Il cuore non dimentica il dolore
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Metamorfosi dopo metamorfosi, ci mostra che è possibile “lasciar andare”, tenere stretto solo ciò che davvero ha valore e avere cura delle proprie cicatrici senza restarne schiavi, perché solo il dolore riconosciuto apre il cuore alla vita.
Cristina Missaglia è nata e vive a Milano.
Ha attraversato dolori e professioni, studio e malattia, per ritrovarsi oggi maestra, mamma, moglie, reduce dal cancro, amante del ballo: semplicemente, in fondo, donna.
Una donna che ha imparato dai suoi mille dolori l’arte rara e preziosa di coltivare uno sguardo ironico e una profondità leggera.
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Il cuore non dimentica il dolore - Cristina Missaglia
Cristina Missaglia
Il cuore non dimentica il dolore
Albatros
Nuove Voci
Ebook
© 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma
www.gruppoalbatros.com
ISBN 978-88-306-2175-6
I edizione elettronica aprile 2020
La vita non procede in ordine cronologico. La vita procede per trasformazioni, per metamorfosi che succedono e si succedono e, succedendo, ci mettono allo specchio per scoprirci un po’ nuovi, un po’ diversi.
Molte di queste metamorfosi ci trasformano col pretesto di lutti, dolori, malattie: imparare che questo non rende la vita una cosa triste
o vuota
è forse la trasformazione più importante e preziosa di tutte!
Questa è la storia di una donna e delle sue quattro metamorfosi: una storia normale e straordinaria così come è normale il dolore e come è straordinario usarne la materia per impastarne volontà e speranza.
Prima Metamorfosi
• parte 1: la morte di mio padre;
• parte 2: due anni prima - sapere la malattia e fare scelte;
• parte 3: lavoro e lavori.
Seconda Metamorfosi
• parte 1: la nascita di mia figlia;
• parte 2: la mia famiglia di origine;
• parte 3: la mia famiglia nuova.
Terza Metamorfosi
• parte 1: la morte di mia sorella;
• parte 2: la mia vita con Sofia;
• parte 3: la morte di Sofia.
Quarta Metamorfosi
• parte 1: la mia malattia;
• parte 2: l’intervento;
• parte 3: oggi, mia figlia.
Prima Metamorfosi
Parte 1: la morte di mio padre
L’infanzia di mio padre fu senza padre: il nonno era deportato in un campo di concentramento e papà visse i suoi primi anni accompagnato dallo spettro della sua mancanza. Non era solo l’assenza di una presenza. Era peggio, era la presenza di una assenza: che lui non ci fosse si sentiva, si toccava, che lui fosse lontano, nell’indicibile, era un fatto che aveva concretezza quotidiana.
Poi il nonno tornò, ma quel rapporto intimo che si costruisce nei primi anni non lo recuperarono più. Non si può, non c’è surrogato alle coccole di infante.
Eppure, il nonno sarebbe tornato a essere presenza per mio papà nel momento più terribile: al suo capezzale, ad accompagnare suo figlio alla morte, il più innaturale dei gesti. Era il cinque maggio del 1988, alle otto di sera.
Era stato operato di tumore allo stomaco due anni prima e ci avevano detto che avrebbe avuto massimo due anni di vita: che dire, avevano avuto ragione. Di fatto, aveva iniziato a stare male a febbraio. Il tumore aveva coinvolto il fegato e si era proceduto a un intervento ulteriore, un procedimento sperimentale che all’epoca si faceva in America e per il quale eravamo dovuti ricorrere alla sanità privata; in sostanza, si trattava di impiantargli una pompa che gli inoculasse la chemioterapia direttamente in loco, ma non era servito a nulla e il peggioramento era stato comunque repentino appena tornato a casa.
Lui non ne sapeva niente. Al momento del primo intervento, pensava di avere qualcosa alla colonna vertebrale perché non riusciva a camminare; poi, gli dicemmo che aveva un’infezione al fegato.
In ogni caso, a quel punto aveva coscienza che fossero i suoi ultimi giorni: avrei dovuto essere a Roma in gita di classe con i miei bambini, ma mi aveva chiesto di restare. Non era da lui una richiesta del genere. Era chiaro che mi volesse vicina nel momento della morte: non solo non ero partita, ma mi catapultavo da lui persino nelle pause pranzo per darmi il turno con mia mamma, mio nonno e mia sorella e stargli semplicemente accanto, seduti su una poltroncina vicino al letto.
Quella sera, quando accadde, lì c’era il nonno e noi tre donne ci stavamo mettendo a tavola per la cena. Donne, via: mia mamma aveva quarantacinque anni, io venti e Claudia quattordici. Oggi ci identificherebbero tutte e tre come giovani
. Non sarebbe strano per persone anche più adulte di mia madre coltivare un profilo social
ammiccante e cose così; invece, eravamo al cospetto del dolore più grande: papà che moriva.
Non gli avevamo mai parlato della sua malattia. Se ne andò senza saperne nulla: io avevo paura a dirgli la verità e forse lui aveva paura di sentirla.
In realtà, è una cosa su cui ancora mi arrovello. La verità per noi era un valore, e lo è ancora, ma continuo a pensare che in quelle condizioni tacergliela fosse la cosa giusta.
Intanto per cominciare, non volevo che passasse gli ultimi scampoli della sua vita a sistemare le cose per noi, a preparare la nostra vita senza di lui: aveva una società edile. Ci sarebbero state pratiche da sbrigare, quote da dividere, bilanci da approvare e, invece, io volevo fortemente che usasse quei due anni che gli restavano pensando a vivere e basta.
Questa è la ragione altruistica. La ragione egoistica (e ingenua, ma nel dolore chi non lo è?) è che in qualche modo io speravo che non saperlo lo aiutasse a guarire, come se la consapevolezza del tumore potesse essere un freno alla sua voglia di vincere, di farcela. Il medico di base era d’accordo, sperava pure lui che avesse un senso nel suo percorso di ripresa.
A posteriori, in realtà, non ebbe l’effetto sperato nessuna di queste buone intenzioni: per quello che riguarda la guarigione, beh, morì, non c’è molto da aggiungere e, per quel che riguarda l’azienda, poi, in effetti, il suo socio non si comportò benissimo; probabilmente, ci rubò persino dei soldi. Io lo affrontai augurandogli dolore e sofferenza in preda a una rabbia cieca, ancora più livida per la fiducia che mio padre nutriva in lui, per il rapporto che mi aveva legato a sua figlia… Beh, proprio sua figlia ebbe in seguito un cancro e lì ho cinicamente avuto la mia prima fiducia nel karma e la mia iniziazione alla eliminazione dalla mia vita di chiunque porti ferite a me o ai miei cari: la vita è troppo breve per concedere seconde possibilità a pioggia. Questa consapevolezza la morte di papà l’ha resa vivida e cristallina.
La morte di papà
Ancora, dopo tanti anni, non mi sono mica abituata a dirlo. Sembra una specie di evocazione. Basta nominarla e mi ritrovo catapultata lì, in quel giovedì, con la gatta che gli era stata attaccata tutto il giorno, accoccolata appresso alle sue gambe come non aveva mai fatto. Era come se lo sentisse: dicono che gli animali lo sentono. Io non lo so, ma era strano, questo è sicuro. E poi il panico. Io non ricordo bene che cosa feci, che cosa accadde, ricordo solo la sensazione di panico: che cosa si fa? Come ci si comporta? Quali sono i passi?
Io e Mauro non eravamo propriamente fidanzati
, ma ci frequentavamo da un paio d’anni e, visto che sua mamma aveva passato un’esperienza simile circa quattro anni prima, telefonai alla mia futura suocera per avere un consiglio pragmatico, operativo. Non solo mi indicò cosa fare (su tutto, chiamare il medico per l’accertamento legale del decesso: che impressione! Quando da morte
diventa decesso
, è ufficiale, è burocrazia, è pratiche da sbrigare
), ma venne di persona con Mauro per aiutarmi, per esempio a vestirlo prima del rigor mortis, prima che infilargli un abito volesse dire spaccargli le ossa.
E il dolore? Non ci accadde di esprimerlo, no. Si trasfigurò in una incombenza
e piangemmo in silenzio. Questo ricordo: il silenzio, una operosità allucinata, nel silenzio che non era ancora di tomba
.
A rompere questo silenzio, fu l’urlo di mia sorella Claudia. Fu un urlo terrificante, straziante, che sembrava strapparci la carne dal corpo. Aveva solo quattordici anni e anche lei, come papà, non aveva mai saputo niente: erano legatissimi, stravedeva per lui, molto più che per la mamma e, quindi, non poteva capire, figuriamoci accettare. Era arrivato nel frattempo anche il fratello di Mauro, il mio futuro cognato: fu lui a prendersene cura, ad abbracciarla e a consolarla; forse, avremmo dovuto farlo noi, ma non ce la facevamo, non ne fummo capaci. Forse, avremmo anche dovuto prepararla, ma in tutto questo percorso di dolore non l’avevamo fatto: mia mamma aveva quarantacinque anni, due figlie, nessun lavoro, stava rimanendo vedova. Come facevo a colpevolizzarla?
Le chiesi scusa anni dopo, quando, alla nascita di mia figlia, la depressione latente di mia mamma si scatenò, logorando i rapporti tra di noi, mettendoci una contro l’altra: non era giusto, non potevo sopportarlo; così, un giorno la chiamai per confrontarci e le raccontai tutto, di come avevo rinunciato ai miei vent’anni, di come mi ero presa cura di lei, di come mi ero premurata di parlare coi professori, insomma, di come tutta la sua fase di crescita me l’ero sobbarcata anche io.
Quando mia sorella capì, riuscii a fare pace con me stessa.
Il fatto è che c’è una narrazione del dolore come momento di crescita e condivisione e unione che è davvero fuorviante. Ogni dolore è un caso a sé e non puoi prevedere cosa ne farai o dove ti porterà: noi tre (mia mamma, Claudia ed io) ci trovammo ad affrontare quel lutto ciascuna per conto suo. La sofferenza non ci unì, ma ci ritrovammo ognuna da sola con se stessa. Stare in casa voleva dire soffrire, ritrovarsi faccia a faccia con i buchi, con le mancanze. La presenza di una assenza: era insopportabile e, infatti, per provare a sopportare, ciascuna dovette ingegnarsi da sé.
Ci riavvicinammo più tardi, tre anni dopo, in concomitanza con il mio matrimonio e, a dirla tutta, forse mi sposai così giovane proprio per cercare una via di fuga, per scappare da tutto questo.
Di papà non abbiamo più parlato, non ci siamo nemmeno mai dette «a te manca?». La presenza di una assenza, ancora, sempre.
Insomma, eravamo lì, con il cadavere di papà rivestito e ricomposto appena in tempo per evitare il rigor, ed arrivò il titolare delle pompe funebri con il contratto da firmare per il funerale: io lo so che sembra assurdo, ma impegnarsi negli adempimenti tecnici e burocratici, in quel momento, era un modo molto concreto per gestire l’impatto della morte di papà; poi, arrivò anche il medico e anche lui compilò i suoi moduli per la constatazione del decesso; anche lì il dolore era sopportabile, semplice assenza di una presenza.
Quando andarono via tutti, il vuoto e il silenzio mi lasciarono schiacciata e soffocata. Di colpo, era tutto irreale. Mi sembrava