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Nebbia dal cuore
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Ebook173 pages2 hours

Nebbia dal cuore

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About this ebook

Torino 1995. L’ispettore Nitti è incaricato di risolvere un intricato caso quando viene ritrovato il cadavere di un uomo il cui corpo annegato affiora dall’acqua sulle sponde del Po, proprio sotto il Ponte di Sassi. Le indagini coinvolgono più persone, ma ad essere indagata è anche la psiche, assieme ai rapporti umani, alle radici e ai legami famigliari che, laddove mancanti, lasciano voragini difficili da colmare, esponendo alla seduzione della vendetta, uccidendo ogni sentimento e portando la nebbia nel cuore.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJun 11, 2020
ISBN9788831677103
Nebbia dal cuore

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    Nebbia dal cuore - Paolo Tagliapietra

    Chiara

    Capitolo 1

    Ottobre 1995, Torino

    L’odore della nebbia è una cosa che non si riesce a descrivere. È un colore che non ha un codice fatto di lettere e numeri come tanti altri. Piuttosto si pensa a delle infinite particelle d’acqua che restano addosso, bagnano i capelli e forse la faccia. L’umidità entra nel naso, segue il respiro e si fatica a capire dove vada a finire. Respirare la nebbia è freddo nella bocca, lasciata aperta per provare a sentirne il gusto. È l’unico modo per riuscire a catturarla. Diversamente è vapore.

    Trovarsi in mezzo alla nebbia, camminando piano, spiazza ogni certezza sulla direzione da tenere.

    Luciano non aveva la benché minima idea di quanta strada aveva fatto a piedi, partendo da Borgata Rosa in direzione piazza Vittorio. Si era messo in testa, quel dopopranzo, di andare a prendere un caffè al Bar Elena, proprio sotto i portici prima di via Po. Fresco di pensione, non pensava davvero di sottomettersi alla condizione di fuoriuscito dal lavoro, adagiarsi in poltrona o chissà cos’altro.

    Essere un sessantenne non era come ai tempi di suo padre o, peggio, di suo nonno. Loro sì che erano vecchi.

    Cominciava una nuova vita senza più orari stabiliti, cartoline da bollare, quarant’anni di fabbrica segnano pesantemente la vita, lasciano i segni sulle mani, ti aspettano anche nei sogni notturni. La tuta blu diventa la tua seconda pelle, le macchie di grasso lividi che non passano mai. L’odore della macchina utensile, del nastro, della fresa, del ferro, della tramoggia, sono gli unici profumi che si possono indossare fino alla sera e non se ne vanno facilmente.

    Le piccole cose quotidiane, Luciano, in quarant’anni le aveva perse. Non solo, anche qualcosa di più importante: Maria era tornata per sempre in Toscana, al suo paese d’origine, stanca di essere la moglie di un uomo che era nient’altro che lavoro. Aveva solo atteso che il figlio Marco partisse militare per radunare la sua roba e andare.

    Luciano non era riuscito a sentire per lei quel famoso gusto amaro dell’abbandono di cui si sente dire e forse nemmeno un rimorso. Era convinto di aver fatto il suo per dare alla famiglia tutto ciò che serviva. Non c’erano teatri, cinema, ristoranti nel suo passato e lei glielo aveva spesso fatto notare.

    Le donne vanno avanti sempre e comunque fin quando decidono di svoltare e allora non c’è più niente da fare.

    A nulla erano servite le promesse a garanzia di qualcosa di diverso da prima.

    Quella mattina della settimana di Pasqua di dieci anni prima, lei se n’era andata.

    La nebbia facilitava i pensieri, era questo che gli faceva dimenticare i passi sul viale. Era ancora al Meisino, quel posto da pochi anni diventato Parco.

    Il freddo di quell’ora era intenso per essere la fine di ottobre, lo si vedeva anche dalla condensa sulla sciarpa.

    «Oggi non c’è un’anima in giro» pensava, «devo solo guardare l’ora, che alle cinque stasera sarà buio. Male che vada prenderò il 61 per tornare». Aveva una fermata del pullman a trenta metri da casa sua, da quella casa che si era sudato, conquistandola anno dopo anno. Piccola ma indipendente, costruita alla fine degli anni ’50 con tre balconi in muratura, uno per ogni stanza del piano di sopra. L’unico operaio in quel gruppo di casette simili tra loro. Nelle altre abitavano piccoli professionisti e commercianti. Essere riuscito a riscattarla col proprio lavoro lo rendeva particolarmente orgoglioso. Gli capitava di pensare che i suoi vicini avevano fatto certamente meno fatica di lui. Forse questo aveva creato un po’ di distacco con loro tranne che con la famiglia della casa di fianco, i Morelli, toscani di origine e gestori di un bar tabacchi a San Mauro. Certo, prima più legati alla moglie per questioni di campanile, ma dal suo abbandono, i rapporti si erano saldati anche con lui. Da Luciano non si sentivano giudicati per quella macchia con cui dovevano sempre fare i conti: una condanna per bancarotta fraudolenta e l’arresto del figlio Duccio per la sua azienda di filati. Da solo un anno erano passati i tre scontati in carcere e le ferite erano ancora aperte, per loro e per il figlio che rimaneva interdetto da ogni possibilità di intraprendere iniziative lavorative commerciali. Era stato proprio lui a dover andar via, quel figlio a cui avrebbero voluto lasciare un giorno la loro attività e che invece lavorava come cameriere in una pizzeria a Trapani. Pur avendo restituito i soldi ai fornitori e pagato il debito con la giustizia, sembrava che quel conto non si potesse chiudere mai.

    Era certamente la nebbia a richiamare tutti quei pensieri, toglieva lo sguardo d’intorno, le distrazioni passanti, il colore del fiume. Faceva l’effetto di uno specchio opaco in cui si sarebbe dovuta distinguere la propria immagine, ma che la restituiva indefinita, estranea, senza contorni e profondità.

    Luciano marcava ogni suo passo con un pensiero legato alla vita, seppur anonima, ma ricca di eventi trasversali, vissuti a margine. Anche suo figlio Marco toccava appena i suoi ricordi, accorgersene così tardi era davvero vergognoso, se lo diceva da solo. Per il figlio non si rimproverava abbastanza quella mancanza, ma ne pagava in continuazione il prezzo. Ormai era solo, rimasto all’ombra di un rimpianto drammaticamente tardivo. A differenza del figlio dei suoi vicini, il suo aveva scelto di andarsene lontano da ogni possibilità di incontro. La Nuova Zelanda era abbastanza distante da ogni occasione di ritorno, agli antipodi anche dai pensieri.

    Era rimasta solo quella casa a testimoniare il lavoro fatto e un silenzio all’interno a dimostrare quanto ne era mancato.

    Capitolo 2

    Il ponte di Sassi era ormai a poche decine di passi, lo si avvertiva dal cambio del rumore dell’acqua e dal passaggio del suono, a destra, di alcuni tram.

    Ponte Principi di Piemonte, come lo chiamava suo padre e com’era in origine, un grande lavoro in cemento armato degli anni ’30, era da sempre luogo di riferimento per appuntamenti e partenze. Il percorso dal viale passava in modo naturale dal piano strada a sotto il fiume, per non perdere il contatto con il grande corso d’acqua. Sembrava quasi che la nebbia rimanesse sopra, sulla strada, immaginando di entrare in un cunicolo luminoso, tra i platani e gli ippocastani.

    Era l’unico momento in cui si riuscivano a distinguere i colori delle foglie secche diventate ormai un tappeto rumoroso. Ad ogni passo saltavano fuori da sotto quelle più umide, odorose di terra, quelle che bagnano irrimediabilmente la punta delle scarpe.

    Luciano conosceva questi posti un po’ come le sue tasche, da bambino abitava in Borgo Vanchiglia e il lungo Po era il posto dove si radunavano tutti i ragazzini della zona per trasformare quel luogo in posti immaginati che non stavano in nessuna cartina geografica stampata. A memoria di tutti quello era il luogo della grande scommessa quando Bertu nel ’50, per un paio di pattini a rotelle, aveva attraversato a nuoto il Po da una sponda all’altra, rischiando di finire contro una piglia del ponte.

    Non riusciva a credere quanti pensieri venissero prodotti dal camminare, era tanto che non lo faceva, non ne aveva mai sentito il bisogno. Che senso aveva rispolverare ricordi se diventavano soltanto l’eco dell’avessi detto o avessi fatto… una fatica inutile. Però non riusciva a mettere dei filtri a quel passato, colpa forse di quel tempo irriverente che passa, che rende tutti più domabili.

    Senza più immagini da recuperare dalla sua memoria, Luciano Raviola iniziò a scrutare il filo superiore dell’acqua a tratti increspata da un fondale irregolare. Lo aveva colpito, però, quel sacco della spazzatura gettato sulla riva del fiume sicuramente da qualche incivile.

    «Solo dei dementi possono buttare la rumenta così» pensava, «possibile che non li veda mai nessuno?»

    Si avvicinò con l’intenzione di tirare almeno fuori dall’acqua quel pattume in modo che qualcuno potesse portarlo via. Ormai le sue scarpe erano impregnate dal limo abbondante della sponda, capace di far affondare improvvisamente. La sensazione di paura stava scavalcando quella dello stupore perché man mano c’era l’impressione che quello fosse un corpo umano affiorante.

    Il cuore batteva in tutta la cassa toracica e il freddo che sentiva prima era scomparso.

    «Ma questo è davvero un morto!» disse a mezza voce, riconoscendo la testa rivolta in basso che poco prima sembrava un sasso.

    «Cosa faccio? Chi devo chiamare? Non c’è nessuno» pensava indietreggiando quasi cadendo e pestandosi anche i pantaloni. Il primo istinto era guardarsi intorno e cercare qualcuno sul viale, ma non passava nessuno, c’era solo il rumore delle macchine più in alto, sulla strada.

    Si vedevano solo una parte della testa e della schiena affioranti, le gambe erano sott’acqua, da vicino le braccia erano aperte, sembrava indossasse qualcosa, tipo un soprabito scuro.

    «Questo qui si sarà buttato dal ponte. Vado sopra, devo fermare qualcuno» pensava sempre più spaventato. Il suo respiro accelerava. Salendo continuava a voltarsi verso quel corpo, facendo attenzione che l’acqua non lo muovesse.

    Le prime due macchine avevano tirato dritto, pur vedendolo sbracciarsi. Quell’aria spaventata probabilmente faceva più pensare a uno strano tipo piuttosto che a uno che avesse bisogno, certi gesti sono spesso interpretati diversamente. La terza era l’auto dei vigili urbani, che si affiancò poco più avanti.

    «C’è un tizio sotto. Morto annegato.»

    «Intende nel Po?»

    «Sì, lì sotto, non si capisce subito, è pancia sotto, sembra un uomo».

    «Sembra o è un uomo?»

    «Nel senso che non credo sia una donna, insomma è qualcuno!»

    Lo stato confusionale non favoriva la comprensione delle parole. I vigili speravano di non trovarsi di fronte a un paranoico visionario.

    «Vado sotto a vedere» disse uno dei due, «se ti faccio un cenno chiama la polizia e un’ambulanza.»

    Il segno concordato arrivò chiaro. C’era un cadavere. Nel giro di pochi minuti arrivarono sia una volante che l’ambulanza. Poco dopo anche la Scientifica per i rilievi.

    Rimuovendo un paletto dal passaggio pedonale, le vetture riuscivano ad arrivare fin sotto, a ridosso del ritrovamento. Quello che si vedeva era tristissimo, qualunque cosa fosse capitata, spezzava inesorabilmente quell’immagine così poetica dei colori d’autunno nel Po.

    Capitolo 3

    «Ispettore, è lui il signore che ha ritrovato il corpo.»

    «Buon pomeriggio, sono l’ispettore capo Nitti del commissariato Borgo Vecchio.»

    «Salve, mi chiamo Luciano Raviola, camminando sul viale ho visto qualcosa lì sulla riva che sembrava un sacco nero.»

    «È solito passare da queste parti? Viene spesso qui?» domandò l’ispettore.

    «No, guardi, oggi è la prima volta nel senso che conosco i posti, abito poco distante e da ragazzo stavo in corso Belgio. Sono in pensione da pochi mesi, quando lavoravo non venivo mai qui sul viale, oggi avevo deciso di fare un giro a piedi fino in piazza Vittorio.»

    «È un

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