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Elda: vite di magnifici perdenti
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Elda: vite di magnifici perdenti

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About this ebook

Attraverso gli occhi della protagonista Elda, questo romanzo immagina un gruppo di personaggi che si muovono in settant’anni di storia siciliana, dal dopoguerra alla fine del millennio: un’aristocrazia del pensiero opposta alla pavida aristocrazia del latifondo, che si è formata nell’angusto panorama fascista ed è diventata adulta durante il conflitto mondiale. Piccoli eroi invisibili che hanno combattuto con le armi della parola e delle idee in un dialogo via via più disincantato con il Partito Comunista, costituendo quella sinistra che non accetta compromessi, vigila, lotta, perde, si rimette continuamente in discussione; nonostante i morti, le stragi, le minacce e l’isolamento.

Maria Adele Cipolla è nata a Palermo nel 1957, dove lavora nel mondo dello spettacolo come costumista e scenografa, insegna disegno e collabora in alcuni progetti dell’Unione Europea. Sin da giovane è impegnata nella vita civica e politica, collaborando anche con la rivista bimestrale Mezzocielo. Pubblica Vivi Villa Trabia, diario piccolo di vita cittadina (ed. Gelka) nel 1995 e nel 2011 la raccolta collettiva Un’estate a Palermo (ed. Di Lorenzo).
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJun 16, 2020
ISBN9788831680172
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    Elda - Maria Adele Cipolla

    compleanno

    Elda

    Vi­te di ma­gni­fi­ci per­den­ti

    Ro­man­zo di Ma­ria Ade­le Ci­pol­la

    …per­ché l’ac­ca­de­re del­le vi­cen­de uma­ne, di tan­te pic­co­le vi­te, di­ven­ta uni­ver­sa­le ed esem­pla­re sol­tan­to quan­do que­ste esi­sten­ze rie­sco­no ad in­te­ra­gi­re fra lo­ro, a rac­con­tar­si e a da­re un sen­so a quel­lo che è sta­to fat­to. Sol­tan­to co­sì si può gab­ba­re il tem­po e tra­sfor­mar­lo in sto­ria.

    A Fran­ca, Va­len­ti­na e Vit­to­ria

    Pa­ler­mo, apri­le 2013

    Un giorno a Palermo, ore 7,30

    Ve­ner­dì 14 mag­gio 2004, un ap­par­ta­men­to al se­con­do pia­no di un pa­laz­zo de­gli an­ni tren­ta in via XX Set­tem­bre.

    Tan­ti an­ni di let­tu­re fem­mi­ni­ste non era­no riu­sci­ti a con­se­gna­re a El­da una stan­za tut­ta per sé. Ora se­de­va al­la scri­va­nia del­lo stu­dio di Pie­tro, stan­za in cui lui non sta­va mai. Da quan­do ave­va smes­so di la­vo­ra­re al gior­na­le del po­me­rig­gio, El­da si com­pia­ce­va di quel­la com­mi­stio­ne di an­ti­chi co­di­ci ci­vi­li e ti­mi­dis­si­mi toc­chi di de­li­ca­tez­za fem­mi­ni­le di cui era sta­ta ca­pa­ce sol­tan­to in tar­da età. I ni­po­ti­ni tan­to fo­to­gra­fa­ti e i lo­ro co­lo­ra­ti di­se­gni, gua­da­gna­va­no po­sto nel­le pe­san­ti li­bre­rie sti­le Quat­tro­cen­to Fio­ren­ti­no, ric­che de­gli an­ti­chi pro­dot­ti di raf­fi­na­te bot­te­ghe di le­ga­to­ria e stri­de­va­no con i pe­san­ti in­ta­gli del le­gno, ri­cor­dan­do a El­da che non è mai trop­po tar­di per la­sciar­si an­da­re ai sen­ti­men­ti. La stan­za era es­sen­zial­men­te un’enor­me bi­blio­te­ca ma lo stes­so non riu­sci­va a con­te­ne­re tut­ti i vo­lu­mi pre­sen­ti in ca­sa. Pog­gia­to su di un ano­ni­mo ta­vo­li­no sta­va un com­pu­ter, che da qual­che an­no ave­va im­pa­ra­to a usa­re con l'aiu­to del fi­glio Da­rio. C'era poi, or­fa­na del­la sua vec­chia Oli­vet­ti, una gran­de scri­va­nia mol­to uti­le per sten­de­re per in­te­ro i quo­ti­dia­ni e leg­ger­li in tut­ta co­mo­di­tà, co­me era sta­ta sua abi­tu­di­ne quan­do la­vo­ra­va al gior­na­le.

    Quel­la mat­ti­na Pie­tro ave­va let­to i quo­ti­dia­ni mol­to pre­sto men­tre pren­de­va il the, nel tem­po in cui lei sta­va ta­glian­do i po­mi­do­ro da met­te­re sul fuo­co. Avreb­be­ro con­ti­nua­to la lo­ro cot­tu­ra len­ta­men­te, con­sen­ten­do a lei di leg­ge­re i gior­na­li, or­di­na­re il pe­sce per te­le­fo­no e met­te­re in or­di­ne la ca­sa. No­no­stan­te i nu­me­ro­si im­pe­gni del­la gior­na­ta non avreb­be mai ri­nun­zia­to al­la let­tu­ra dei quo­ti­dia­ni, in ca­sa se ne com­pra­va­no al­me­no quat­tro e la lo­ro con­sul­ta­zio­ne im­pie­ga­va un tem­po con­si­de­re­vo­le: an­co­ra gli or­ro­ri del car­ce­re di Abu Gh­raib!

    El­da non con­di­vi­de­va l’osti­na­zio­ne di Pie­tro nell’in­se­ri­re nel grup­po un cer­to gior­na­le lo­ca­le, an­ta­go­ni­sta sto­ri­co di quel­lo in cui lo­ro ave­va­no la­vo­ra­to tan­ti an­ni, ma tro­van­do­se­lo ogni mat­ti­na fra le ma­ni fi­ni­va col dar­gli una ra­pi­da scor­sa. Ora poi ave­va l’im­pres­sio­ne che quel­la te­sta­ta del mat­ti­no stes­se tor­nan­do a di­ven­ta­re l’or­ga­no uf­fi­cia­le di una pro­vin­cia­le Ita­liet­ta, in­sop­por­ta­bi­le e tre­men­da­men­te si­mi­le a quel­la an­te­guer­ra. Le pa­gi­ne po­li­ti­che sem­bra­va­no ri­por­ta­te da gior­na­li na­zio­na­li fi­lo-go­ver­na­ti­vi. La cro­na­ca ne­ra nar­ra­va di ba­na­li mi­sfat­ti, dan­do per scon­ta­to che con la ma­fia si do­ves­se con­vi­ve­re, per il re­sto il gior­na­le di­pin­ge­va una fe­li­ce so­cie­tà di gau­den­ti, quan­do al­la fi­ne ci si sca­te­na­va nel­la cro­na­ca mon­da­na do­ve cam­peg­gia­va una ru­bri­ca di lar­go gra­di­men­to. El­da scor­re­va tut­ti i fo­gli leg­gen­do ap­pe­na i ti­to­li e ar­ri­va­va ra­pi­da­men­te all'uni­ca pa­gi­na che of­fri­va un ser­vi­zio al­la co­mu­ni­tà: quel­la dei ne­cro­lo­gi. Co­me sem­pre in al­cu­ni ca­si, la cit­tà che con­ta sta­va strin­gen­do­si at­tor­no al­la fa­mi­glia di un suo il­lu­stre rap­pre­sen­tan­te, un ari­sto­cra­ti­co, o un mas­so­ne, o un ari­sto­cra­ti­co mas­so­ne. Lo si ca­pi­va dal grup­pet­to cen­tra­le di no­men­cla­tu­ra in gras­set­to, all’in­ter­no di ogni ne­cro­lo­gio, che si ri­pe­te­va ugua­le per due in­te­re pa­gi­ne. Gli oc­chi di El­da sci­vo­la­ro­no sui ca­rat­te­ri so­len­ni con la con­sue­ta do­se di in­dif­fe­ren­za, quan­do met­ten­do a fuo­co lo sguar­do com­par­ve un no­me che le fe­rì il cuo­re: era mor­to Au­gu­sto.

    Pro­vò ver­go­gna per il di­stac­co con cui un mo­men­to pri­ma ave­va ac­col­to tan­to cor­do­glio, con­si­de­ran­do che quei ti­to­li no­bi­lia­ri avreb­be­ro po­tu­to se­gui­re il suo eso­ti­co no­me di bat­te­si­mo. Quel­la mor­te la ti­ra­va in­die­tro di ses­sant’an­ni, sup­pli­can­do­la al­me­no di pren­der­la in con­si­de­ra­zio­ne, que­sto lei lo do­ve­va, do­po tut­to quel­lo che era suc­ces­so, do­po ave­re im­po­sto a quel­la per­so­na del­le scel­te per lui in­com­pren­si­bi­li. Ades­so non c’era più nes­su­no al mon­do che le avreb­be po­tu­to ri­cor­da­re quel sog­gior­no sul­le Ma­do­nie, la vi­ta pi­gra e pa­vi­da di al­lo­ra e l’as­sur­do fi­dan­za­men­to. Ave­va l’oc­ca­sio­ne di por­re un ma­ci­gno su una vi­cen­da del­la sua vi­ta che non le pia­ce­va, che l’ave­va in­si­dia­ta ogni vol­ta che un pic­co­lo in­di­zio era sal­ta­to fuo­ri all’im­prov­vi­so, in­ve­ce eb­be de­si­de­rio di ri­cor­da­re, fi­nal­men­te.

    Gli av­ve­ni­men­ti era­no in­cal­za­ti nel tra­va­glia­to 1943, l’an­no che ave­va cam­bia­to la sua vi­ta co­me quel­la di un’in­te­ra re­gio­ne. Ades­so che era an­zia­na El­da po­te­va af­fer­ma­re sen­za so­spet­to d’im­mo­de­stia che nel ‘43 lei era una gra­zio­sa ra­gaz­za di di­ciot­to an­ni.

    Di quel pe­rio­do non ave­va nes­su­na fo­to­gra­fia, non se ne fa­ce­va­no vo­len­tie­ri in tem­po di guer­ra, ce ne era in­ve­ce una di quat­tro an­ni pri­ma e da quel­la era fa­ci­le in­tui­re per­ché il gio­va­ne ram­pol­lo di una fa­mi­glia ari­sto­cra­ti­ca si fos­se in­na­mo­ra­to di lei. El­da ave­va avu­to una non­na ve­ne­ta che ave­va in­tro­dot­to in fa­mi­glia co­lo­ri inu­sua­li in Si­ci­lia. In una re­gio­ne do­ve pre­do­mi­na il cep­po ara­bo ispa­ni­co, una ra­gaz­za bion­da e con gli oc­chi az­zur­ri è con­si­de­ra­ta in ogni ca­so una ra­ri­tà eso­ti­ca.

    El­da si gi­rò ver­so lo scaf­fa­le e pre­se in ma­no quel­la fo­to­gra­fia, in­gran­den­do con lo sguar­do la sua gra­na gri­gia e li­be­ran­do il sor­ri­so del­la ra­gaz­za dal­la sua cor­ni­ce. Quel gior­no com­pi­va quin­di­ci an­ni ed era sul­la spiag­gia di Mon­del­lo, si ri­cor­da­va del ver­de del­la sua gon­na an­che se la fo­to­gra­fia non la mo­stra­va, si ri­cor­da­va del­la ca­mi­cet­ta bian­ca con le ma­ni­che a pal­lon­ci­no, si ri­cor­da­va dei suoi ca­pel­li bion­di e dei pic­co­li pet­ti­ni che li trat­te­ne­va­no die­tro le orec­chie per far ri­ca­de­re i ric­cio­li sul­le spal­le. C’era vo­lu­ta una guer­ra e tan­te sfer­za­te di ven­to sul­la sua co­scien­za, per­ché la ra­gaz­za met­tes­se a frut­to la pro­pria in­tel­li­gen­za, ini­zian­do a ca­pi­re il mon­do in­tor­no a sé.

    El­da si era tro­va­ta mol­te vol­te a ri­flet­te­re sul­lo sti­le di vi­ta an­te­guer­ra dei suoi ge­ni­to­ri, e ave­va do­vu­to con­clu­de­re che es­si po­te­va­no rias­su­me­re let­te­ral­men­te la pa­ro­la snob: si­ne no­bi­li­ta­te, me­dio bor­ghe­si che col pro­prio aplomb cer­ca­va­no di con­fon­der­si in am­bien­ti ari­sto­cra­ti­ci cui non ap­par­te­ne­va­no, usan­do bel­lez­za ed ele­gan­za e sug­ge­ren­do ta­ci­ta­men­te a El­da di fa­re lo stes­so. Nell’uno e nell’al­tro ca­so, in­ve­ce, la bel­lez­za era sta­ta la con­dan­na che ave­va crea­to stu­pi­di equi­vo­ci, met­ten­do in om­bra qua­li­tà mi­glio­ri in ognu­no di lo­ro.

    Al­le so­glie dei suoi ot­tant’an­ni era in­ve­ce giun­to il mo­men­to di ca­pi­re le fa­si al­ter­ne del­la sua vi­ta, i suoi cam­bia­men­ti im­prov­vi­si e le sue pre­se di po­si­zio­ne estre­me, sen­za pu­do­ri e con la giu­sta do­se di au­to­cri­ti­ca. Po­te­va ria­bi­li­ta­re la ra­gaz­za di quel­la fo­to­gra­fia co­sì co­me la guer­ra era riu­sci­ta a ria­bi­li­ta­re i suoi ge­ni­to­ri e un’in­te­ra na­zio­ne, crean­do uno spar­tiac­que fra un pri­ma e un do­po in cui ognu­no si era tro­va­to di­ver­so e non sem­pre in peg­gio.

    La famiglia Lorenzi

    Da quan­do El­da era na­ta, la fa­mi­glia Lo­ren­zi ave­va sem­pre abi­ta­to a Pa­ler­mo, in un ap­par­ta­men­to d’af­fit­to al ter­zo pia­no di un pa­laz­zo in via Prin­ci­pe di Vil­la­fran­ca, qua­si ad an­go­lo con la via Dan­te. A lei quel­la ca­sa era sem­pre pia­ciu­ta e non ca­pi­va i rim­pian­ti dei suoi ge­ni­to­ri nei con­fron­ti di una vi­ta pre­ce­den­te:

    Quan­do sta­va­mo nel­la vil­la ai Col­li... ave­vo la mia ca­me­rie­ra per­so­na­le e il con­to in una sar­to­ria di Ro­ma... rac­con­ta­va sua ma­dre.

    "Pa­pà ave­va l’au­to­mo­bi­le con lo chauf­feur... ti ri­cor­di quel tour in Eu­ro­pa?" in­cal­za­va suo pa­dre.

    El­da e suo fra­tel­lo ascol­ta­va­no quei rac­con­ti tra­so­gna­ti e se an­che fos­se­ro ini­zia­ti con c’era una vol­ta un re, ci avreb­be­ro cre­du­to in egua­le mi­su­ra.

    Poi con gran­di so­spi­ri ar­ri­va­va­no i rim­pian­ti del­la mam­ma:

    Non ho avu­to tem­po di abi­tuar­mi a quel lus­so che è su­bi­to fi­ni­to...

    E con po­ca con­vin­zio­ne i pro­po­si­ti di ri­scat­to del pa­pà:

    Pri­ma o poi ci ri­fa­re­mo...

    Il bi­snon­no era ar­ri­va­to a Pa­ler­mo dal cen­tro Ita­lia al­la fi­ne del se­co­lo a im­pian­ta­re una fab­bri­ca di let­ti di fer­ro, nel 1918 il fi­glio, cioè il non­no di El­da, si era in­ca­po­ni­to a in­ve­sti­re in un pic­co­lo can­tie­re nau­ti­co all’Ad­dau­ra ed era sta­to un di­sa­stro, per­ciò quel non­no ve­ni­va rim­pian­to sol­tan­to per il be­nes­se­re che si era por­ta­to ap­pres­so, il can­tie­re non era riu­sci­to a pro­dur­re al­tro che due ve­lie­ri.

    L’uni­ca ere­di­tà di quel pe­rio­do era l’af­fi­lia­zio­ne a un Cir­co­lo esclu­si­vo che i suoi ge­ni­to­ri con­ti­nua­va­no a fre­quen­ta­re; re­sta­re so­ci del Cir­co­lo ser­vi­va a ri­ba­di­re al re­sto del­la cit­tà che la fa­mi­glia non era del tut­to de­ca­du­ta e i ge­ni­to­ri di El­da si sa­reb­be­ro ta­glia­ti un brac­cio pur di po­ter con­ti­nua­re a pa­ga­re le sa­la­te quo­te as­so­cia­ti­ve. Pa­ler­mo era fa­mo­sa per i suoi Cir­co­li sin dal di­ciot­te­si­mo se­co­lo, spe­cie di club in­gle­si ospi­ta­ti in bel­lis­si­me Vil­le con giar­di­no, do­ve si riu­ni­va­no i no­bi­li del­la cit­tà. Ve­ni­va­no chia­ma­ti cir­co­li del­la con­ver­sa­zio­ne, vi era­no an­che i ta­vo­li­ni da gio­co e spes­so vi si te­ne­va­no son­tuo­si pran­zi ed ele­gan­ti fe­ste da bal­lo.

    Ogni fa­mi­glia ari­sto­cra­ti­ca pa­ga­va an­nual­men­te quo­te as­so­cia­ti­ve in ognu­no dei Cir­co­li no­bi­lia­ri pre­sen­ti in cit­tà, più in quel­li dei pae­si ove ave­va­no feu­di. Ogni tan­to, die­tro pre­sen­ta­zio­ne di una fa­mi­glia so­cia fon­da­tri­ce, po­te­va es­se­re am­mes­so al Cir­co­lo un il­lu­stre pro­fes­sio­ni­sta o un espo­nen­te dell’im­pren­di­to­ria e del com­mer­cio, co­me nel ca­so del bi­snon­no di El­da. In ge­ne­re con quo­te d’in­gres­so che am­mon­ta­va­no al­la ci­fra che ser­vi­va agli am­mi­ni­stra­to­ri per ri­pia­na­re le per­di­te del bi­lan­cio.

    La sua mam­ma, Wan­da, era bel­lis­si­ma, ma so­prat­tut­to ave­va buon gu­sto nel ve­sti­re e riu­sci­va a es­se­re all’al­tez­za di quell’am­bien­te.

    Wan­da rie­sce a es­se­re ele­gan­te qual­sia­si pez­za si met­ta, era­no so­li­te com­men­ta­re le sue ami­che.

    La si­gno­ra Mes­si­neo era la sar­ti­na cui ve­ni­va af­fi­da­to il com­pi­to di far so­mi­glia­re le pez­ze ai fi­gu­ri­ni mo­stra­ti da Wan­da. Più che una pre­mier era una ma­stra che im­par­ti­va stril­li a due ado­le­scen­ti svo­glia­te, oc­cu­pa­te a sfi­la­re pun­ti len­ti e spaz­za­re per ter­ra.

    An­che il suo pa­pà, Gu­gliel­mo, era un uo­mo ele­gan­te e dal bel por­ta­men­to, seb­be­ne ve­sti­re un uo­mo pre­sup­po­ne­va la mae­stria di un ve­ro sar­to, tan­to che i con­ti del­la sar­to­ria La Pa­ro­la tor­men­ta­va­no il ma­gro bi­lan­cio in­sie­me al­le quo­te as­so­cia­ti­ve del cir­co­lo, a cui non si po­te­va ri­nun­cia­re.

    In ca­sa vi­ve­va­no an­che la non­na pa­ter­na, una ve­do­va in gra­ma­glie com­po­sta e di­mes­sa, e i due fra­tel­li mi­no­ri di Gu­gliel­mo: lo zio Lu­ca era un gio­va­not­to ar­di­to da­gli sti­va­li lu­cen­ti che com­bat­te­va le guer­re d’Afri­ca, a El­da non fa­ce­va sim­pa­tia, era va­na­glo­rio­so e quan­do era a ca­sa in li­cen­za non si po­te­va­no rac­con­ta­re le bar­zel­let­te sul Du­ce; poi c’era la zia Te­re­sa, so­rel­la brut­ta del pa­pà. Que­sto era l’in­con­tro­ver­ti­bi­le ver­det­to pro­dot­to in fa­mi­glia e la pic­co­la El­da si tro­va­va spes­so a scru­ta­re quel vol­to sem­pre ac­ca­lo­ra­to, sud­di­vi­den­do­lo nel­le sue com­po­nen­ti per riu­sci­re a ca­po­vol­ge­re quel giu­di­zio: il na­so non era in fon­do co­sì gros­so, gli oc­chi a pal­la era­no dol­ci, la pel­le che si sfo­glia­va po­te­va es­se­re co­per­ta da un ve­lo di ci­pria... ma poi riu­ni­va le par­ti in­sie­me e non c’era nien­te da fa­re, il vi­so ri­sul­ta­va di­sar­mo­ni­co e pu­re mor­ti­fi­ca­to da un cor­po os­su­to e sgra­zia­to. La brut­tez­za ave­va fat­to di Te­re­sa una di­ver­sa, più che un di­fet­to era con­si­de­ra­ta un’ina­bi­li­tà: chi mai se la sa­reb­be spo­sa­ta? In­ve­ce El­da e suo fra­tel­lo mag­gio­re Giu­lio la ado­ra­va­no, era l’uni­ca per­so­na che in fa­mi­glia si oc­cu­pas­se di lo­ro par­te­ci­pan­do di­ret­ta­men­te ai lo­ro sta­ti d’ani­mo e al­la lo­ro vo­glia di sva­go.

    An­co­ra ades­so, pen­sa­va El­da a tan­ti an­ni di di­stan­za, il ri­cor­do del­la zia Te­re­sa si so­vrap­po­ne­va a quel­lo del­la bian­ca spiag­gia di Mon­del­lo, per­ché pro­prio in quel luo­go straor­di­na­rio lei ave­va re­ga­la­to ai due bam­bi­ni un’in­fan­zia fe­li­ce.

    Il li­do di Mon­del­lo, a die­ci chi­lo­me­tri dal­la cit­tà, era di­ven­ta­to la spiag­gia più al­la mo­da dei pa­ler­mi­ta­ni da­gli an­ni ven­ti, quan­do una fa­ti­co­sis­si­ma ope­ra di bo­ni­fi­ca ave­va col­ma­to una gran­de pa­lu­de. Va­go­ni di ter­ra e de­tri­ti ave­va­no riem­pi­to un mal­sa­no ac­qui­tri­no, quan­do nel frat­tem­po si era pen­sa­to di tra­spor­ta­re un’im­men­sa quan­ti­tà di sab­bia fi­nis­si­ma sul chi­lo­me­tro e mez­zo di ba­ia con­fi­nan­te, dall’an­ti­ca ton­na­ra di Val­de­si al­la pun­ta Ce­li­si. Era sta­ta co­sì crea­ta una spiag­gia bian­ca ed este­sa a de­cli­vio su di un ma­re dai co­lo­ri tro­pi­ca­li, su cui era sta­to co­strui­to un ele­gan­te sta­bi­li­men­to bal­nea­re su pa­la­fit­te, con un cor­po cen­tra­le for­ma­to da sa­lo­ni e ter­raz­ze. In que­gli an­ni era­no sta­te inau­gu­ra­te le pri­me vet­tu­re tran­via­rie per col­le­ga­re i po­chi chi­lo­me­tri che se­pa­ra­va­no la spiag­gia al­la cit­tà.

    Al tem­po dell’in­fan­zia di El­da, fra gli an­ni ven­ti e tren­ta, il tram elet­tri­co ave­va cor­se dal­le 5,30 al­le 23 e la spiag­gia ave­va uno spa­zio­so are­ni­le co­steg­gia­to da un ele­gan­te via­le di pal­me e giar­di­ni sul qua­le si af­fac­cia­va­no dei de­li­zio­si vil­li­ni. Sul­la spiag­gia, in un’uni­ca fi­la al cen­tro del­la lin­gua di sab­bia, vi era­no le ca­pan­ne di le­gno ben di­stan­zia­te l’una dall’al­tra, che si apri­va­no sul da­van­ti con una strut­tu­ra di pa­li di le­gno sul­la qua­le ve­ni­va di­spo­sta una ten­da. Ogni ca­pan­na era da­ta in af­fit­to per la sta­gio­ne a una so­la fa­mi­glia, ma la fa­mi­glia di El­da non ave­va una ca­pan­na. Te­re­sa e i bam­bi­ni an­da­va­no ospi­ti in quel­la di al­cu­ni lon­ta­ni cu­gi­ni, un ra­mo del­la fa­mi­glia fre­quen­ta­to so­lo dal­la zia.

    L’in­fan­zia di El­da e suo fra­tel­lo era sta­ta ric­ca di ben quat­tro me­si esti­vi in cui ogni mat­ti­na la zia li ave­va por­ta­ti al­la spiag­gia per tra­scor­rer­vi l’in­te­ra gior­na­ta. Lei si sve­glia­va all’al­ba pre­pa­ran­do frit­ta­te o uo­va so­de, chiu­den­do nei te­ga­mi­ni er­me­ti­ci la pa­sta, la­van­do la frut­ta da por­ta­re av­vol­ta nei to­va­glio­li. Poi tut­ta in­daf­fa­ra­ta e col vi­so ros­so sve­glia­va i bim­bi, li por­ta­va in ba­gno a la­var­gli la fac­cia e le­var il moc­cio dal na­so, ver­sa­va il lat­te nel­le taz­ze men­tre al­lac­cia­va i lo­ro san­da­li, pet­ti­na­va El­da strin­gen­do un fioc­co sul­la te­sta e ab­bot­to­na­va la ca­sac­ca di Giu­lio. Poi si do­ve­va cor­re­re al­la fer­ma­ta del tram a pren­de­re la cor­sa del­le 9,30 e El­da do­ve­va sta­re at­ten­ta a non la­scia­re la ma­no del­la zia per­ché una vol­ta si era per­sa per stra­da:

    Zia per­ché non pren­dia­mo l’au­to­bus che pas­sa dal par­co del­la Fa­vo­ri­ta? Con quel­lo si ar­ri­va pri­ma! chie­de­va il pic­co­lo Giu­lio, di due an­ni più gran­de di El­da.

    Il tram è più eco­no­mi­co! di­ce­va sbri­ga­ti­va la zia sor­reg­gen­do­si al­la ma­ni­glia del tram, men­tre i pic­co­li sta­va­no se­du­ti nel­le pan­che di le­gno.

    Bi­so­gna­va pri­ma per­cor­re­re la stra­da di cam­pa­gna fra le vil­le ai col­li:

    Zia è qui che ave­va­mo la vil­let­ta? chie­de­va Giu­lio.

    Si, si, ri­spon­de­va eva­si­va la zia, men­tre il tram ol­tre­pas­sa­va la Ca­si­na Ci­ne­se av­vian­do­si ver­so il bor­go di Pal­la­vi­ci­no.

    Era una no­ia pas­sa­re da quel­la con­tra­da sol­tan­to per ri­spar­mia­re de­na­ro! Il tram si in­fi­la­va a fa­ti­ca in mez­zo a bim­bi ler­ci e po­po­la­ne sgua­ia­te, poi gi­ra­va a de­stra e si ar­ram­pi­ca­va in quel­la sa­li­ta tut­ta ster­ra­ta che fa­ce­va on­deg­gia­re la zia in pie­di ap­pe­sa al­la ma­ni­glia. Fi­nal­men­te si con­flui­va nel bel via­le Re­gi­na Mar­ghe­ri­ta, do­ve pas­sa­va an­che l’au­to­bus dei ric­chi e sem­bra­va di es­se­re già ar­ri­va­ti, per­ché a quel pun­to si svol­ta­va a si­ni­stra e si scen­de­va di cor­sa il via­le al­be­ra­to ver­so quel­la spiag­gia bian­ca che si ver­sa­va in un ma­re ver­de chia­ro.

    La zia Te­re­sa ar­ri­va­va al­la ca­pan­na ros­sa e su­da­ta, si chiu­de­va den­tro a cam­bia­re se stes­sa e la pic­co­la El­da men­tre Giu­lio pre­ten­de­va di fa­re tut­to da so­lo già dal­la te­ne­ra età. Fi­nal­men­te era­no pron­ti in co­stu­me per get­tar­si in ac­qua men­tre la zia si ab­ban­do­na­va su di una se­dia a sdra­io a con­ver­sa­re con i cu­gi­ni. Il ba­gno du­ra­va sem­pre trop­po po­co e la cu­ra del so­le trop­po a lun­go, che bi­so­gno ave­va la zia di fri­zio­na­re tut­to il cor­po con l’asciu­ga­ma­no, ap­pe­na usci­ti dall’ac­qua, per poi sta­re tut­to quel tem­po a su­da­re asciut­ti sot­to il so­le? Per giun­ta con uno stra­to spes­so di cre­ma Ni­vea che at­ti­ra­va i rag­gi co­me il mie­le le mo­sche.

    Zia sia­mo già asciut­ti, ci pos­sia­mo fa­re un se­con­do ba­gno?

    Non era re­go­la fa­re se­con­di ba­gni, ma la zia era for­mi­da­bi­le nell’in­fran­ge­re le re­go­le e spes­so pri­ma di pran­zo ci si po­te­va but­ta­re una se­con­da vol­ta. Di co­stu­me ce n’era uno a te­sta, con­fe­zio­na­to in una pe­san­tis­si­ma ma­glia di la­na che as­sor­bi­va l’ac­qua co­me una spu­gna e che ve­ni­va mes­so ad asciu­ga­re sul tet­to del­la ca­pan­na, il prez­zo del se­con­do ba­gno era quin­di il sup­pli­zio di in­dos­sa­re quel co­stu­me an­co­ra ba­gna­to. La gior­na­ta in spiag­gia era lun­ga e il ba­gno non era l’uni­co pas­sa­tem­po; in quel­la ca­pan­na c’era­no dei cu­gi­ni e tan­ti al­tri bam­bi­ni po­po­la­va­no la spiag­gia, che era una sor­ta di co­mu­ni­tà pri­mor­dia­le do­ve si con­di­vi­de­va­no le vi­te pri­va­te di ognu­no. Fi­nal­men­te all’una si apri­va­no le ce­ste di vi­mi­ni e si pran­za­va. La pa­sta ave­va su­bi­to un’al­tra cot­tu­ra den­tro il te­ga­mi­no al so­le e se era­no spa­ghet­ti que­sti si spez­za­va­no ogni vol­ta che la for­chet­ta vo­le­va ti­rar­li su, an­che la frut­ta era cot­ta dal so­le e an­che l’ac­qua, ma El­da ri­cor­da­va il tie­pi­do ci­bo ri­cot­to del­la spiag­gia co­me una del­le tan­te com­po­nen­ti di un mon­do af­fet­tuo­so. Do­po pran­zo, men­tre gli adul­ti ri­po­sa­va­no all’om­bra del­la ten­da di te­la olo­na, i bam­bi­ni sta­va­no a gio­ca­re nel­lo spa­zio nel re­tro del­la ca­pan­na che a quell’ora si tro­va­va in om­bra.

    Si fa­ce­va il gio­co del­le bi­glie sul­le pi­ste di sab­bia op­pu­re si pre­pa­ra­va­no pa­stic­ci di sab­bia ba­gna­ta, fo­glie ed al­ghe.

    Quan­do poi il ri­po­si­no de­gli adul­ti ter­mi­na­va e que­sti ini­zia­va­no a gio­ca­re a car­te o a con­ver­sa­re, il gio­co si po­te­va spo­sta­re nel­la par­te più am­pia di spiag­gia da­van­ti le ca­bi­ne: si gio­ca­va ai ‘cer­chiet­ti’, a pal­lo­ne o con i tam­bu­rel­li, il cui ru­mo­re scan­di­va il rit­mo del po­me­rig­gio. Vi­ci­no al­la lo­ro ca­pan­na c'era poi il ‘Cir­co­lo dei Ca­not­tie­ri’, fre­quen­ta­to da gio­va­ni mol­to di­stin­ti con lar­ghe bra­ghe di li­no bian­co, scar­pe di te­la e ma­glie a ri­ghe; i bam­bi­ni guar­da­va­no dal­la re­te di se­pa­ra­zio­ne l’ar­ma­tu­ra del­le bar­che ed era un av­ve­ni­men­to se qual­cu­no di quei dan­dies oc­ca­sio­nal­men­te ri­vol­ge­va lo­ro la pa­ro­la. Al­tra op­por­tu­ni­tà di di­ver­ti­men­to, che pe­rò suc­ce­de­va mol­to di ra­do, era la gi­ta in bar­ca a ve­la si­no al­la stu­pen­da ‘Grot­ta dell'olio’, con i ma­ri­nai lo­ca­li che si chia­ma­va­no tut­ti Cor­rao.

    Quel­la co­mu­ni­tà che ac­co­glie­va ca­lo­ro­sa­men­te la zia era com­po­sta da cu­gi­ni e ami­ci che ama­va­no lo sport e la vi­ta sem­pli­ce e con i qua­li in in­ver­no Te­re­sa e i bam­bi­ni an­da­va­no al­le gi­te del CAI.¹ Era pe­rò un mon­do al­tro dai suoi ge­ni­to­ri tan­to che i ri­fe­ri­men­ti a que­sti ul­ti­mi si fa­ce­va­no in fran­ce­se, la mi­mi­ca che ac­com­pa­gna­va quel­la lin­gua mal ma­sti­ca­ta era in­ve­ce mol­to elo­quen­te e non sfug­gi­va ai bam­bi­ni. Quel­lo che El­da ri­cor­da­va del­la sua in­fan­zia era il de­si­de­rio strug­gen­te di far com­ba­cia­re il mon­do del­la zia con quel­lo dei ge­ni­to­ri, non da­va giu­di­zi, vo­le­va sol­tan­to che ces­sas­se d’un col­po quel­la pal­pa­bi­le in­sof­fe­ren­za.

    An­che quan­do di tan­to in tan­to i ge­ni­to­ri ar­ri­va­va­no a da­re un sa­lu­ti­no nel po­me­rig­gio, il di­va­rio più che col­mar­si si al­lar­ga­va. Wan­da si pre­sen­ta­va con un cap­pel­lo a lar­ghe fal­de che sot­to­li­nea­va l’estre­mo sa­cri­fi­cio dell’espo­si­zio­ne al so­le, ba­ci af­fet­tuo­si ai bim­bi e si ada­gia­va sul­la sdra­io di mi­glio­re qua­li­tà stan­do at­ten­ta che la sab­bia non le en­tras­se nel­le scar­pe:

    A Te­re­sa piac­cio­no i ba­gni, a me in­ve­ce fan­no ve­ni­re de­bo­lez­za, di­ce­va sven­ta­glian­do­si. Era ve­ro, os­ser­va­va ades­so El­da, la zia Te­re­sa si di­ver­ti­va al­la spiag­gia e ama­va lei e Giu­lio co­me fos­se­ro fi­gli suoi, ma per­ché mai un se­gno di af­fet­to e gra­ti­tu­di­ne?

    Nel frat­tem­po Gu­gliel­mo si le­va­va la giac­ca bian­ca di li­no ir­lan­de­se mo­stran­do le bre­tel­le e una ca­mi­cia con col­lo ina­mi­da­to, quin­di si adat­ta­va con ma­gna­ni­mi­tà ai gio­chi di car­te da spiag­gia, bri­sco­la o sco­po­ne, mol­to più ple­bei del po­ker e del pon­te usi al Cir­co­lo, poi con la stes­sa aria di suf­fi­cien­za mam­ma e pa­pà an­da­va­no via con qual­che au­to­mo­bi­le pre­sa a pre­sti­to.

    I bam­bi­ni sa­reb­be­ro in­ve­ce tor­na­ti in­sie­me al­la zia Te­re­sa con la cor­sa del­le 8 di se­ra e a ca­sa, an­co­ra ubria­chi di so­le e sa­zi di gio­chi, di aria e di io­dio, avreb­be­ro con­su­ma­to una ve­lo­ce mi­ne­stri­na pri­ma di an­da­re drit­ti fi­la­ti a let­to. Non avreb­be­ro ri­vi­sto i ge­ni­to­ri nean­che il mat­ti­no se­guen­te, per­ché si sa­reb­be­ro do­vu­ti pre­pa­ra­re in si­len­zio stan­do at­ten­ti a non sve­glia­re mam­ma e pa­pà che ie­ri se­ra han­no fat­to tar­di al Cir­co­lo.

    Han­no fat­to tar­di al Cir­co­lo ve­ni­va sot­to­li­nea­to con la de­fe­ren­za che do­vreb­be dar­si al mi­na­to­re ap­pe­na fuo­riu­sci­to dal ven­tre del­la ter­ra, un la­vo­ra­to­re a cui si de­ve tut­to il ri­spet­to.

    In un cer­to sen­so era un la­vo­ro.

    La zia Teresa

    Nel­la fa­mi­glia Lo­ren­zi l’uni­co in­fa­ti­ca­bi­le la­vo­ra­to­re era sta­to il bi­snon­no di El­da, che ave­va fat­to par­te di quel­la vi­ta­le lin­fa im­pren­di­to­ria­le che era giun­ta a Pa­ler­mo al­la me­tà dell’ot­to­cen­to, suo fi­glio Giu­lio e i suoi ni­po­ti Gu­gliel­mo e Lu­ca s’era­no in­ve­ce tro­va­ti a ge­sti­re un pa­tri­mo­nio in cui gli uti­li sem­bra­va­no ar­ri­va­re co­me in un pro­ces­so au­to­ma­ti­co. Al­la mor­te del bi­snon­no, il non­no Giu­lio ave­va nel be­ne e nel ma­le ge­sti­to gli af­fa­ri dan­do ai suoi fi­gli, ra­gaz­zi vi­zia­ti da­gli agi e in­cli­ni al­la pi­gri­zia, del­le ca­ri­che rap­pre­sen­ta­ti­ve ma po­co de­ter­mi­nan­ti. Do­po la mor­te del pa­dre Giu­lio, Gu­gliel­mo e suo fra­tel­lo Lu­ca ave­va­no sco­per­to di es­se­re as­sa­li­ti dai cre­di­to­ri e per evi­ta­re il fal­li­men­to ave­va­no do­vu­to ven­de­re tut­to.

    Lu­ca si era co­sì get­ta­to nel­la car­rie­ra mi­li­ta­re men­tre Gu­gliel­mo, già lau­rea­to in giu­ri­spru­den­za e ap­pe­na ma­ri­ta­to, ave­va do­vu­to apri­re un pic­co­lo stu­dio le­ga­le nel­lo stes­so pa­laz­zo in cui ave­va pre­so ca­sa la fa­mi­glia do­po la ven­di­ta del­la vil­la ai Col­li. Non che Gu­gliel­mo non fos­se bril­lan­te, ma non era abi­tua­to a fa­ti­co­se ore di la­vo­ro, non ama­va an­da­re al mat­ti­no in tri­bu­na­le e, do­po l’ob­bli­ga­to­ria sie­sta si­ci­lia­na, ri­ce­ve­va svo­glia­ta­men­te i suoi clien­ti fi­no al­le cin­que. A quel pun­to ini­zia­va a sma­nia­re per pro­se­gui­re al Cir­co­lo la sua gior­na­ta.

    Era se­dot­to da quell’am­bien­te do­ve ogni mem­bro con­du­ce­va una vi­ta co­mo­da: sve­glian­do­si tar­di al mat­ti­no e ozian­do poi per ca­sa in at­te­sa dell’uni­co im­pe­gno del­la gior­na­ta, che era il gio­co del­le car­te. Se qual­cu­no vo­les­se tro­va­re l’ori­gi­ne del­la scar­sa im­pren­di­to­ria­li­tà del po­po­lo si­ci­lia­no, ri­flet­te­va ora El­da, do­vreb­be stu­dia­re con at­ten­zio­ne la pe­cu­lia­ri­tà di quel­la che per se­co­li è sta­ta la clas­se di­ri­gen­te dell’Iso­la: an­che do­po la me­teo­ra im­pren­di­to­ria­le del­la Bel­le Épo­que, rap­pre­sen­ta­ta so­prat­tut­to dal­la fa­mi­glia Flo­rio, la Si­ci­lia con­ti­nuò a reg­ger­si su di un’eco­no­mia di stam­po feu­da­le do­ve, gra­zie al bas­so co­sto del­la ma­no­do­pe­ra, i ri­ca­vi ar­ri­va­va­no sen­za fa­ti­ca e co­mun­que, chi do­ve­va lo­go­rar­si nel dif­fi­ci­le rap­por­to con i con­ta­di­ni era­no de­gli in­ter­me­dia­ri spar­si nei feu­di. I feu­da­ta­ri re­sta­va­no in cit­tà a go­der­si i pro­ven­ti, an­dan­do nel­le cam­pa­gne di tan­to in tan­to, giu­sto per un do­ve­ro­so at­to di pre­sen­za.

    Eb­be­ne, ri­flet­te­va El­da, non vi era una cen­su­ra so­cia­le per l’ozio, an­zi era con­si­de­ra­to una fur­be­ria, pro­ba­bil­men­te que­sta men­ta­li­tà avreb­be in se­gui­to age­vo­la­to il ri­cam­bio del­la clas­se di­ri­gen­te in una al­tret­tan­to ozio­sa, seb­be­ne ab­bar­bi­ca­ta al­la pub­bli­ca am­mi­ni­stra­zio­ne an­zi­ché al feu­do.

    Ma tor­nan­do a noi, El­da ades­so era pro­pen­sa a giu­sti­fi­ca­re il pa­dre, ri­te­nen­do­lo vit­ti­ma di sif­fat­to con­te­sto. Gu­gliel­mo con­si­de­ra­va il gio­co di car­te al Cir­co­lo la sua rea­le at­ti­vi­tà pro­fes­sio­na­le, del re­sto quel­le fre­quen­ta­zio­ni gli con­sen­ti­va­no di al­lar­ga­re la sua cer­chia di clien­ti e in ul­ti­ma ana­li­si lui e sua mo­glie riu­sci­va­no ad ar­ro­ton­da­re il bi­lan­cio fa­mi­lia­re con del­le di­scre­te vin­ci­te. Era­no in­fat­ti mol­to bra­vi, dan­do a vol­te all’av­ver­sa­rio il pia­ce­re del­la vit­to­ria, in mo­do che non fos­se­ro esclu­si dai fu­tu­ri ta­vo­li­ni.

    Qual­co­sa d’al­tro do­ve­va suc­ce­de­re in quel­le stan­ze se ogni tan­to in mez­zo ai sin­ghioz­zi di Wan­da, El­da po­te­va udi­re di­stin­ta­men­te:

    Lo ca­pi­sci Te­re­sa, lo ca­pi­sci co­sa ha fat­to tuo fra­tel­lo? An­ch’io se vo­les­si, che ti pa­re! È che io so­no una ma­dre, non po­trei mai!

    Nean­che nel tra­di­men­to c’era una rea­le cen­su­ra da par­te di quel­la so­cie­tà, a pat­to che fos­se sol­tan­to l’uo­mo a com­pier­lo. Quan­do Gu­gliel­mo su­pe­ra­va il li­mi­te l’in­te­ra fa­mi­glia era co­stret­ta a pren­der­ne no­ti­zia: set­ti­ma­ne in cui si ur­la­va, si pian­ge­va e si sbat­te­va­no le por­te, in cui lui sup­pli­ca­va lei di per­do­nar­lo, fi­no a quan­do la pa­ce ve­ni­va sug­gel­la­ta da un pre­zio­so gio­iel­lo mo­stra­to a tut­ti con or­go­glio.

    "Ma­man,² guar­di che bell’anel­lo mi ha re­ga­la­to Gu­gliel­mo!" di­ce­va trion­fan­te Wan­da al­la suo­ce­ra, al­lun­gan­do­le la ma­no sot­to gli oc­chi.

    Ma­man in ge­ne­re non era mol­to com­pia­ciu­ta, sa­pe­va che suo fi­glio non se lo po­te­va per­met­te­re e che pre­sto quel gio­iel­lo sa­reb­be fi­ni­to al Mon­te di Pie­tà per un de­ci­mo del pro­prio va­lo­re.

    Quin­di, pen­sa­va la pic­co­la El­da, es­se­re una ma­dre non vo­le­va di­re com­por­tar­si co­me la zia Te­re­sa, por­tar­li al ma­re o al ci­ne­ma­to­gra­fo e con­fe­zio­na­re cap­pot­ti­ni? Es­se­re una ma­dre si­gni­fi­ca­va sol­tan­to la do­lo­ro­sa ri­nun­zia al­la co­sa che fa­ce­va il pa­pà, pe­ral­tro sem­pre per­do­na­ta?

    Nel­lo sta­bi­li­re re­go­le di amo­re ma­ter­no re­sta­va in om­bra il ruo­lo del­la zia Te­re­sa: era in­fat­ti pa­ci­fi­co che se Wan­da non fos­se cor­sa ogni se­ra al Cir­co­lo die­tro suo ma­ri­to le co­se sa­reb­be­ro an­da­te ben peg­gio, e che que­sto fos­se con­sen­ti­to dal ruo­lo di Te­re­sa, ma lei era zi­tel­la e le re­go­le sta­bi­li­va­no che le spet­tas­se di do­ve­re, poi in fa­mi­glia non man­ca­va­no le oc­ca­sio­ni per mor­ti­fi­car­la con fra­si ir­ri­guar­do­se che sot­to­li­nea­va­no la sua con­di­zio­ne.

    Che hai, zia Te­re­sa?

    Nien­te, nien­te, co­se da gran­di.

    In quel ca­so El­da sa­pe­va che but­tar­le le brac­cia al col­lo e dar­le un ba­cio, era per la zia la con­so­la­zio­ne ne­ces­sa­ria.

    Lo sai quan­to be­ne vo­glio a te e tuo fra­tel­lo, ri­spon­de­va zia Te­re­sa ac­ca­rez­zan­do­la.

    Poi ci fu quel po­me­rig­gio in cui lei e la zia era­no nel­la stan­za del cu­ci­to, men­tre il pa­pà e lo zio Lu­ca era­no nel­la stan­za ac­can­to a ri­guar­da­re i con­ti di fa­mi­glia; a un cer­to pun­to, nel­la pau­sa fra una pe­da­la­ta e l’al­tra del­la pe­san­te mac­chi­na Sin­ger, at­tra­ver­so la por­ta a ve­tri, si sen­tì lo zio Lu­ca:

    Pa­pà ci ha la­scia­to co­me uni­ca ere­di­tà no­stra so­rel­la, bell’af­fa­re!

    El­da ave­va tre­di­ci an­ni e sta­va ac­co­mo­dan­do la bre­tel­la di una sua sot­to­ve­ste, men­tre la zia Te­re­sa era se­du­ta al­la mac­chi­na da cu­ci­re in­ten­ta a ri­vol­tar len­zuo­la. La ra­gaz­zi­na ave­va al­za­to gli oc­chi dal suo la­vo­ro, per ca­pi­re se la zia aves­se ascol­ta­to e con­trol­la­re se qual­che la­cri­ma stes­se ri­gan­do le sue guan­ce. La zia Te­re­sa in­ve­ce ave­va con­ti­nua­to a tor­men­ta­re ener­gi­ca­men­te quell’enor­me len­zuo­lo ma­tri­mo­nia­le co­strin­gen­do­lo a pas­sa­re all’in­ter­no del pic­co­lo brac­cio di ghi­sa; ca­den­za­va il la­vo­ro con bru­sche par­ten­ze del pe­da­le men­tre il pie­di­no dell’ago ve­ni­va al­za­to e ri­bat­tu­to in giù con ge­sti ner­vo­si, non ave­va det­to nean­che una pa­ro­la. Ma sul suo col­lo c’era ades­so un’enor­me chiaz­za ros­sa che dal­lo ster­no avan­za­va ver­so le orec­chie per rag­giun­ge­re il na­so, si sa­reb­be po­tu­to ve­de­re usci­re del fu­mo da quel­le na­ri­ci. Lei ave­va sen­ti­to.

    La cat­ti­ve­ria di quel­la fra­se ge­lò an­che El­da che non fu ca­pa­ce di di­re nul­la.

    Nei gior­ni suc­ces­si­vi la zia Te­re­sa eb­be un gran daf­fa­re, en­tra­va e usci­va da ca­sa sen­za da­re spie­ga­zio­ni, fin­ché com­par­ve un po­me­rig­gio ad an­nun­zia­re che si era ar­ruo­la­ta nel cor­po del­le vo­lon­ta­rie del­la Cro­ce Ros­sa, sta­va per par­ti­re al­la vol­ta dell’ospe­da­le mi­li­ta­re di Mi­la­no, do­ve, do­po un du­ro ap­pren­di­sta­to fra pa­del­le di fer­ro smal­ta­to da stro­fi­na­re e ben­de pu­ru­len­te da ste­ri­liz­za­re, sa­reb­be di­ven­ta­ta in­fer­mie­ra, poi pro­ba­bil­men­te sa­reb­be sta­ta im­pie­ga­ta in ospe­da­li mi­li­ta­ri nel­le co­lo­nie.

    La non­na ri­ten­ne la fi­glia or­mai per­du­ta e per gior­ni se­gui­ta­ro­no fra­si ur­la­te all’in­di­riz­zo del­la fi­glia:

    Do­vrai gi­ra­re fra cor­sie pie­ne di sol­da­ti ler­ci e sfi­gu­ra­ti, uo­mi­ni! Sta­re nei dor­mi­to­ri con don­ne di ce­to bas­so, fa­re la ser­va!

    Poi si ag­giu­sta­va la ve­ste e lo scial­le, apri­va il ven­ta­glio tos­sen­do e qua­si sot­to­vo­ce in­fi­la­va il suo so­li­to rim­brot­to:

    Se ci fos­se an­co­ra la fab­bri­ca non sa­rem­mo a que­sto pun­to!

    Gu­gliel­mo, Wan­da e lo zio Lu­ca ri­ma­se­ro ba­si­ti, se ne an­da­va l’og­get­to del lo­ro scher­no e con­tem­po­ra­nea­men­te l’or­ga­niz­za­zio­ne del­la fa­mi­glia avreb­be per­so un suo pre­zio­so car­di­ne. El­da e Giu­lio ca­pi­ro­no in­ve­ce in un istan­te co­sa sa­reb­be sta­to il vuo­to di quell’as­sen­za.

    Se la me­mo­ria del­la

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