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Abbiamo iniziato bene "abbuonu accuminciammu"
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Abbiamo iniziato bene "abbuonu accuminciammu"

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About this ebook

Dentro la Palermo degli anni 80 i rapporti di amicizia tra tre ragazzi coetanei, appartenenti a tre ceti sociali diversi, si mescolano con le realtà tutt'oggi attuali. I protagonisti si confronteranno con sentimenti contrastanti in cui l'amicizia, l'amore e la famiglia portano alla luce le problematiche comuni dell'adolescenza che subentra all'infanzia. Le descrizioni degli ambienti e la storia, strizzano l'occhio ad un vasto pubblico che viene coinvolto in una lettura semplice ed esplicita per lo più comica ed ironica portando alla luce problematiche sociali quali povertà e criminalità organizzata.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJan 17, 2020
ISBN9788831648684
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    Abbiamo iniziato bene "abbuonu accuminciammu" - Alessandro Sarra Fiore

    accuminciammu»

    L'inizio

    Palermo 25.07.1972 ore 19.30, le strade della città erano piene d'acqua, la pioggia cadeva senza tregua ed il traffico era bloccato. Una Fiat 127 bianca sostava nelle vicinanze di un palazzo storico del centro ed un’insegna luminosa recante la scritta (Clinica Candela) si rifletteva in una pozzanghera. In una delle sale della clinica, intorno al tavolo operatorio un’equipe di medici era intenta a farmi nascere. Il parto non fu dei più semplici, infatti il cordone ombelicale intorno al collo mi avrebbe soffocato, ma la voglia di vivere e la competenza dei dottori ebbe la meglio e venni al mondo. Ancora non conoscevo la mia famiglia ma l'inizio non fu idilliaco, mio padre, un graduato dell'Arma dei Carabinieri, vide uscire dalla sala operatoria una culla con all'interno un bel bambino biondo con il colore della carne roseo, ed emozionato chiamò il cognato Giuseppe, detto Pino, al vetro divisorio della nursery, dicendo: Tale' Pino quant' è beddu, sciaquatunazzu comu so patre e lo zio insieme ad altri parenti non potevano che ammirare questa meraviglia della natura. Proprio in quell'istante la porta della sala operatoria si aprì nuovamente, ed un’infermiera fece il suo ingresso spingendo un’ altra culla.

    All'interno del piccolo lettino giaceva un bimbo di carnato scuro, con un viso sofferente quasi incazzato. La culla del nuovo arrivato fu posizionata vicino a quella del bimbo meraviglioso. A questo punto venne spontaneo fare il paragone fra i due neonati, così mio padre indicando il bimbo più sofferente proferì testuali parole: Minchia che lariu pari nisciuto fora da na canna fumaria, matri mia appena u virunu, tu maggini u scantu. Lo zio con i parenti, immaginando la scena, si fece delle grasse risate. Dopo qualche istante vennero attaccate alle culle le etichette con i nomi ed i cognomi dei neonati, su quella del bimbo stupendo c'era scritto Alessandro ed anche su quella dell'altro vi era lo stesso nome. Nel momento in cui misero anche il cognome l'infermiera, vedendo tutta l'agitazione dei miei parenti dall'altra parte, bussò sul vetro divisorio e chiese: Pellegrino? e papà rispose: Che ha detto? e la donna sorridendo riformulò la domanda: Lei si chiama Pellegrino? a questo punto mio padre rispose: Sì, perché? e l'infermiera, ponendo l'etichetta col cognome sul lettino del bimbo di colore scuro, disse con un sorriso enorme: Congratulazioni. È stato in quel momento che immagino nella mia piccola testolina, si fosse creato il primo pensiero Abbuono accuminciammu.

    Dopo un paio di giorni di degenza io e la mamma fummo dimessi dalla clinica. L'arrivo nel quartiere fu festoso e divertente. I miei genitori avevano comperato un appartamento all'interno di un palazzo di 5 piani, collocato dentro il quartiere La Cittadella della periferia. Nel condominio tutti si conoscevano e quindi, un po' per curiosità ma anche per il lieto evento, vennero a farmi visita.

    Gli anni passarono velocemente ed io crebbi circondato dagli affetti dei miei genitori, dei nonni e dello zio Pino.

    Lo zio Pino era uno scapolo impenitente che ovunque andava mi voleva al suo fianco, mi usava per conoscere le ragazze giocando con la sensibilità femminile sfruttando il mio dolce visino, ma era una continua festa contornata da gelati, caramelle e giostre, che dire… una pacchia! Quando lo zio vedeva una minigonna indossata da una bella ragazza con capelli lunghi fino al fondo schiena, mi

    mandava all'attacco con una frase di approccio che non aveva mai fallito: Ciao bella cocca, che fai questa sera? che, detta da un bimbo di tre anni e mezzo, suscitava nelle giovani donne tenerezza ed ilarità. Dopo tale prassi si avvicinava lui e con fare indifferente e da gatto sornione mi rimproverava dicendo che mi stava cercando da un po' e che lo avevo fatto preoccupare. Nessuna riusciva a resistere all'affetto che uno zio preoccupato provava per un nipotino a cui faceva da padre. Il compenso per tutta questa commedia si tramutava in giri sulle giostre del Foro Italico, famoso lungomare palermitano, ed in bastoncini di zucchero filato. La festa venne interrotta al mio quarto anno di vita, tempo in cui mio padre rientrò a casa dopo essere stato via due anni per frequentare la Scuola Sottufficiali dell'Arma dei Carabinieri.

    Papà si accorse dei miei continui capricci e della presenza del cognato che, pur non lavorando, con i soldi dei nonni me le accordava tutte. Quindi decise di prendere in mano le redini della famiglia. Per prima cosa riuscì a trovare un posto di lavoro allo zio in una fabbrica che aveva aperto da poco tempo vicino casa ed a forza di urla e sberle mi diede una educazione.

    Ricordo che la musica riempiva la mia casa sia attraverso la radio sia con la televisione e che mio nonno materno, Antonino detto Nino, lavorava presso l'azienda locale dei trasporti come bigliettaio, era sovente portarmi con lui sugli autobus della città che giravano anche per i paesi limitrofi.

    Durante queste escursioni, per farmi sorridere e rendere più piacevole il viaggio, cantava le canzoni del suo tempo, le sue preferite erano Parlami d'amore Mariù ed un'altra di cui ricordo solo una frase …e le mie mani le butto via. Quando rientravo a casa prendevo alcune pentole di mia madre e le sistemavo sul balcone insieme ad una bacinella di plastica usata per raccogliere i panni sporchi, con un mestolo di legno percuotevo le stoviglie ed il recipiente immaginando di avere una batteria ed accompagnavo il frastuono con la mia voce intonando le canzoni del nonno. Nel balcone accanto al mio, ma al piano inferiore, il signor Pizzuto Gaetano, cinquantenne arzillo dal fisico magro e completamente calvo, nelle belle giornate si metteva seduto senza camicia a prendere il sole sulla sedia a sdraio.

    A lui tutta quella confusione non piaceva e più volte mi intimava di smetterla dicendo: A finemu cu tutta sta batteria, mi sta venennu u mal di testa. Un giorno mentre stavo facendo un assolo sulle stoviglie con il mio mestolo, quest'ultimo scivolando dalla mano volò via e percorrendo una traiettoria parabolica colpì il signor Pizzuto con precisione millimetrica e matematica sulla testa. L'urlo agghiacciante fu immediato e l'uomo iniziò ad invocare tutti gli angeli ed i santi del paradiso: Bedda matri, miii chi duluri, cu fu stu assassinu Accorgendosi della mia presenza sul terrazzo e brandendo minacciosamente il mestolo disse: A fusti tu disgraziato ora acchianu e parru cu to mamma, ta insignu iu l'educazione. Avendo assaggiato altre volte le mani della mia dolce mamma subito pensai ad un rifugio sicuro dove nascondermi, che nella mia testa infantile si trovava sotto il letto della camera, luogo in cui inesorabilmente venivo trovato e percosso sonoramente.

    La scuola

    Il tempo si faceva strada percorrendo i mesi le stagioni e gli anni ed io iniziai il mio percorso scolastico. Era difficile essere accettato dai miei compagni che oltretutto non vedevano di buon occhio il figlio di un carabiniere. Frequentavo il primo anno della scuola media Cesareo, avevo 11 anni, l'anno scolastico era iniziato da alcuni mesi ed io ero preso di mira dai bulli dell'Istituto. Quelli che mi infastidivano e che tormentavano anche gli altri alunni erano: Moreno Gambino, un ragazzino di corporatura longilinea ed atletica, con un viso allungato pieno di lentiggini ed i capelli biondi, e due suoi amichetti Giovanni Storti e Giuseppe Abbate, rispettivamente uno con gli occhiali da vista, capelli ricci, viso grasso e braccia possenti e l'altro invece magro e basso con un naso schiacciato sul volto e degli occhi che esprimevano rabbia e violenza. Appena arrivavo all'ingresso principale ogni mattina avveniva sempre il solito rituale. Si avvicinavano tutti e tre e Moreno che si atteggiava a piccolo capo iniziava a sfottere: Miii talè cu c'è u figghiu du sbirru. U sai che to patri fa un travagghiu di merda, sulu un fighhiu come te poteva avere un figghiu di merda. Mentre lui mi trattava in questo modo, gli altri due rovistavano dentro la mia cartella fregandomi la merenda. Nessuno provava ad intromettersi, prima di tutto perché era stato insegnato loro a farsi gli affari propri e di non immischiarsi nelle altrui faccende e secondo perché giravano delle storie sul trio, nelle quali i loro genitori erano in carcere perché facevano parte di una cosca mafiosa e non avevano problemi a sporcarsi le mani di sangue.

    L'imbarazzo e la vergogna a cui giornalmente ero sottoposto mi fecero ricordare gli insegnamenti di mio padre che, dall'alto della sua esperienza di militare navigato e uomo di mondo, mi diceva sempre: Ricorda, figlio mio, se a qualcuno fai vedere che hai paura sei fottuto. Impara ad affrontare le tue paure per diventare forte, ma devi farlo usando sempre u ciriveddu, senno nun'è coraggio ma coglionaggine.

    Fu così che iniziai ad escogitare un piano per difendermi dalle continue prepotenze dei tre piccoli delinquenti. Quando i tre mi sfottevano, facendomi fare delle ricche figure di merda con gli altri compagni, percepivo uno sguardo compassionevole e per nulla divertito dalla scena che si stava svolgendo. Quella espressione e quegli occhi appartenevano a Sabrina, compagna di classe per la quale provavo una forte e delicata attrazione. Lei era seduta al primo banco ed era una bella ragazzina con capelli lunghi mossi, occhi di un azzurro brillante ed un viso dai lineamenti gentili che si chiudevano su un sorriso che illuminava i miei giorni in quella classe buia. Io invece ero un bambino di corporatura robusta, con occhi marroni e capelli corti, insomma un tipo nella media. Per cercare di uscire da quella situazione che feriva nel profondo il mio orgoglio, convinsi papà ad iscrivermi in una palestra di arti marziali. Così mio padre mi fece conoscere il maresciallo Zappalà Carmine, maestro di difesa personale e di scherma del Gruppo Sportivo Carabinieri, che insegnava all'interno della caserma del Nucleo Carabinieri Cinofili di Palermo Villagrazia.

    Il maestro era di corporatura robusta con un viso rotondo e degli occhi neri penetranti sovrastati da folte ciglia scure, la sua voce era acuta e chiara, il mento aveva una fossetta nel centro e donava al volto un'espressione simpatica alla Lino Banfi. L'uomo forse non aveva capito che ero venuto da lui per imparare a difendermi perché, invece di insegnarmi qualche mossa che mi potesse essere utile contro le angherie che subivo, iniziò ad insegnarmi con una certa severità le posizioni della guardia e dell'attacco della scherma, che sicuramente è un nobile sport, ma di cui non vedevo l'utilità in quel particolare momento della mia vita. Era il tempo dei cartoni animati giapponesi e del primo canale televisivo creato appositamente per i bambini (Junior TV), dove venivano trasmessi a ciclo continuo dalle tre del pomeriggio fino alle otto della sera. Io ero affascinato da questi eroi, per lo più con passati drammatici, che con le loro acrobazie e con spettacolari combattimenti a mani nude mettevano fuori uso i contendenti, liberando vittime ed a volte intere popolazioni dai soprusi. Così ogni volta che vedevo episodi di Judo Boy, Sasuke e Ken il Guerriero mi immedesimavo nei protagonisti e provavo le loro mosse su mio fratello minore Massimiliano che divertito acconsentiva a quelle pratiche, anche se provocavano danni di ogni genere in casa di cui pagavo solo io le spese, perché lui era piccolo ed io dovevo essere responsabile del suo comportamento.

    Dopo l'ennesima lezione di fioretto tenuta dal maestro Zappalà, in cui immancabilmente sbagliavo la posizione delle gambe sulla pedana e durante la quale per insegnarmi la postura corretta egli usava colpirmi con la sciabola all'interno o all'esterno coscia, provocando delle discrete fitte di dolore, sbottai

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