Nemmeno il tempo di un abbraccio
By Mimmo Parisi
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Nemmeno il tempo di un abbraccio - Mimmo Parisi
Degas
Prologo
Inizio estate 2044.
Aspetto l’autobus diretto all’ospedale Bellaria. Intanto penso ai fatti miei.
Non ho avuto una pessima infanzia e i miei genitori hanno fatto per me il giusto. Quello che potevano.
Mi fecero nascere in una frazione di Brindisi, perduta in culo al mondo, ma presto ci spostammo in città.
Nacqui quando mancavano 16 anni al countdown per il Covid-19.
Dopo quel big bang nero, ho dovuto inventarmi delle soluzioni per continuare ancora a trovarci qualcosa da ridere nelle barzellette.
Così, mi sono costruito un sogno.
Sono qui per un sogno.
Diversamente non mi sarei alzato questa mattina.
Lei è un po’ timida e preferisce vivere appartata.
Ovviamente quando non siamo insieme.
Il suo nome è Elise, che fa tanto Beethoven…
Per esteso – nome cognome e qualcos’altro – fa Lotus Elise Sport.
Un grande sogno a piccole rate.
No… Giuro non vendo macchine, né tantomeno sono un agente di qualsiasi tipo.
È solo che ho trovato l’occasione online… E l’ho presa.
Avevo 15.300 euro sul conto corrente: ne bastavano 15.250 come anticipo. Più 36 rate mensili da 299 euro. Il prezzo complessivo era conveniente, 53.420 inclusa IVA… Purtroppo l’IPT e il PFU no, quelli erano a mio carico e ho dovuto pagarle, anche se non ho la minima idea di cosa siano.
…Tuttavia, dai, mi sono rimasti persino 50 euro sul conto!
Ovviamente non vado a lavorare con la mia super macchina… Un po’ perché beve come una spugna e poi, via, lo diceva anche la pubblicità che, …Lotus Elise è l’auto giusta per chi cerca un’esperienza di guida emozionante soprattutto in pista.
In pista… È forse una pista questa strada? No, per niente. Quindi… penso osservando la macchina di un imbecille che nel mattino bolognese lascia buona parte delle gomme sull’asfalto cittadino.
Ho fatto bene a mettere su il giubbotto di jeans: ieri sera è venuto giù uno scroscio d’acqua inatteso; è durato poco ma ha avuto l’effetto di una gigantesca secchiata d’acqua gelata. Nell’aria è ancora sospeso il fresco che ha lasciato. Comunque il sole è già in movimento: tra meno di un’ora – se me andassi a bighellonare in giro – sarei costretto a sfilarmelo. Ma il rischio del vagabondaggio non c’è: mi aspetta il lavoro.
Cerco di scorgere nella strada il muso del 36. Mancano 5 minuti alle 7. Ormai ci siamo. Fra 4 minuti esatti dovrebbe giungere alla fermata di via Degli Orti. Che poi, me lo sono sempre chiesto, ma a chi viene in mente di scrivere sulla tabella delle corse, orari così balzani?
Alle 6.59…!
Ma scrivete pure 7.
Per favore.
Il genere umano si è fissato con la precisione: una qualità che non esiste. Nemmeno nei viaggi interplanetari. Sarebbe auspicabile che tutto funzionasse al 100% ovviamente, ma l’imprevisto è sempre lì, nascosto dietro l’angolo.
Facciamocene una ragione.
…Come il Covid-19, chi se lo aspettava 24 anni fa?
Nessuno.
Trump, il presidente americano di allora, liquidò la faccenda come isteria collettiva.
Persino la civilissima Svezia continuò a frequentare i bar come se niente fosse.
Comunque, il Bellaria in quel frangente fu la prima struttura ASL di Bologna, a essere convertita in qualcosa di diverso e di imprevisto. I media lo definirono ‘Ospedale Covid-19’.
È in quel tempo squillante di sirene di ambulanze che iniziò a maturare in me la passione per una professione medica.
Oggi sono un virologo.
Sono figlio di quella stagione d’ansia.
Tutti quei medici sparati a tutte le ore nei telegiornali e nei programmi più disparati – e disperati! – hanno incoraggiato alcune generazioni di ragazzi in cerca di un imput morale e professionale, ad avvicinarsi alla Medicina.
Ebbi eroi difficilmente riscontrabili in epoche precedenti; titolari di una professione della quale, fino ad allora, la stragrande maggioranza degli italiani ne ignorava pure l'esistenza. I media e le persone si aggrapparono a essi – ai virologi, agli epidemiologi – sempre più forte. Fra le ‘superstar’ della categoria ricordo ancora i nomi che echeggiavano da una TV all’altra, Burioni, Ilaria Capua, Massimo Galli e altri.
Così eccomi qui, con la mia brioche appena presa dal piccolo forno all’angolo, pronto a salire sul… Ah, eccolo che arriva.
Siamo in 4 a muoverci.
Una ragazza ha l’aria da ‘recluta’, sì insomma, come se debba iniziare a lavorare da qualche parte proprio oggi. Conosco bene o quasi le facce di tutti quelli che vengono ad aspettare il bus alla mia fermata. Lei non l’ho mai vista. Deve amare molto la radio – con la musica che si spara attraverso l’auricolare rosso dal cellulare – si è già esibita con i suoi impercettibili mini balletti.
Sarà una ragioniera pronta per la sua prima giornata d’ufficio?
Oppure…
Boh!
Il suo viso è solare e dolce. Ho l’impressione che si aspetti il giusto dalla vita. niente di più, niente di meno. Una gran qualità. Per lei stessa e per gli altri. I suoi capelli lunghi e a grosse onde le incorniciano le gote che… Ooops… l’ho osservata – senza volere! – qualche secondo di più di quanto sia accettato dal codice non scritto degli sguardi. Arrossisce, ma il vago gusto di fragola che le si sparpaglia sul viso le sta bene.
…Le chiedo scusa o…
Lascio perdere, a volte è meglio ‘o…’.
Intanto, a fianco della cabina rossa della fermata, alcuni aghi di pino si sono spinti fin qui dal vicino parco Lunetta Gamberini.
Una leggera folata li fa sobbalzare insieme a un leggero bicchiere di plastica rosa: probabile testimone del compleanno di una bambina che ha offerto aranciata all’aperto e, in un secondo tempo, sfuggito dal cestino portarifiuti che sonnecchia all’ombra dell’albero vicino all’uscita del parco comunale.
Sono il terzo a salire, l’ultima è la ragazza con le fragole sulle gote.
Salgo.
Passo l’abbonamento sul lettore giallo dell’autobus comunale. Mi siedo. A fianco di uno sconosciuto. A pochi centimetri.
A pochi centimetri…!
24 anni fa era impensabile pronunciare la frase, A pochi centimetri
: la misura di lunghezza accettata per avvicinarsi a un proprio simile era minimo un metro. In molte farmacie e supermercati, sul pavimento, erano disegnate delle frecce doppie accompagnate dalla scritta un metro.
Avevamo dovuto adottare come password dell’esistenza – per forza! – il titolo di quel vecchio film con Cole Sprouse e Haley Lu Richardson, A un metro da te.
Di quel periodo mi resta l’imput verso una laurea in medicina con specializzazione in Microbiologia e Virologia e – soprattutto – una storia personale che raramente racconto a qualcuno.
E delle parole,
…Si arriva sulla Terra sperando che la colonna sonora della propria vita sia il battito d’ali di un angelo, poi però bisogna ripiegare sul rumore del vento che soffia fuori dalla finestra: ma è bello lo stesso perché è comunque il suono della vita.
…così terminava la lettera che mi scrisse Stella.
Il roditore abbandonato
Il roditore abbandonato nel piccolo viale attirò l’attenzione di mio padre.
Un gatto passò vicino a quegli occhietti di tenebra senza degnarli di attenzione. Nel terzo millennio i felini domestici non mangiano più topi, fanno la spesa nei supermercati e stanno attenti alla composizione dei loro croccantini: essi devono contenere fino al 45% di carne, il 30% di carboidrati e il resto verdure.
«Guarda, sarà morto per il freddo di gennaio» commentò mio padre.
Io cercai faticosamente di dirigere gli occhiali al terreno ma, pur ormai con il sole invernale alto, dovetti abbassarmi di molto per distinguerlo sul pavimento del viottolo che conduceva alla nostra casetta di campagna.
Non perché fosse particolarmente piccolo, ma a causa della mia stramaledetta vista a corto raggio.
Anzi, avrei dovuto ‘vederlo’ (…una parola!) prima io quel topo di campagna abbandonato: il molliccio della carcassa del piccolo animale, si era scontrato contro le suole delle mie scarpe mentre cercavo di uscire dalla macchina, diretto verso l’ombra della porta che mi aspettava 20 metri più avanti nel vialetto.
Ma avevo pensato a un oggetto gommoso abbandonato nella stradina.
«Papà, non sarà mica stato attaccato dal virus dei cinesi?» commentai ripensando a tutto il chiasso che facevano i giornalisti nelle dirette con Giovanna Botteri, di stanza in Cina.
«Per quale motivo il virus della seconda potenza economica del mondo, si sarebbe scomodato per un topino del genere?» chiese allegro lui mentre lanciava lo sguardo verso la sommità dei pini.
Questi, in fondo al viale, si muovevano leggeri e facevano ombra sull’ingresso della vecchia casa rurale.
«Papà, hai presente La peste di Albert Camus?» chiesi abbandonando al suo destino il piccolo cadavere e tirandomi su.
«Okay, intendi il romanzo pubblicato negli anni ‘50…» fece lui dopo una breve esitazione.
«No, nel 1947…»
«Be’, ci sono andato vicino: l’ho letto un bel po’ di anni fa, ormai…» disse quasi complimentandosi con se stesso.
«Comunque, come ricorderai lì tutto parte con decine di topi insanguinati e morti.»
«Quindi?»
«Non so, ma ho come l’impressione che in giro possa scatenarsi qualche nuovo flagello, e magari i topi ne sanno qualcosa…»
Feci una pausa.
«Continua» mi incoraggiò lui.
«…Insomma, speriamo che questa storia del nuovo coronavirus sia solo rumore mediatico: non oso pensare all’impatto che potrebbe avere sulla società!»
Mio padre mi guardò con le braccia incrociate.
Fiutò l’aria come a sentire se ciò che dicevo potesse avere un minimo di appiglio alla realtà.
Be’, almeno a me sembrò così.
Un corvo invernale lanciò nell’aria il suo verso.
«…Dunque, intanto la peste è un batterio e il coronavirus è un… Be’, lo dice il termine stesso che è un virus. Pertanto lo scenario che stai fantasticando con un esercito di topi a pancia in aria, non ha molte possibilità per manifestarsi, ti pare?» chiarì lui.
«Dai papà, so distinguere un batterio da un virus, quello che cercavo di dire è che…» commentai comprendendo che cercava di rassicurarmi.
«Ma lo so bene a cosa ti riferivi… Ho distinto le due cause solo per tranquillizzarti. Stiamo calmi, dai» concluse lanciando un piccolo pezzo di legno nel campo.
Poi si mosse, diretto verso l’entrata.
Il pavimento del viottolo era grigio di alcune foglie di ulivo e rametti, ed era costeggiato dai due