Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Dynastia. Il Secondo Impero di Roma
Dynastia. Il Secondo Impero di Roma
Dynastia. Il Secondo Impero di Roma
Ebook547 pages6 hours

Dynastia. Il Secondo Impero di Roma

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

474 d.C. - Giulio Nepote approda in Italia, deponendo l'usurpatore Glicerio grazie al supporto di Costantinopoli
e diventando il legittimo augusto d'Occidente. Conscio del degrado che dovrà affrontare, si
ripromette di fare del suo meglio per risollevare le sorti di un impero allo sbando. Ma la realtà sarà
molto più complessa, e gli eventi avversi. Giulio dovrà combattere per la porpora, affrontando nemici
ai confini ma soprattutto entro di essi. E quando tutto precipiterà, non perderà comunque la speranza di
restaurare un giorno quello che è stato. Trasmettendo quello stesso sogno a chi verrà dopo di lui, e
ne farà la sua sola ragione di vita.  
LanguageItaliano
Release dateJun 4, 2020
ISBN9788835841487
Dynastia. Il Secondo Impero di Roma

Read more from Patrizio Corda

Related to Dynastia. Il Secondo Impero di Roma

Titles in the series (1)

View More

Related ebooks

European History For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for Dynastia. Il Secondo Impero di Roma

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Dynastia. Il Secondo Impero di Roma - Patrizio Corda

    Corda

    DYNASTIA

    IL SECONDO IMPERO DI ROMA

    Patrizio Corda

    A mia madre

    I

    Predizione di grandezza

    Salona, Dicembre 459 d.C.

    Se il Mare Adriatico fosse stato il firmamento, le isole adagiate sulle sue acque sarebbero state le sue stelle più fulgide. Era quello uno spettacolo sublime, di ineguagliabile e immota bellezza.

    La calma in quanto vedeva fece credere a Giulio Nepote che non sarebbe cambiato né finito mai. Al contrario, la sua giovinezza stava svanendo. Alla soglia dei trent’anni, il suo fisico pur vigoroso sembrava già avviarsi verso un inesorabile invecchiamento.

    I capelli biondi e ricci che aveva sempre portato con orgoglio iniziavano a diradarsi, costringendolo ora a tenerli corti.

    Il suo stesso volto, dalla pelle rosea e distesa, iniziava a indurirsi quasi non potesse né volesse più mostrarsi sereno e delicato.

    E il suo poderoso naso Greco non aiutava di certo.

    Guardò suo zio Marcellino, che contemplava quel paesaggio in piedi accanto a lui. Si chiese come potesse questi, alla sua età, essere ancora tanto possente ed energico.

    La provincia in cui vivevano, la Dalmazia, era di fatto cosa sua.

    Il suo valore militare gli era valso la nomina di comes per l’Illirico nonché quello – ufficioso, ma da tutti percepito come reale – di signore indiscusso di quelle terre.

    Prospere e animate da attività e commerci, a differenza di quel che si sentiva dire del resto dell’impero Romano d’Occidente.

    E così come la Dalmazia, Marcellino pareva a tutti gli effetti essere immune da tutto quel che era accaduto attorno a loro negli anni.

    Delle volte gli pareva una reliquia di tempi lontani, dei secoli in cui paradossalmente la promiscuità del culto aveva favorito i Romani nell’incredibile percorso che era valso loro il dominio su terre e popoli sino ad allora sconosciuti.

    Non per nulla, proprio suo zio era dichiaratamente avverso a quel Cristianesimo che era ormai la sola religione riconosciuta nell’impero. Al punto che spesso, il Papa aveva conteso al Cesare di turno il primato per prestigio ed influenza.

    Marcellino non si era mai vergognato, tuttavia, di far presente a tutti in cosa credesse. Per lui le sole divinità accettabili erano quelle degli avi. E con quel suo fisico imponente, il viso squadrato e gli occhi piccoli ma penetranti, pareva proprio un antico Romano.

    Quando gli veniva fatta notare la crescente stempiatura – caratteristica che ora condividevano – lui sorrideva divertito e ricordava che anche il divo Giulio non ne era stato esente.

    Ma Giulio, a prescindere dalla sua esuberanza, era orgoglioso di lui. Così come lo era di suo padre Nepoziano, magister militiae sotto l’attuale augusto Maggioriano.

    Dopo diverso tempo passato in silenzio, però, Marcellino si voltò improvvisamente verso di lui.

    «Ho fatto un vaticinio, stanotte» disse gravemente.

    Giulio si girò di scatto verso lo zio. Ma questi era già tornato a scrutare il mare, accarezzato dalle sfumature rosate della sera.

    «Cosa cercavi?»

    «Chiarezza. In questi tempi, tutti ne abbiamo un grande bisogno. Ma ho ottenuto ben più di quanto speravo. Gli Dei mi hanno fatto una rivelazione».

    «E cosa ti avrebbero detto?» chiese Giulio cercando di non sembrare scettico. Non voleva irritarlo né offenderlo.

    «Un giovane a me vicino, un giorno, possiederà tutto questo e molto di più. E se devo ascoltare i miei istinti, penso proprio che quella persona sia tu ».

    Quell’affermazione enunciata pur solennemente strappò a Giulio un sorriso dal retrogusto amaro. Ne dubitava fortemente.

    Per quanto la sua famiglia fosse nobile e abbondasse di membri illustri, lui non aveva mai ricoperto ruoli di rilievo.

    Tutt’al più, era stato un modesto assistente proprio per il padre e suo zio. Come poteva allora credere a una previsione simile?

    «So a cosa pensi» disse Marcellino. «Ma il tuo tempo verrà. La storia ci insegna che ascendere a una giovane età non garantisce un fato altrettanto benevolo. Pensa a quanti imperatori vestirono la porpora da ragazzi, per poi perderla atrocemente».

    Era vero. Lo zio era anche un appassionato di storia e filosofia, e spesso le loro conversazioni erano costellate di citazioni dotte.

    «Oltretutto, Giulio, l’epoca in cui viviamo è del tutto imprevedibile. Chiunque può diventare un uomo importante in qualsiasi momento. E spesso, le nomine non corrispondono al potere effettivo. L’impero brulica di individui oscuri ben più influenti di quanto crediamo. Anche in questo caso, potrei passare giorni a elencarti i Cesari che furono succubi dei loro cortigiani».

    «Non credo però che questo sia il caso, ora» obiettò Giulio. «L’augusto Maggioriano, per tua stessa ammissione, è un grandissimo uomo. Il migliore che potessimo avere».

    «Assolutamente» enfatizzò Marcellino. Tra lui e l’imperatore c’era una stima sincera e reciproca. «Appunto, Maggioriano è giunto al potere dopo un lungo percorso, affinando col tempo le sue conoscenze militari e amministrative. Dovresti quindi pensare a lui, quando dubiti di te stesso. Ma purtroppo, neanche lui è esente dai rischi insiti al potere che detiene».

    «Qualcuno potrebbe insidiarlo?»

    Marcellino scosse il capo sconsolato.

    «L’imperatore è un uomo d’altri tempi, un vero Romano. Ma ha davanti a sé un’impresa irrealizzabile. Non farti ingannare, Giulio, da ciò che vedi attorno a te. La Dalmazia è un’oasi, una delle poche parti sane di quel corpo incancrenito che è l’Occidente. Altrove, dall’Italia alla Gallia, non vi è che decadenza. L’impero è in miseria, strangolato dalla corruzione e da una burocrazia che impedisce anche agli uomini di buona volontà, come Maggioriano, di cambiare le cose. Credimi, voglio davvero bene al Cesare, ma ho la sensazione che non regnerà a lungo».

    Una prospettiva agghiacciante. In tanti riponevano in lui le speranze di una progressiva rinascita dell’Occidente.

    «I nemici sono ovunque, nipote mio. E non sto solamente parlando delle miriadi di tribù barbare che premono ai confini o che ci hanno già sottratto terre e ricchezze. Chi ci insidia spesso siede alla stessa mensa con noi, nascondendo con maestria le sue vere intenzioni. Pensa al Senato, a chi si è arricchito gettando nella miseria gli umili, o anche ai mercenari barbari che abbiamo dovuto assoldare per via del disinteresse dei Romani a difendere ciò che è loro. Nel mondo in cui viviamo, anche un vile come Ricimero è riuscito a ritagliarsi un ruolo prominente».

    Aveva già sentito quel nome.

    Ricimero era l’attuale patrizio d’Occidente, la più alta carica militare esistente. Egli era per metà Svevo e per l’altra Visigoto, e aveva condiviso proprio con Maggioriano il suo percorso militare.

    In molti speculavano che ambisse a manovrare l’augusto, pur trovando difficoltà a limitare la sua indipendenza di pensiero e la sua determinazione a voler risanare quanto aveva ereditato.

    A tutti gli effetti, questi rappresentava una concreta minaccia di cui Marcellino aveva già parlato all’imperatore.

    Purtroppo, ricevendo ben poco ascolto.

    «Stai descrivendo un Occidente allo sfascio» disse Giulio.

    «Non lo è, forse? Magari mi sbaglio, e Maggioriano riconquisterà quanto perduto. Ma credimi, mi è difficile pensarlo».

    «Potrebbe essere lui la persona a cui pensi».

    «Tutto è possibile, ragazzo mio. Mi piace però pensare a un futuro luminoso per te. Anche se allo stato attuale, mi vien difficile anche solo pensare a un avvenire per tutti noi».

    Giulio a quel punto non disse più niente.

    Ormai sapeva riconoscere quando Marcellino non intendeva più avventurarsi in certi discorsi. Ma c’era anche un’altra ragione.

    Se davvero quello era il futuro che li attendeva, avrebbe volentieri rinunciato a divenirne uno dei signori chiamati a regnarvi.

    Si augurò che lo zio si fosse sbagliato.

    E che gli Dei che gli avevano parlato avessero in verità rivolto le loro attenzioni su un altro uomo.

    II

    La perla dell‘Occidente

    Salona, Dicembre 459 d.C.

    Dopo quella giornata trascorsa a camminare per Salona, a Giulio sembrò ancora più difficile accettare le parole pronunciate da Marcellino qualche giorno prima. Come ogni giorno aveva ammirato una città splendida, il cuore pulsante di una provincia ricchissima e il cui benessere non appariva a repentaglio.

    Strade e piazze erano pulite, ordinate e brulicanti di gente, oltre che debitamente pattugliate dai soldati. Sotto i portici attività di ogni tipo animavano l’atmosfera, diffondendo richiami gioiosi, aromi e i colori più disparati.

    Era impossibile non concepire la vita in Dalmazia come splendida e godibile anche se racconti lugubri di un mondo in rovina penetravano dall’esterno, portati da chi solcava l’Adriatico.

    Giulio si perse a osservare il tramonto. Non vedeva l’ora di ritornare alla propria residenza per leggere i diversi manoscritti che aveva acquistato quel giorno.

    «Signore, per favore. Lasciate che vi aiuti!»

    Si voltò sorridente. Elio era lì, pochi passi dietro di lui, che ansimava mentre cercava di affiancarlo.

    Voleva bene al suo servo prediletto. Di fatti, questi l’aveva cresciuto. Suo padre Nepoziano l’aveva preso con sé quasi venticinque anni prima, durante un’asta.

    Quell’uomo piccolo e curvo, senza un capello ma dal viso gioviale e paffuto si era ritrovato lì a causa delle sue disgrazie.

    Il suo lavoro da segretario non era stato sufficiente a pagare i debiti fatti per acquistare la propria casa, costringendolo a rivolgersi ad aguzzini che avevano peggiorato la sua situazione. Prima di vendere i propri figli, come purtroppo solevano fare in tanti di quei tempi, aveva preferito offrire sé stesso.

    Nepoziano era stato mosso a compassione da tanto coraggio e l’aveva così salvato. Nei lunghi periodi in cui questi era stato lontano da casa, impegnato in campagne e perlustrazioni, Elio s’era preso cura del giovanissimo Giulio.

    E non sembrava voler smettere, neanche ora che era un adulto.

    Con un sorriso, decise di accontentarlo e gli porse i tomi.

    Ormai il loro non era più un rapporto tra servo e padrone: tenevano l’uno all’altro come membri della stessa famiglia.

    Anche suo padre, recentemente tornato in Dalmazia dopo una campagna in Gallia, si concesse un sorriso carico d’affetto.

    Proseguirono così verso casa.

    «Cosa pensi di quel che ha detto Marcellino?»

    Nepoziano guardò il figlio che attendeva il suo parere.

    «Tuo zio è un inguaribile pessimista. Spesso vede nemici e cospirazioni ovunque, probabilmente perché si sente a sua volta minacciato a causa delle sue scelte religiose. Ti posso però dire su cosa ha ragione: il valore del nostro augusto Maggioriano».

    E chi più di lui, che l’aveva servito e continuava a farlo, poteva farsi garante della sua idoneità?

    «Credimi, Giulio: il progetto di Maggioriano è realizzabile. Decenni, forse secoli di decisioni scellerate ci hanno condotti vicini al punto di non ritorno. Abbiamo perso quasi tutte le terre imperiali, dalla penisola Iberica all’Africa passando anche per ampie porzioni della Gallia. E non voglio pensare alla Britannia, ormai abbandonata a sé stessa da decenni. Ma pure senza risorse sufficienti e in totale solitudine, il Cesare mira a riprendersi tutto».

    «E come?»

    «Il futuro non posso prevederlo. Ma ti posso assicurare che la spedizione a cui ho preso parte e che ci ha permesso di scacciare i Visigoti da Arles è un’eccellente partenza. I barbari che ci opprimono presto proveranno lo stesso terrore dei loro avi nell’udire il nome di Roma».

    La crescente convinzione del padre nel parlare dell’imperatore finì per calmare Giulio. Aveva pensato a lungo alle frasi di Marcellino, e all’impero in miseria che egli aveva descritto. Ma Nepoziano aveva portato della luce in quello scenario così cupo.

    E questa luce era Giulio Valerio Maggioriano, Cesare d’Occidente.

    «A volte mi sembra che la Dalmazia sia fuori dal tempo, cieca e sorda a ciò che affligge chi per esempio vive in Italia» riprese Nepoziano. «Ma bada bene. Marcellino ha detto un’altra cosa giusta. Spesso i nemici non sono fuori dai confini, ma all’interno di essi».

    Giulio si girò verso di lui, notandone l’espressione pensosa.

    Non si accorse della sagoma che gli finì addosso, scaraventandolo a terra e portandolo a travolgere anche Elio.

    Sotto lo sguardo stupito del padre, Giulio si premurò della salute del suo servo prima di individuare chi l’avesse colpito.

    Si ritrovò davanti un giovane uomo in divisa militare.

    Ciò che lo incuriosì fu il fatto che questi non avesse minimamente i requisiti fisici per combattere. L’avrebbe detto un suo coetaneo, eppure pareva già vecchio. Quasi del tutto calvo a parte pochi capelli neri lungo le tempie, il suo volto era grottesco con un grande naso aquilino, la fronte sporgente e gli occhi minuscoli.

    Era pesantemente ingobbito, con braccia e gambe esili e senza la minima traccia di muscoli in alcuna parte del corpo. Si chiese chi avesse mai arruolato un soggetto del genere.

    Questi però riuscì a sbalordirlo ulteriormente, gettandosi goffamente a terra e cingendo le sue ginocchia.

    «Chiedo perdono, nobile signore!» piagnucolò senza il minimo ritegno. «Non intendevo colpirti! Ti prego, non fate menzione di me e di quel che ho fatto!»

    Trovò la sua voce nasale insopportabile.

    Giulio cercò il padre con lo sguardo. Nepoziano aveva però un’espressione a metà tra il divertito e il disgustato.

    Ma quel soldato non aveva ancora finito di supplicarlo.

    «Ti supplico, abbi pietà di me! Ti imploro, principe! »

    Quella parola lo riportò immediatamente a qualche giorno prima e alla premonizione di Marcellino.

    Fece per risollevare il malcapitato, ma vide una grande mano posarsi sul collo di quest’ultimo.

    Nepoziano.

    «Puoi andare, soldato. Non è successo niente».

    Questi, riconoscendo il generale che era famoso in tutta la Dalmazia, non parve credere a una simile grazia.

    Risollevandosi con incertezza sulle gambe tremanti, annuì nervosamente con un sorriso inebetito.

    «Grazie, nobile patrizio. Grazie di cuore».

    «Non sono il patrizio, e lo sai benissimo . Quindi evita simili piaggerie. D’accordo, Glicerio?»

    Quello scambio fece capire a Giulio che i due si conoscevano.

    Glicerio, avvampando per l’agitazione, si inchinò frettolosamente per poi dileguarsi. Non prima, però, di aver rivolto un lungo sguardo a Giulio. Che non ne capì la ragione.

    «Andiamo» intimò loro Nepoziano.

    «Padre, come mai conosci quell’uomo?» gli domandò Giulio mentre lo seguiva. Questi sembrava essersi improvvisamente rabbuiato, ma lui voleva comunque sapere.

    «Lo conosco perché purtroppo, anche volendo, non è del tutto possibile evitare che insorgano casi di corruzione e raccomandazione di individui indegni. E quel tale, Glicerio, è proprio l’esempio ideale di chi beneficia da simili storture del sistema. Pecche che mi auguro Maggioriano elimini una volta per tutte».

    Non disse nient’altro.

    Allora Giulio si voltò, cercando tra la gente quel soldato maldestro che aveva fatto scaturire in lui tanto astio.

    Non riuscì a trovarlo. .

    Pensò che probabilmente non l’avrebbe mai più rivisto.

    Ma anche che se mai si fossero incontrati di nuovo, avrebbe fatto bene a stargli alla larga.

    III

    Un onore inatteso

    Salona, Gennaio 460 d.C.

    Come al solito, ogni qual volta si ritrovava tra Marcellino e suo padre si sentiva un ragazzino che non aveva visto nulla del mondo. Quei due uomini tanto stimati e con alle spalle carriere straordinarie discutevano di qualsiasi cosa senza che Giulio potesse fare un solo intervento apprezzabile.

    Marcellino era appena tornato da un breve periodo trascorso in Sicilia su commissione di Maggioriano. L’isola, di fatti un viatico per la penisola Italiana, era stata spesso assaltata e occupata dai Vandali che avevano sottratto l’Africa all’impero vent’anni prima.

    Secondo i piani dell’augusto era prioritario debellare definitivamente quella minaccia, portata dal re barbaro Genserico. Un uomo che più e più volte aveva cercato anche di insinuarsi nelle dinamiche di successione a Roma, fino a quel momento senza successo.

    «Dunque Maggioriano è in Liguria» disse Marcellino.

    «Esatto» gli rispose Nepoziano sorseggiando del vino. «Ha deciso di stazionare lì per un po’, e di reclutare quanti più uomini possibile così da recuperare i territori perduti nella penisola Iberica per mano di Svevi e Suebi. Il resto lo sai già, no?»

    Marcellino allora si voltò verso Giulio, con l’aria divertita di chi stava per concedersi il lusso di rivelare qualcosa di segreto.

    «Sappi, figliolo, che presto il barbaro Genserico avrà quel che si merita. L’esercito che l’augusto condurrà fino in Hispania lo renderà solo un brutto ricordo. Dobbiamo solo attendere che la grande flotta sia pronta».

    «Quale flotta?» domandò Giulio incuriosito.

    «Quella che raccoglierà proprio lì, per poi farla salpare verso l’Africa. Nel frattempo, anche io vi andrò ma partendo dalla Sicilia».

    «Una manovra volta ad intrappolare i Vandali?»

    «Proprio così» gli confermò Marcellino con soddisfazione.

    Giulio annuì, riflettendo su quanti sforzi doveva aver fatto Maggioriano per trovare i soldi necessari a rimettere in funzione i porti e le professionalità utili a costruire le navi.

    A quanto sapeva, le casse imperiali languivano a differenza del benessere che conoscevano loro in Dalmazia. Ma un altro dubbio lo colse, portandolo a chiedere risposte.

    «…ma quale esercito intende formare? Voglio dire, da chi sarebbe composto?»

    A quel punto fu suo padre a prendere parola.

    «Questo è il problema. Purtroppo i Romani sono diventati pigri, molli e deboli. Secoli di vittorie li hanno resi impreparati a momenti duri come questo, convincendoli di poter oziare beatamente nelle loro dimore senza pagarne le conseguenze. Nessuno di loro vuole combattere per l’impero. E questo accade persino tra i miseri! L’esercito prima sfamava migliaia di persone, mentre oggi tutti si sottraggono alla sua chiamata».

    «Va da sé che l’armata imperiale sarà quasi totalmente composta da mercenari barbari» aggiunse Marcellino.

    «Ma quale lealtà ci si può attendere da costoro?» chiese Giulio sconcertato. Per lui erano più un rischio che una risorsa.

    «Nel momento in cui i Romani stessi voltano le spalle al loro augusto, questo è un discorso irrilevante» intervenne ancora Nepoziano. «Di fatto, i soli soldati che si possano considerare Romani in quell’esercito saranno quelli che condurrò personalmente al cospetto dell’augusto».

    Giulio rimase in silenzio. Poi, ripetendo quelle parole nella sua mente per poco non cadde dalla sedia.

    Suo padre sarebbe partito?

    Davanti al suo sguardo inquisitore, Nepoziano annuì.

    «Sì, Giulio. Anche io sono stato chiamato a prendere parte a questa grande campagna. La mia presenza è fondamentale».

    «Anche perché con tuo padre operativo, non ci sarà bisogno che Maggioriano si porti appresso Ricimero. Che quel lurido barbaro se ne resti a Roma a fare la muffa con le sue guardie» rincarò la dose Marcellino.

    Era quella una novità che certamente Giulio non si aspettava.

    Forte anche dei coriacei soldati Dalmati del padre, Maggioriano avrebbe avuto maggiori possibilità di riuscire in quell’impresa disperata per risollevare le sorti dell’Occidente.

    Al contempo si sarebbe tenuto lontano da Ricimero, il suo generale più potente ma anche il più indecifrabile e quindi pericoloso. Sembrava tutto calcolato nei minimi dettagli.

    Fosse riuscito a restituire a Roma l’Africa, che da sempre ne era il maggior granaio, l’impero avrebbe ripreso a respirare.

    Denaro fresco e rifornimenti fissi avrebbero dato nuova linfa a quel regno morente, gettando le basi per un’incredibile rinascita.

    Quelle riflessioni fecero sentire bene Giulio, pur sapendo di non essere minimamente coinvolto in ciò che stava per accadere.

    Scostando lo sguardo dal tavolo, però, incontrò quello del padre.

    Nepoziano lo stava scrutando da chissà quanto tempo, con la mano che reggeva la coppa a mezz’aria.

    Voleva dirgli qualcosa. Era evidente.

    «Partirò» disse continuando a fissarlo. «Ma nel momento in cui ho conosciuto il mio incarico, ho posto una condizione al mio imperatore. O meglio, gli ho chiesto una cortesia».

    «Cosa vorresti dire?» chiese Giulio quasi con ingenuità.

    Con la coda dell’occhio, si accorse però che Marcellino stava cercando di trattenere uno dei suoi larghi sorrisi.

    C’era qualcosa sotto di cui lui era all’oscuro.

    «Ho chiesto a Maggioriano di poter finalmente introdurre mio figlio alle circostanze nelle quali viene deciso il fato dell’impero. E lui mi ha dato il suo assenso».

    A quel punto Giulio si guardò attorno spaesato.

    Ma lo sguardo di Nepoziano lo attrasse di nuovo.

    Vide nel padre determinazione, impazienza, ma anche gioia.

    «È esattamente come pensi, figlio mio. Tu verrai con me in Italia. E avrai l’onore di conoscere personalmente l’imperatore».

    IV

    Luce nelle tenebre

    Albenga, Marzo 460 d.C.

    «E questi, sacro augusto, è mio figlio Giulio».

    Estatico ma anche profondamente imbarazzato, Giulio abbozzò un inchino non sapendo bene come comportarsi. Ma qualcosa, nei grandi occhi di Maggioriano, gli infuse un’immediata sensazione di agio e tranquillità. L’imperatore era tanto nobile nell’aspetto quanto nelle intenzioni che lo animavano.

    Era alto e atletico, essendo ancora giovane e a malapena alla soglia dei quarant’anni. I suoi capelli erano leggermente ondulati, di un castano chiaro ravvivato qua e là da sprazzi color pagliericcio.

    La pelle era delicatissima, quasi lattea, a complimentare lineamenti eleganti e morbidi. Pareva davvero uno dei principi di cui aveva sempre letto, gli uomini eletti a governare su Roma.

    Tuttavia, era anche possibile scorgere su di lui i segni lasciati dal peso del potere. Quegli stessi occhi, per quanto belli e vivaci, erano cerchiati di viola. Il lascito di tante notti insonni spese a preoccuparsi delle condizioni di ciò che aveva ereditato e a cercare di capire come salvarlo.

    Sia Marcellino che suo padre l’avevano descritto come un infaticabile lavoratore, un uomo dalle energie inesauribili che non si faceva problemi a digiunare e a rinunciare al sonno per il bene della cosa pubblica. Dopo decenni di Cesari inetti e dediti al vizio o alla speculazione, Maggioriano sembrava una grazia inviata dal Signore. Così lo vedeva tutta la sua corte.

    «Un giovane senz’altro degno del padre» disse l’augusto sorridendo «e che porta un nome il cui peso conosco bene».

    «Ti ringrazio infinitamente, sacro augusto» rispose lui con un filo di voce.

    L’aveva chiamato giovane . In realtà, avevano solo dieci anni di differenza. Ma il divario tra loro era incolmabile. Lui era solo il figlio di un famoso generale, mentre chi gli stava davanti aveva in mano il destino del mondo in cui vivevano.

    Giulio però non ne fu minimamente offeso. Retrocedette appena, guardando di sfuggita chi era lì con lui.

    Oltre a suo padre, anche Egidio era presente. Quell’uomo incredibilmente robusto e vigoroso, col volto segnato dalle rughe e i corti capelli biondi, era il magister militum per la Gallia.

    Assieme a lui era suo figlio, un giovane uomo pressappoco della sua età. Il suo nome era Afranio Siagrio.

    Diversamente da lui, però, Siagrio sembrava già pienamente coinvolto negli affari del padre. Tant’è che per come si presentavano, entrambi parevano appena tornati da una guerra.

    Mentre Maggioriano iniziava a discorrere con Egidio e Nepoziano sul da farsi, Giulio si perse a ricordare quel viaggio durato quasi un mese che li aveva condotti fino in Liguria.

    Con immenso sconforto, aveva constatato che tutto quello che aveva sentito era vero. L’Italia, e presumibilmente gran parte dell’impero rimasto in mano a Roma, versava in uno stato agghiacciante. Ne era prova il fatto che avessero impiegato tutto quel tempo per arrivare lì, quando decenni prima sarebbe occorsa meno della metà del tempo.

    Ovunque era un incuria che faceva male al cuore. Per larghi tratti le strade che erano state il vanto dei Romani erano del tutto impraticabili, con le lastre divelte e la natura intenta a riprendersi i propri spazi cancellando il passaggio degli uomini.

    Le stazioni di posta erano ancora lì, ma parevano abbandonate da tempo immemore. Pochi viandanti vi albergavano, ed era già un miracolo riuscire a farsi servire un pasto caldo.

    Avevano incrociato qua e là torme di mercenari barbari, senza capire se fossero dalla loro parte o meno. Di questi, gli aveva detto Nepoziano, nessuno parlava il Latino. In tanti non sapevano neppure leggere. Una vergogna, aveva imprecato tra i denti, se si pensava che in tempi non lontani un generale doveva non solo leggere i dispacci, ma anche gestire ogni aspetto della vita di campo sapendo far di conto e amministrando le risorse.

    Ora l’impero era in mano a tribù i cui generali non erano che i rispettivi capi clan. Ma c’era dell’altro. Qualsiasi insediamento avessero attraversato era brulicante di miseri in cerca di elemosina. I monumenti degli avi erano abbandonati a loro stessi, spesso razziati da chi per fame cercava di rubarne i marmi.

    Bande di preti incitavano popolani ormai analfabeti ad affidarsi alla misericordia divina, ora che la fine di tutto si avvicinava.

    E un modo per garantirsi tale protezione era oltraggiare i monumenti pagani, noncuranti della loro bellezza che ricordava cosa fosse stata Roma. A causa di questo, Giulio aveva visto innumerevoli busti orribilmente deturpati.

    Ignoranza, disinteresse e un diffuso senso d’impotenza ammorbavano l’Italia. Uno scenario che l’aveva prostrato.

    Portandolo a domandarsi, in quel momento, cosa davvero sperasse di fare Maggioriano. Fino a che non lo risentì parlare.

    «Genserico sa cosa vogliamo fare» disse questi senza lasciare lo scrittoio pieno di carte. «Infatti, ha chiesto di siglare un trattato di pace». Agitò la lettera del Vandalo davanti a tutti.

    «Gli hai risposto, sacro augusto?» domandò Nepoziano.

    «Certamente» rispose questi con un sorriso. «Negandogli qualsiasi possibilità di trattativa».

    Tutti gioirono silenziosamente di quella sua prova di forza.

    Dopo anni e anni passati a subire l’incontrastabile superiorità barbara, finalmente Roma tornava ad alzare la voce.

    «Prima che Genserico riceva la mia risposta, però, dovremo aver già fatto le nostre mosse. Così non avrà tempo di ostacolarci. Per questo, Nepoziano, dovrai muovere verso la Gallia. Il nobile re dei Visigoti, Teodorico, ha accettato di stringere con noi un’alleanza. Assieme a lui scaccerai i Suebi, riconsegnandoci la penisola Iberica. Nel frattempo, completeremo le ultime unità della flotta imperiale. E per i Vandali allora sarà finita».

    Giulio vide l’orgoglio sul volto di suo padre. Per lui, quell’incarico era l’ennesima conferma della fiducia che si era guadagnato nel corso degli anni. Si sentì immensamente felice per lui.

    «Sacro augusto, permettimi di complimentarmi con te per aver saputo allestire un piano così mirabile» disse Egidio con voce cavernosa. «Ma soprattutto, per aver ascoltato le nostre voci e aver deciso di tenere a distanza quell’infido di Ricimero».

    Improvvisamente, lo sguardo di Maggioriano cambiò.

    Da mite e accomodante, si fece sorprendentemente autoritario.

    «Ti invitiamo a moderarti, Egidio. Non è il momento di indugiare in questioni di così risibile importanza».

    Bastarono quelle parole a zittire l’ardimentoso generale.

    Era quella la tempra dell’augusto, celata dietro il contegno impostogli dalla porpora. Non per nulla, egli era stato forgiato dalle tante battaglie combattute quando l’impero era stato minacciato dai terribili Unni di Attila. Un pericolo sventato dall’uomo che tutti i presenti veneravano quasi come un Dio. Flavio Ezio, il grande generale che in tanti ricordavano come l’ultimo grande Romano.

    Un titolo che sembrava ora destinato a Maggioriano.

    Di impareggiabile sensibilità ma anche volitivo e determinato, l’augusto ne incarnava i valori che l’avevano reso immortale.

    In quel momento Giulio capì perché suo padre, Marcellino ed Egidio gli fossero così fedeli.

    In lui splendeva la gloria dei grandi augusti che avevano reso grande Roma, rendendola il centro del mondo.

    E proprio a lui sarebbe spettato il difficilissimo compito di riportarla a quei fasti che parevano ormai consegnati al passato.

    V

    Speranze in fiamme

    Portus Illicitanus, Agosto 460 d.C.

    I marinai correvano in ogni direzione, animando improvvisamente quel porto tanto pacifico e calmo quanto cruciale per il destino dell’impero. In tanti abbandonavano le navi inspiegabilmente avvolte dalle fiamme. Ma altrettanti non sembravano minimamente spaventati dalla scena. Anzi percorrevano quell’area con fare decisamente sospetto.

    Controllando quale imbarcazione non fosse ancora lambita dal fuoco e ritornandovi per assicurarsi che tutto andasse come pianificato. Chi si rendeva conto di quell’atteggiamento ingiustificabile e li richiamava veniva presto accerchiato e messo in condizione di non parlarne mai più.

    Solo qualche civile, barricato nelle proprie case a ridosso del mare, poteva vedere che l’orizzonte non era sgombero.

    Aldilà della coltre di fumo che stava ricoprendo ogni cosa era possibile scorgere altre navi. Ferme, come in attesa che quello scempio venisse portato a termine.

    Sui loro alberi maestri non garrivano stendardi Romani.

    Bensì, si trattava di liburne Vandale.

    Mentre la flotta costruita con incredibili sforzi dall’augusto Maggioriano andava in fumo, gli stessi uomini incaricati di averne cura andavano a creare un cordone impenetrabile attorno ad essa.

    Che nessuno si azzardasse ad ostacolarli.

    Nel frattempo, il rogo cresceva esponenzialmente.

    La consapevolezza di quello che stava accadendo crebbe al pari della paura di rivelarlo ad anima viva.

    L’impero era stato tradito dai suoi stessi soldati, che avevano ceduto alle lusinghe di quel Genserico che non molto tempo prima aveva implorato Maggioriano di non dichiarargli guerra.

    Fiumi d’oro erano stati fatti scorrere tra i mercenari assoldati dall’augusto, al fine di capire i suoi piani e trovare nuovi alleati grazie ai quali mandarli a monte. E il barbaro ora poteva dire di esservi riuscito.

    Nell’arco di pochissimo tempo, quasi tutte le navi Romane furono inghiottite dalle fiamme. Allo stesso tempo, i pochi marinai ribelli e indignati per quella vergogna venivano finiti senza pietà.

    Oltre alla distruzione della flotta imperiale, i pochi coraggiosi che ancora avevano l’ardore di guardare dovettero anche subire la visione di quel porto lordato del sangue di centinaia di innocenti.

    Il tutto a causa della bramosia di chi aveva giurato lealtà all’impero d’Occidente, rivelandosi invece pronto a vendersi per il giusto compenso.

    Nessuno di quei vili era in realtà un Romano.

    Né di sangue, e tantomeno nelle intenzioni.

    Era stato quello l’errore di Maggioriano, forse il primo di un regno che aveva sino ad allora entusiasmato tutti.

    Affidarsi a uomini senza morale, che vivevano cambiando fazione in base al guadagno prospettato, si era rivelata una scelta a dir poco disastrosa. Se solo avesse potuto vederli, quegli animali, mentre lanciavano grida di giubilo al cielo color caligine!

    Avrebbe capito cosa lo aspettava.

    Perché senza quella flotta, il solo mezzo tramite il quale poter riconquistare l’Africa, avrebbe dovuto ricominciare da capo.

    Senza più fondi, col fardello di quel fallimento addosso e oltretutto angosciato dalla realizzazione di essere circondato da traditori.

    Perché questo erano.

    Avrebbe imparato a sue spese che in quei tempi gli ideali erano poca cosa, un seme incapace di attecchire in uomini dall’animo arido e che erano fedeli solo all’oro.

    Questi non sapevano di aver barattato, in quel preciso istante, il fato dell’Occidente intero per una somma tragicamente esigua.

    Un accordo ignobile che avrebbe avuto conseguenze inimmaginabili negli anni a venire.

    VI

    La verità di Marcellino

    Salona, Ottobre 460 d.C.

    «Ti prego, siediti».

    Marcellino accolse silenziosamente l’invito di Giulio, prendendo uno scranno per sé. Gli parve molto preoccupato.

    «Sono tornato di corsa» disse gravemente. «Affidare certe comunicazioni a un corriere di questi tempi è pericoloso. Sono quasi certo che qualsiasi messaggio sia intercettato dagli uomini di Ricimero, e poi posto al suo scrupoloso vaglio».

    Giulio si mise a sedere a sua volta, posando i gomiti sul tavolo.

    Se lo zio era ritornato dalla Sicilia, dalla quale era incaricato di partire alla volta dell’Africa, qualcosa doveva essere successo.

    E difficilmente doveva trattarsi di notizie positive.

    «Cos’è successo, allora?»

    «La flotta allestita dall’imperatore è andata perduta».

    « Cosa? » esclamò Giulio alzandosi in piedi di scatto. «Ma com’è possibile?»

    Marcellino non lo guardò neppure negli occhi. Era completamente abbattuto. Non l’aveva mai visto così.

    «Proprio quando tutto pareva pronto, delle liburne Vandale sono apparse al largo e le navi imperiali hanno improvvisamente preso fuoco. Ciò che è più sconvolgente è che quell’orribile rogo è stato appiccato proprio dai nostri marinai».

    Giulio rimase senza parole. Sentì le sue gambe tremare.

    La spedizione orchestrata da Maggioriano, nella quale tutti confidavano per porre fine al dominio di Genserico sull’Africa e far rifiorire l’Occidente, era stata ridotta in cenere.

    Uno sviluppo tragico, che faceva pensare a una cosa sola.

    Tradimento.

    «Vedo che ci sei già arrivato da solo» disse Marcellino scuotendo il capo. «Ora capisci dove nasce il mio pessimismo. Sono convinto che dietro tutto questo ci sia proprio quel bastardo di Ricimero».

    «Intendi dire che il patrizio s’è messo d’accordo col Vandalo?»

    «Mi pare evidente. Rimasto solo in Italia, ha avuto sufficiente spazio per manovrare in libertà. Accordandosi con Genserico per corrompere i mercenari che l’augusto aveva reclutato. D’altronde, stiamo parlando di barbari».

    Allibito, Giulio si prese la testa tra le mani e cominciò a girargli attorno. Era una notizia terribile.

    «E Maggioriano? Ha saputo?»

    «Certamente. È stato il primo ad essere informato».

    «E cosa ha fatto?»

    «Niente» rispose Marcellino scrollando le spalle. «Cosa potrebbe fare, dopotutto? Ha perso la flotta, e non ha più fondi per iniziare una nuova campagna. Per non parlare del fatto che ora deve fare i conti con un esercito di traditori. Ne è stato talmente sconvolto che ha semplicemente deciso di ritornare in Gallia, nella città di Arles che gli è tanto cara».

    Davanti a quel susseguirsi di inenarrabili disgrazie, Giulio arrivò a pensare al padre solo dopo diverso tempo.

    «Ma che ne sarà ora di mio padre?»

    «Nepoziano ha ricevuto l’ordine di rimanere alla corte dei Visigoti. È palese come al momento l’augusto non abbia la minima idea di come comportarsi, né di quali mosse mettere in atto.

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1