il privilegio che le è stato concesso. Più le viene dato e più ne vuole.»

    Graciela Mortimer de Witney si asciugò con il foulard le poche lacrime che scendevano dai suoi occhi scuri e pensò alle parole di suo fratello. «Aubrielle è semplicemente curiosa, Garson. Dal momento che i monaci le hanno insegnato a leggere...»

    «Peccato!» Garson sbatté una mano sul bracciolo della sedia. «Trevor non avrebbe mai dovuto permetterlo. Una donna che sa leggere... Dove andremo a finire?»

    «Mio marito ha sempre agito per il suo bene. Riteneva che una donna istruita avrebbe avuto migliori opportunità di trovarsi un buon marito.»

    «Ma quali migliori opportunità» brontolò Garson. «L’istruzione è servita solo a piantare strane idee nella sua mente fertile. E cosa ne è venuto fuori? Solo problemi.»

    Graciela si sentiva come una bambina che viene sgridata, non ricevendo affatto il supporto che sperava. «A volte mi dà anche delle gioie.»

    «E allora perché sei venuta da me?» Vedendo sua sorella tentennare, Garson si alzò in piedi e cominciò a camminare avanti e indietro sul pavimento in legno grezzo della sua stanza. «Sei venuta perché non sai come gestirla, lei e il suo stupido sogno. È diventata indisciplinata e, se non si fa subito qualcosa, finirà per essere la vergogna di questa famiglia.»

    Le lacrime erano svanite dal volto di Graciela. «È una ragazza allegra e intelligente.»

    «È fuori controllo. Si è mai vista una giovane lady che abbandona la propria dimora per mettersi in viaggio senza scorta e senza alcun riguardo per la propria sicurezza? Non è altro che una stupida.»

    «Non la definirei stupida.»

    Garson emise un grugnito di frustrazione. «Graciela, ma ti ascolti quando parli? Tua figlia ha provato a mettersi in viaggio da Highwood House alla volta di Glastonbury perché qualche monaco a St. Wenburgh le ha detto che il Santo Graal era sepolto lì.»

    «Voleva solo provare che avessero ragione.»

    Alzò in alto le mani. «Non per glorificare Dio, ma per provare un mito.»

    Le dita della donna giocherellavano nervosamente con i lacci dorati del suo vestito. «È sempre stata affascinata da quella leggenda. Crede che la scoperta del Graal sarebbe una benedizione per l’intero paese, specialmente nella guerra contro Galles e Scozia.»

    Garson la fissò, prima di passarsi il palmo della mano sul viso. Perché sua sorella si ostinasse a giustificare la follia di sua figlia era fuori dalla sua comprensione. «Di tutto ciò che le è stato insegnato, di tutte le belle cose che ha imparato, l’unica che le è rimasta piantata in testa è la ricerca del Santo Graal. Laddove ha fallito Re Artù, dovrebbe riuscirvi la graziosa Lady Aubrielle Grace de Witney? Che arroganza.»

    «Si sta impegnando.»

    Garson non ne poteva più di quella conversazione. Stava per impazzire. «Ripeto. Se non sei venuta a chiedere il mio aiuto per Aubrielle, allora perché sei qui? Per lamentarti delle tue pene per una figlia che è una testarda senza pari?»

    Graciela alzò la testa. Una morbida luce grigia dalla finestra ad arco si depositò sul suo bel viso pallido. «Sono preoccupata, Garson.»

    «Certo che lo sei. Lo sono anch’io.»

    «Non riesco a gestire la mia stessa figlia. Ho paura che se continua con questa ricerca la tragedia si abbatterà su di lei.»

    «Cosa vuoi che faccia a riguardo?»

    «Ha bisogno di una figura di riferimento forte. Dalla morte di suo padre, è un dovere che spetta a te. Sei tutto ciò che ho che possa salvare mia figlia dalla rovina.»

    Garson fece un respiro profondo. «Non sono una governante» rispose. «Inoltre, ho già abbastanza battaglie per le mani. Mentre parliamo, metà del mio esercito è in Galles al castello di Dinas Bran per vendicare un assalto nemico a uno dei miei villaggi sei giorni fa. Sono state uccise molte persone e le scorte di cibo saccheggiate.»

    «Sono dispiaciuta per i tuoi problemi, fratello, sul serio, ma il futuro di Aubrielle è altrettanto importante.» Lo stava implorando. «Ti prego, Garson. Sei la mia unica speranza.»

    Garson sapeva che non avrebbe dovuto accettare. Ma non poteva sopportare oltre le sue prediche. «Se accetto, farò a modo mio. Non voglio nessuna interferenza da parte tua.»

    «Va bene.»

    «Se si azzarderà a mettere piede fuori da questo castello, la rinchiuderò nelle segrete e getterò via la chiave.»

    «Fa’ ciò che è necessario.»

    Le rivolse uno sguardo di sufficienza. «Non credo tu abbia compreso la gravità della situazione.»

    «Certo che sì! Forse puoi convincere Aubrielle del suo errore. Ti rispetta.»

    «Non credo proprio. Quella ragazza non teme niente e nessuno.» Garson scosse la testa rassegnato. «Neanche la sua bellezza abbagliante può redimerla dai suoi problemi caratteriali. Non c’è uomo sulla faccia della terra che desideri prendere in moglie una donna con la quale sa già che dovrà scontrarsi quotidianamente.»

    Graciela strinse in mano il suo foulard. «Pensi... Pensi di poterle trovare marito? Porta in dote l’ambita Signoria di Tenbury. E poi c’è Highwood House.»

    Garson agitò le mani irritato. «So bene cos’abbia da offrire mia nipote a un marito. E se morirò senza un erede, anche Wrexham sarà sua.»

    «Hai intenzione di risposarti, Garson?»

    La sua spavalderia venne improvvisamente meno. «Il mio stato di vedovo non ti deve preoccupare» borbottò. «Stiamo parlando di tua figlia Aubrielle.»

    «Certo, fratello.»

    Garson tentò di scacciare i pensieri che la domanda di sua sorella gli aveva riportato alla mente. A distanza di cinque anni, la morte della sua adorata moglie durante il parto era una ferita ancora aperta.

    «Farò il possibile per Aubrielle» disse per cambiare argomento. «Ma non prometto nulla.»

    Graciela si alzò dalla sedia e andò da suo fratello. «Ti ringrazio.» Gli prese le dita nelle sue mani fredde. «So che sarà in buone mani. Ti chiedo solo di essere comprensivo nei suoi confronti.»

    Alzò un sopracciglio. «Hai promesso di non interferire.»

    Graciela sorrise. «Non è un’interferenza, solo la richiesta di una madre.»

    Nonostante avesse accettato, Garson era consapevole che se ne sarebbe pentito. Le diede un bacio sulla guancia, rassegnato al fatto di essersi preso carico di un problema non suo. La porta della stanza si aprì cigolando e da essa comparì un ometto con i capelli grigi, che al cospetto del suo signore si inchinò in maniera teatrale.

    «Mio signore. Chiedo perdono. Abbiamo un... problema.»

    Garson sapeva che avrebbe fatto meglio a non chiedere; probabilmente, sapeva già la risposta. «Che succede, Arbosa?»

    Il maggiordomo del Castello di Kirk guardò desolato il Conte e sua sorella. «Lady Aubrielle è scomparsa.»

    «Cosa?» esclamò a bassa voce Graciela. «Avevo dato ordine che fosse osservata.»

    «Lo abbiamo fatto, signora» le assicurò l’uomo. «Ha detto che voleva prendere una boccata d’aria fresca ed è andata a passeggiare nel cortile. Dopodiché, l’abbiamo persa di vista.»

    Garson lasciò Graciela nella sua stanza e uscì a passo spedito. Se proprio doveva occuparsi di mettere in riga sua nipote, l’ora di mettersi al lavoro era arrivata.

    Capitolo 2

    Castello di Dinas Bran

    Powys, Galles

    Era una tipica giornata di inizio giugno. Era caduta così tanta pioggia che per terra sembrava essersi depositato uno strato di argento cristallino. L’effetto era rovinato dai cumuli di fango ai lati dei quali l’acqua scorreva formando rivoli scuri. Uomini in cotta di maglia e con le insegne di Wrexham avevano durato gran fatica per avanzare lungo la salita ripida e scivolosa in cima alla quale si trovava il castello dove avrebbero poi combattuto. Era stato un vero e proprio incubo dall’inizio alla fine.

    La battaglia era durata quasi due giorni. Il castello di Dinas Bran era sotto il controllo di Dafydd ap Gruffyd, fratello di Llewellyn l’Ultimo, sebbene nessuno lo avesse effettivamente visto condurre i suoi uomini in battaglia. A dirla tutta, il castello sembrava presidiato piuttosto da una banda di briganti travestiti da soldati gallesi, vista la relativa facilità con cui l’esercito di Kirk era riuscito a sfondare il cancello di legno e a penetrare all’interno. Invece di combattere, la maggior parte dei gallesi era fuggita. La vittoria aveva portato solo un grande sfinimento e una soddisfazione minima.

    La via del ritorno al castello di Kirk si era tramutata in un oceano di fango. I soldati marciavano stanchi, sprofondando fino alle caviglie. I cavalli erano bestie luride, bagnate e di pessimo umore, cavalcati da cavalieri altrettanto luridi e di cattivo umore. Le armature si erano arrugginite per l’umidità, rendendo ogni movimento scomodo e faticoso. Più si avvicinavano al castello di Kirk e più il loro stato era pietoso.

    Kenneth St. Héver era uno di quei cavalieri colmi di fastidio e sudiciume fino al collo. L’umidità e la fatica non erano una novità per lui, cavaliere dall’età di vent’anni. Diciotto anni di quella vita lo avevano profondamente cambiato. Aveva la reputazione di un uomo straordinariamente scontroso, seppur mai sleale. Comandava centoventicinque uomini concessigli da Re Edoardo in persona come arma contro Roger Mortimer.

    Kenneth era in discreti rapporti con i suoi compagni cavalieri, ma niente di simile ad un’amicizia; solo due persone potevano considerarsi suoi amici, due uomini al fianco dei quali aveva spesso combattuto da quando era stato nominato cavaliere, entrambi impegnati a Nord nella guerra contro gli scozzesi. Kenneth, infatti, era tornato solo di recente nelle Marche dopo aver aiutato Tate de Lara, Conte di Carlisle, e Stephen di Pembury, guardiano protettore di Berwick, a sottomettere gli scozzesi a Berwick. Aveva fatto ritorno nelle March Gallesi perché il Re lo voleva lì, benché lui non ne fosse particolarmente contento. Avrebbe preferito restare a Berwick con i suoi amici. Ma non aveva scelta: aveva un lavoro da svolgere nelle Marche.

    Anche per questo motivo, il suo umore non era dei migliori. Kenneth dava poca considerazione agli uomini che marciavano stremati attorno a lui: la sua attenzione era tutta sull’orizzonte alla ricerca di eventuali minacce. Nel corso degli anni, tenere d’occhio l’ambiente che lo circondava era diventata un’abitudine. Anche il paesaggio più splendido poteva nascondere un qualche pericolo imminente, e lui non era il tipo da farsi cogliere impreparato. Mentre scrutava gli alberi, un cavaliere su un grosso destriero affrettò il passo e gli si affiancò, alzando la visiera e rivelando due occhi marroni su di un volto sporco e barbuto.

    «Oltre la cima di questa collina vedremo comparire le torri di Kirk» affermò il cavaliere. «Posso già assaporare la birra fresca e una bella bistecca.»

    La visiera dell’elmo di Kenneth era abbassata, ma non per ripararsi dalla pioggia. Semplicemente, non gli andava che gli altri lo guardassero, studiassero la sua faccia, cercassero di leggere i suoi pensieri.

    «Se questi pelandroni camminassero più svelti, le avremmo già viste da un pezzo.»

    «I nostri uomini sono stremati.»

    «Vuol dire che sono delle signorine. Essere stremati dopo una battaglia così insignificante è un insulto.»

    Il cavaliere reagì con un gran sorriso. Everett l’Breaux era un uomo cordiale e difficilmente si sarebbe sentito offeso dalle maniere brusche di Kenneth.

    «Se alzassi quella visiera, sono certo che vedrei i segni della fatica impressi anche sul tuo volto» commentò. «Non c’è nulla di cui vergognarsi.»

    Kenneth tirò su la sua visiera a tre segmenti, l’ultimo ritrovato in fatto di comodità e protezione. Due occhi azzurri come un mare di ghiaccio fissarono quelli marroni di Everett. «Come puoi vedere, gli unici segni sul mio volto sono quelli della noia.»

    «Sei un uomo duro, Ken.»

    Un possente stallone grigio si infilò nello spazio fra loro due, urtando il cavallo di Everett. Il cavallo di Kenneth, già innervosito dalla battaglia e dal viaggio, digrignò i denti e colpì l’intruso con la testa. Solo grazie alla sua fenomenale forza, Kenneth riuscì a tenere a bada l’animale.

    Lucius De Cor era il capitano dell’esercito di Wrexham. Era un uomo anziano che aveva assistito a numerose battaglie per la successione al trono d’Inghilterra. Vicino al congedo, aveva comunque la massima autorità sui suoi uomini. Si avvicinò a Kenneth, il suo secondo, per assicurarsi che i suoi ordini venissero eseguiti. Kenneth St. Héver era l’unico in grado di suscitare quel genere di paura e rispetto. Solo un idiota si sarebbe messo a discutere con lui.

    «Dì agli uomini di accelerare il passo, Ken» comandò. «Voglio essere all’asciutto e al pulito per ora di cena.»

    Kenneth si mise in azione prima ancora che l’ordine uscisse dalla bocca di Lucius. Spronò il suo cavallo attraverso le linee degli uomini in marcia. Con il braccio d’acciaio alzato, gridò i suoi comandi assicurandosi di farsi sentire da tutti. Prontamente, la schiera di trecento uomini aumentò l’andatura. Da qualche parte nelle retrovie, un gruppetto di uomini sembrava impegnato in una discussione alquanto accesa. Kenneth spronò di nuovo il suo cavallo e si presentò davanti a loro.

    «Che succede?» domandò.

    Quando St. Héver domandava, gli altri ascoltavano. Quei soldati non erano dei suoi; appartenevano a Sir Reid de Bowland, un altro cavaliere rimasto fra le mura di Kirk. Risposero ugualmente con più solerzia di quanta ne avrebbero mostrata al loro stesso signore.

    «Un piccolo disaccordo fra soldati, signore» rispose uno degli uomini. «Non era nostra intenzione interrompere la marcia.»

    Lo sguardo di Kenneth era così penetrante che avrebbe potuto tagliare l’acciaio. «Che genere di disaccordo?»

    I due uomini si guardarono fra loro, timorosi di parlare. Il secondo aprì finalmente bocca. «Ho perso la mia balestra sulla salita per Dinas Bran, signore» disse. «Malf l’ha trovata e adesso non me la vuole restituire.»

    «Dunque te l’ha rubata.»

    Gli occhi di Malf si spalancarono. «No, signore. Non l’ho rubata.»

    «E allora rendigliela.»

    «Ma questa non è la sua arma.» Il soldato lo stava quasi implorando, spaventato da ciò che sarebbe potuto succedere. «La conosco la balestra di Sheen. Non è questa.»

    Kenneth continuò a fissare i due uomini, mentre l’aria si riempiva di un silenzio opprimente, finché Lucius non arrivò da loro.

    «Qual è il problema, St. Héver?» domandò.

    «Sheen ha perso la sua balestra lungo la salita e sostiene che Malf gliel’abbia presa. Malf è convinto che quella che ha con sé non sia la balestra di Sheen, ma un’altra.»

    Lucius assunse un’espressione spazientita. «Non c’è tempo per queste sciocchezze. Forse dovrebbe venire ricordato a entrambi il valore delle armi e del cameratismo.» Si girò verso Kenneth. «Dieci frustate a testa quando saremo tornati. Così, la prossima volta, Sheen farà più attenzione e Malf sarà disposto a cedere l’arma in più che ha trovato se nota un compagno che ne è sprovvisto.»

    Era una sentenza esemplare che serviva a mandare un messaggio a tutti i soldati presenti. Kenneth annuì, sapendo che sarebbe spettato a lui applicare il verdetto. Rientrava fra i suoi doveri di comandante in seconda dell’esercito. Seguì Lucius in prima linea nel momento in cui veniva raggiunta la cima della collina.

    Kirk si ergeva in lontananza; una grossa fortezza colorata dal verde, dall’oro e dallo scarlatto delle bandiere di Wrexham che garrivano al vento. Ma qualcos’altro catturò la loro attenzione: una figura solitaria si muoveva fra gli alberi fuori dalla strada principale. Da lontano si poteva vedere solo un puntino nero con le gambe. Kenneth focalizzò lo sguardo, così come Lucius ed Everett. Man mano che si avvicinavano, cominciava a delinearsi l’immagine di un piccolo cavallo da parata o somaro con sopra una persona. Le gambe dell’animale si muovevano frettolosamente nella penombra della foresta.

    Lucius corrucciò il volto. «Va’ a vedere di cosa si tratta» ordinò a Kenneth.

    Kenneth partì al galoppo. Ci mise poco a incrociare la figura fra gli alberi che costeggiavano la strada.

    «Fermo!» comandò.

    La figura non si fermò. Kenneth la inseguì, la affiancò e le diede un colpo sulla spalla, facendola ruzzolare sul terreno fangoso. Sentì uno strillo acuto e capì che si trattava di una donna. La donna si rimise prontamente in piedi e scappò attraverso una fila di rovi.

    Kenneth le venne dietro a cavallo. Se prima era annoiato, la sua emozione prevalente era adesso l’irritazione: quella donna minuta riusciva a spostarsi agilmente fra i cespugli, laddove il suo grosso cavallo non poteva raggiungerla. I due si avventurarono ulteriormente dentro la foresta, quasi giocando come il gatto con il topo.

    Kenneth non la perdeva di vista, ma non riusciva ad avvicinarsi a lei. Era rapida e astuta. Più lei correva e più lui perdeva la pazienza. A un certo punto, si decise ad andare direttamente verso di lei, che come lo vide scattò in un’altra direzione. Pur di inseguirla, si fece condurre attraverso una fitta selva di alberi. Avrebbe dovuto pensarci meglio: troppo veloce, massiccio e impacciato, andò a sbattere contro un grosso ramo e cadde dal suo destriero.

    Rialzarsi da posizione supina con addosso tutta l’armatura non era un compito semplice, ma Kenneth ci riuscì abilmente. Indispettito, considerò l’idea che la donna si fosse ormai dileguata nella foresta, ben lontana da lui. Non si ricordava l’ultima volta che qualcuno avesse avuto la meglio su di lui, figurarsi una donna. Molto probabilmente, era la prima volta. La sua rabbia cresceva, rivolta perlopiù a sé stesso. Mentre valutava quale direzione prendere, qualcosa di molto pesante lo colpì sulla nuca.

    Il colpo lo fece cadere sulle ginocchia. Stordito, ma non privo di sensi, si rotolò di schiena per evitare il secondo colpo che sapeva sarebbe arrivato. Così facendo, si ritrovò faccia a faccia con il suo assalitore e, per un momento, non riuscì a credere ai suoi occhi. Quella donna che aveva inseguito in lungo e in largo per la foresta gli aveva teso un agguato e ora lo stava fissando dall’alto in basso con sguardo omicida e con un grosso ramo puntato su di lui.

    Ma anche lei commise un errore. Per mandare a segno il secondo colpo, si avvicinò troppo. Kenneth la sgambettò con la sua possente gamba facendole perdere l’equilibrio, per poi disarmarla una volta caduta. Con un unico movimento, scaglio il ramo lontano e immobilizzò a terra la donna. Esile e minuta, sembrava non avere modo di opporsi alla sua forza.

    «Toglimi le mani di dosso!» urlò dimenandosi. «Lasciami andare!»

    La vista di Kenneth era ancora sfuocata per lo stordimento, ma non così tanto da non rendersi conto di cosa giaceva sotto di lui: il viso di donna più straordinariamente bello che avesse mai visto, due occhi azzurri come il mare e dei folti capelli castani sparpagliati intorno a lei come ali di un angelo. Prima che potesse dire una parola, la donna sporse in avanti la testa e lo colpì in pieno sul naso con la fronte; una mossa brutale. Kenneth cominciò a sanguinare copiosamente, ma non mollò la presa, lasciando che il sangue si depositasse sul morbido collo di lei.

    «Ehi!» strillò. «Mi stai sanguinando addosso!»

    «Non è un problema mio.»

    Smise di dimenarsi e gli lanciò un’occhiataccia. «Se non mi lasci subito andare, giuro che farò di peggio che farti sanguinare il naso. Ti strozzerò con le mie mani!»

    Kenneth non aveva idea del perché quella minaccia gli facesse venire voglia di ridere. Si trattenne a fatica. Con l’agilità di un felino, la afferrò intorno ai fianchi e la tirò su con sé. «Sarei proprio curioso di vederti provarci» le disse.

    La donna provò a divincolarsi. «Lasciami andare, bruto!»

    «Come ti chiami?»

    Diede uno schiaffo alla mano che la tratteneva. «Non sono affari tuoi!»

    «Mi permetto di obiettare.»

    La donna gli sfuggì per un istante, ma la riafferrò subito e la immobilizzò contro di sé girata di schiena, in modo che non potesse dargli un’altra testata sul naso. In questa posizione, il sangue sgorgava sui capelli di lei. Mentre si agitava come una belva feroce, avvicinò la bocca al suo orecchio.

    «E adesso dimmi subito chi sei»

    «Mai!»

    Strinse la presa, facendole uscire l’aria dai polmoni. «Nome, donna.»

    «N-no!»

    In tutta risposta, la alzò di peso e se la portò in direzione del suo cavallo. L’animale era poco lontano, intento a brucare dell’erba umida attraverso la museruola. La donna scalciava e si dimenava con tutte le sue forze. Mentre passavano accanto a una betulla, allungò le gambe da un lato, scalciò contro l’albero e per poco non sbilanciò Kenneth che, recuperato l’equilibrio, si segnò mentalmente di non avvicinarsi per alcun motivo ad altri alberi.

    Erano giunti davanti al cavallo e per Kenneth era arrivato il momento di elaborare un modo per mantenere la presa su di lei e allo stesso tempo cavalcare. La sua concentrazione fu interrotta da un pesante fruscio di erba calpestata alle sue spalle.

    Si voltò e vide Everett che si avvicinava. Gli occhi marroni del cavaliere si spalancarono alla vista della donna imbrattata di sangue. «Santo cielo... Lady Aubrielle!»

    Kenneth aveva già sentito quel nome. Everett scese da cavallo.

    «Lady Aubrielle, state bene?» le chiese.

    Kenneth non sapeva bene cosa dire. Sapeva solo che non aveva alcuna intenzione di lasciare andare la donna, per paura che lo aggredisse di nuovo. «Conosci questa selvaggia?» domandò al suo compagno.

    Everett era sbiancato in volto. «Dimenticavo che sei a Kirk da appena due anni» gli disse. «Non hai ancora fatto la conoscenza della nipote del Conte, Lady Aubrielle Grace de Witney.»

    Non aveva bisogno di sapere altro. La nipote del Conte. Kenneth mollò la presa e, confermando le sue paure, la donna gli tirò immediatamente un pugno in faccia. Fece appena in tempo ad afferrarle il polso per evitare di essere colpito di nuovo sul naso. I due si lanciarono uno sguardo di sfida, entrambi assai poco disposti ad arrendersi per primi.

    «Bruto! Demone!» gli urlò.

    Everett si sentiva ridicolo a dover fare da paciere in quella situazione. «Posso aiutarvi, milady? Cosa ci fate così lontana dal castello?»

    «Non sono affari tuoi, Everett l’Breaux. Dammi il tuo cavallo, così potrò finalmente andarmene.»

    Everett scosse la testa. «Ahimè, non posso, milady. Il mio cavallo obbedisce solo a me. Non si farebbe cavalcare da voi.»

    La donna fece un passo indietro, ma solo per necessità. Kenneth capì che stava elaborando una nuova strategia. Aubrielle Grace de Witney. Aveva già sentito quel nome, più di una volta. Come aveva sottolineato Everett, comunque, non aveva mai visto di persona l’unica nipote del Conte. Sapeva che suo padre, il cognato del Conte, era passato a miglior vita poco prima che lui fosse mandato in servizio a Kirk e che adesso spettava al Conte amministrare le proprietà di sua sorella divenuta vedova. A parte ciò, sapeva ben poco di Aubrielle. Di certo, nessuno gli aveva detto che fosse una tale testa calda.

    Non riusciva a toglierle gli occhi di dosso, ma la paura di vedersi recapitato un altro pugno in faccia non era l’unico motivo. Come aveva già notato prima, era indubbiamente molto bella; i suoi grandi occhi color mare e le lunghe ciglia erano posati su un dolce viso ovale con una pelle di porcellana e delle labbra rosse come un bocciolo di rosa. I capelli scuri le scendevano lisci fino ai fianchi. Vedendola sistemarsi all’indietro una ciocca di capelli, notò le sue piccole orecchie appena sporgenti. In verità, la trovava una caratteristica alquanto incantevole. Non riusciva a trovare nulla in quella donna che non fosse affascinante, se non per il fatto che si comportava come un animale selvatico.

    «Allora ritroverò il mio cavallo e me ne andrò per la mia strada» disse Aubrielle, sforzandosi disperatamente di apparire in controllo della situazione.

    Everett e Kenneth si scambiarono uno sguardo.

    «Temo che non possiamo permettervi di andare.» Everett avrebbe preferito non contraddirla, ma qualcosa gli diceva che era la cosa giusta da fare. «Potremmo tornare a Kirk e vedere di procurarvi una scorta per il vostro viaggio.»

    Il suo dolce viso si rabbuiò. «Non ho nessuna intenzione di tornare indietro» brontolò. «Non potete obbligarmi con la forza.»

    «Ma...»

    «No!»

    A questo punto, Lucius raggiunse i suoi cavalieri scomparsi. Domandatosi cosa fosse successo loro, aveva preferito scoprirlo da sé. Vide la giovane e la riconobbe immediatamente. Poiché era uno degli uomini più vicini al

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