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Sweet Lie: Il libro dei tre Mondi
Sweet Lie: Il libro dei tre Mondi
Sweet Lie: Il libro dei tre Mondi
Ebook886 pages13 hours

Sweet Lie: Il libro dei tre Mondi

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About this ebook

Megan Viola crede che il mondo sia un posto sicuro.
Malgrado la tragica parentesi che ha già visto travolgere la sua giovane esistenza, non cambierebbe nulla della sua monotona routine. Ama le dorate spiagge salentine e l'odore salmastro che danza con la bianca spuma delle onde del mare.
Solo una cosa renderebbe perfetta la sua vita: l'amore. Quel folle sentimento in grado di far tremare l'anima e battere il cuore. Non sa che ben presto vedrà il desiderio tramutarsi in realtà, e allora comincerà una pena deliziosa. Il difficile sarà scegliere tra il certo affetto dell'abitudine ed una tormentata passione.
Orfana a soli diciassette anni, si ritrova a programmare un futuro non proprio degno di grandi aspettative. La famiglia Bennet è però al suo fianco. In particolare, sarà Jack Bennet, il bellissimo ragazzo dai colori americani, a ravvivare i suoi giorni, sempre presente e pronto a difenderla ad ogni costo. Ma da cosa, da chi?
LanguageItaliano
PublisherLUPIEDITORE
Release dateJun 2, 2020
ISBN9788835840046
Sweet Lie: Il libro dei tre Mondi

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    Book preview

    Sweet Lie - Federica Maria Biondi

    RINGRAZIAMENTI

    SWEET LIE

    IL LIBRO DEI TRE MONDI

    FEDERICA MARIA BIONDI

    Dedicato a mia figlia,

    Cloe.

    Si nascose in te il lato oscuro dell’umano peccato,

    ma stolta t’ho amato

    come il cielo ama la più luminosa di tutte le stelle.

    Ti permisi di entrare nella solitudine del mio essere

    e tu lo frammentasti con dannazione ed inganno.

    Angustie e afflizioni ci invasero, colmandoci d’odio e rancore.

    E se tu mi mostrassi quel lato più oscuro di te?

    Io divenir luce potrei

    e scacciare il dolore saprei.

    Gioia e sofferenze si rincorrono nei tuoi occhi

    confondendomi e accecandomi,

    ma il cuore vede sempre la giusta via;

    amami, ed io affiderò a te la mia vista.

    Dedicato a mia figlia,

    Cloe.

    PROLOGO

    6 settembre 1997

    Anima: residenza del Popolo Madre

    «Disturbo?» il fil di voce fu sin troppo silente per poter essere udito dalle tre anziane che, ingobbite sulla schiena, armeggiavano con filo ed uncinetto. Quella mattina tessevano un lavorato quadrato di tessuto verde smeraldo impreziosito qua e là da delicati ricami di seta dorata.

    Luna era troppo distante per poter scorgere le raffigurazioni sul drappo e forse anche un po' troppo lontana perché le tre Parche si fossero potute accorgere di lei. Si guardò attorno con fare circospetto. La stanza spoglia, povera di mobilio, rendeva poco accogliente l'ambiente; nessun soprammobile adornava le mensole, nessun ricordo impresso in foto raccontava gli anni passati, né alcun ninnolo rivelava lo spirito delle anziane Ninfe, era come se la vita delle tre donne non fosse mai esistita.

    Luna le osservò attentamente, non era privilegio di tutti poter assistere al loro lavoro e così, interessata, fece scorrere lo sguardo su ognuna di loro; la prima era Clòto, con l’ingenuo sorriso sulle labbra, stava lì a filare il filo donando felicemente la vita. La saggia Làchesi, invece, tesseva i destini degli uomini stabilendone la durata. E in fine c’era Àtropo, l’inesorabile, colei che tagliava il filo dispensando morte.

    Prese coraggio e fece un passo avanti. Non era di buon auspicio ricevere un invito da parte delle sorelle, il più delle volte annunciavano disgrazie e nulla di buono accadeva. Certo, le visioni a volte potevano essere ingannevoli, ma raramente quelle tre vecchie si sbagliavano. Da secoli ormai tessevano la vita delle persone e di quelli come lei, difficilmente la gente del suo popolo aveva assistito allo scioglimento della trama per poi vederne tessere un'altra.

    Si raschiò la gola attirando l'attenzione della parca seduta al centro, la quale, alzando la testa, le sorrise invitandola a farsi avanti. «Entra pure Luna Della Rosa, ti stavamo aspettando.»

    Incerta, Luna avanzò. Contò sei passi prima di arrestare la sua marcia.

    Quella mattina, il sole aveva deciso di infliggere alla penisola le stesse temperature torride di metà estate e perciò la giovane, per scampare a quel tormento, aveva deciso di indossare una comoda canotta larga e colorata, dalle spalline sottili. Nonostante l'afa, un brivido le fece accapponare la pelle sulle braccia e, anche se solo impercettibilmente, le mani le tremarono; Luna le strinse a pugno lungo i fianchi coll'intento di celare quel segno d’insicurezza.

    «Ho incontrato Elias, mentre passeggiavo nei giardini, mi ha informata della vostra chiamata; Làchesi, dimmi pure, non tenermi sulle spine.»

    Poggiò una mano sul grosso pancione, era agli sgoccioli. Nove mesi trascorsi velocemente, ed ora non stava più nella pelle; impaziente, trepidava dalla gioia di poter abbracciare la sua bambina, il suo angioletto, il suo fagiolino. Fagiolino, era così che la chiamava, fin dal primo giorno in cui vide quel piccolo esserino impresso nelle foto dell’ecografia; aveva pianto di gioia e paura; una paura effimera. Aveva per caso pronosticato qualcosa di terribile?

    Clòto e Àtropo, estranee dell’avvicendarsi, continuarono a tenere la testa bassa. Ma l’ultima, all’improvviso, tirò fuori dalla sacca al suo fianco una grossa forbice di metallo nero e tagliò il filo senza indugio.

    «No...» la supplica eruppe sofferta. Luna sapeva bene quale significato dare a quel disgraziato gesto.

    Questa volta portò entrambe le mani sul ventre. Nessuno le avrebbe fatto del male. Iris, la sua piccola, avrebbe vissuto ad ogni costo; lei, piuttosto, si sarebbe immolata, trafitta da mille frecce pur di difenderla. Qualsiasi malintenzionato sarebbe stato tragico spettatore della sua furia. Certo, le Ninfe erano esseri pacifici, ma Luna sarebbe stata felice di far cambiar idea a chi avesse portato con sé cattive intenzioni.

    «Tranquilla tesoro» a rincuorarla fu proprio Làchesi, la dispensatrice di destini. «Questa tela non è stata tessuta per la tua bambina. Il fiore della fiamma vivrà sano e forte per un tempo lungo e duraturo. Malgrado non ci sarà un'esistenza facile e serena ad attenderla. Menzogne e cattiverie la circonderanno ingannandola, e il grande fuoco di ghiaccio riuscirà a trovarla nonostante i nostri estenuanti sforzi.»

    «No! Lo prometto qui ed ora: andrò anche fino in capo al mondo per far sì che quell'essere spregevole non arrivi a lei» controbatté Luna, con rinnovato spirito d’autentica condottiera. «Nessun destino è segnato per sempre finché l'ultimo atto non sarà compiuto», recitò, «farò in modo che la tela venga sciolta e che una nuova sia tessuta.»

    Era bella la giovane Ninfa dai tratti allungati. Sgranò gli occhi di smeraldo facendoli ardere di fuoco. Fermamente convinta del proprio credo, scosse la testa con ardore e i lunghi capelli castani ondeggiarono sulle spalle solleticandole la pelle leggermente scottata dal sole.

    «Il destino non è cosa facile da mutare, mia giovane Ninfa. Oltre ad una spropositata forza d'animo, occorre un'incommensurabile dose d'amore.»

    «Per la mia bambina ne troverò di forza e anche dell'altra» ribatté Luna. Una lacrima si fece strada sulla guancia arrossata dal rancore; la spinse via col dorso della mano.

    «Non spetterà a te infondere tale energia» disse l’anziana.

    Il verdetto si abbatté sulla giovane Ninfa come un fulmine, squarciandola dall'interno.

    Poi la parca aggiunse: «il tuo spirito sarà ormai troppo distante per poter essere benefico.»

    «Cosa vuol dire?» la fanciulla balbettò, facendo un passo indietro. Sarebbe dovuta scappare, ne era certa, non avrebbe avuto la forza per ascoltare ciò che la terza parca aveva predetto. Voltò lentamente il capo a destra a destra e il grigio spento di occhi vacui la trafisse, ma quella rimase muta, mantenendo in una mano il filo spezzato e nell'altra le pesanti forbici della morte.

    «Questa tela l'abbiamo lavorata per te, mia intrepida signora della notte» la parca al centro sentenziò il tragico destino. «Sarà tua, la vita, che ben presto verrà spezzata.»

    Luna serrò gli occhi inspirando a fondo più volte. Doveva calmarsi, doveva farlo per la piccola. Erano ormai gli ultimi giorni, non poteva rischiare che qualcosa andasse storto, ma questo pensiero non impedì alle lacrime di colare a picco. Bagnarono le guance e scivolarono lungo le labbra e Luna percepì in bocca quel familiare sapore salato, lo stesso a dare il benvenuto al mondo nei primi istanti di vita ed il medesimo che accompagnava negli ultimi strazi d'esistenza.

    «Non capisco» aggrottò la fronte e tirò su col naso. «Io morirò?» chiese incredula; la tragica scoperta l’aveva derubata della chiara lucidità.

    «Ebbene sì, tesoro» le rispose la parca con flemma estenuante.

    Era surreale e spietato il modo in cui quelle tre vecchie, dalla pelle rugosa e le mani scheletriche, dispensavano destini con estrema naturalezza, come se preannunciare la morte di qualcuno fosse simile ad augurare il buongiorno.

    «Mia cara, come hai giustamente affermato, il destino è fallace e a volte può indurre in inganno persino noi.» «Ma ormai il filo è stato tagliato» la interruppe la fanciulla tra singulti disperati.

    «Non vuol dir tutto», ribatté Làchesi, «ma ora sta ben attenta a ciò che ti dico. Il destino del mondo dipende dalle tue azioni, coraggiosa ragazza, e dalla salvezza della tua piccola.»

    Fece di sì col capo, Luna avrebbe fatto di tutto per salvare la sua Iris, poco importava se quel tutto significava perdere la vita.

    «Tra quindici giorni verrà al mondo la fiamma della speranza e tu partorirai lontana da qui.»

    «Perché?» chiese affranta. «Perché dovrei lasciare la mia casa, allontanarmi dai miei amori, dalle gioie dei miei posti?»

    «Perché quella stessa notte, il giorno dell'equinozio d'autunno, una minaccia si abbatterà sull'Anima.»

    «Ma è terribile! Bisogna avvisare tutti al più presto.» «Bada figliola!» Il tono di quella voce gracchiante si alzò di molti decimi facendola sussultare; per lo spavento portò una mano al petto come a voler trattenere il battito frenetico.

    «Nulla di ciò che è stato detto potrà esser rivelato oltre queste mura. Ci sono occhi e orecchi malvagi al di fuori della stanza. La terra naviga ormai alla deriva, mia ingenua fanciulla. I tempi cambiano e così fa il cuore della gente; muta e si contorce nel buio delle tenebre. Non ti fidar di nessuno, nemmeno delle persone che più ami, pena, la morte di tua figlia e l'estinzione dell'essere umano.»

    La parca allungò il braccio. Luna stette immobile a fissare il bellissimo e crudele drappo che le venne offerto; penzolava dalla mano ossuta oltre l'arto teso.

    «Prendi, e quando sarà il momento te ne accorgerai. Corri nei boschi assieme alle tue fidate bestie, rimani nascosta fino a quando, tra le stelle, la grande sfera d'argento non sarà al culmine della sua pienezza, e allora le tue pene cominceranno. Sarà doloroso dare al mondo una vita, tanto quanto lo sarà cedere alla morte.»

    Afferrò il telo verde. Era esausta. Aveva udito fin troppo e non le importava cos'altro le tre donne del malaugurio avessero da dirle. Si girò lasciandosele alle spalle incamminandosi verso la porta, la stessa che pochi minuti prima l'aveva vista entrare con spirito diverso e una leggerezza ormai perduta. Ora Luna camminava lenta, marciava verso la morte con pesantezza. Sulle spalle gravava la consapevolezza dell'epilogo, un dolore devastante e alienante che non avrebbe potuto condividere con nessuno.

    Le tre vecchie tornarono al loro lavoro.

    Coll'ingenua spensieratezza, Clòto afferrò un nuovo gomitolo dalla cesta alla sua destra. Era giunto il tempo di donare la vita ad una nuova creatura. Nessuno sapeva quanto tempo Làchesi avrebbe tessuto, solo Àtropo ne era a conoscenza. Quest'ultima, con sguardo assente, seguì la donna sparire oltre l'uscio. Lei conosceva bene le sue forbici, avevano tranciato fili da tempo immemore. Non avrebbero fallito nemmeno questa volta.

    22 settembre 1997 ore 22:45

    Sede: Roccaforte dei Templari

    «Tobias, i radar ci segnalano dei movimenti sospetti nei dintorni dell'Anima. Gli schermi evidenziano la presenza di corpi con temperature differenti rispetto a quelle dei Normali.»

    Tobias, colmo di preoccupazione, si massaggiò la lunga barba grigia cresciuta ben oltre il mento appuntito. «Chiamate Elias.»

    «Già fatto, signore.»

    «E...» l'esortò nel continuare.

    «E nulla, mio generale, nessuna risposta.»

    «Tentate ancora, allora.»

    «Abbiamo cercato di metterci in contatto con il Popolo Madre per ben sette volte e in tutti i modi, ma nulla...»

    «Non vi fermate, continuate. Io controllerò di sopra, se per caso ci hanno inviato qualche richiesta d'aiuto.»

    S’incamminò verso l'esterno, salì le scale che conducevano alla piccola porta secondaria, quella che affacciava sul versante sud della Sede. Come pronosticato, lì ad attenderlo c'era un giovane esemplare di falco pellegrino. Era raro veder volare di notte tali rapaci, e se il volatile era stato sguinzagliato a quell'ora tarda, doveva trattarsi senza dubbio di qualcosa di grave.

    Si avvicinò con prudente lentezza all'animale.

    «Come presumevo...»

    Un sottile nastrino rosso penzolava legato stretto alla zampa destra, il significato di quel colore poteva essere solo uno: SOS.

    Ci mise poco a tornare di sotto. Nonostante i suoi novantasette anni, l'anziano era pur sempre un guerriero dell'Ordine dei Templari; forte nel corpo e giovane nell'animo.

    «Armatevi tutti!» tuonò non appena raggiunse la sala ovale, all'interno della quale, quasi l'intero corpo dei Templari si era riunito in attesa di ordini.

    «Il Popolo Madre è in pericolo, necessita del nostro aiuto. Non sappiamo ancora bene cosa stia succedendo, ma il mio sospetto è che degli Oscuri siano riusciti a oltrepassare la linea di difesa» spiegò velocemente. «Chi i più giovani restino alla Sede, tutti gli altri vadano. Ora!»

    Un fiume di teste si mosse veloce e in pochi secondi la sala ritornò al consueto silenzio, solo un basso brusio osò alzarsi nell'aria; i giovani Templari pronosticarono le loro tesi.

    ***

    Quando i Templari giunsero all'Anima, ciò che li accolse fu l'inferno, letteralmente.

    Fiamme alte danzavano impetuose nel cielo notturno illuminandolo di rosso. Grida strazianti laceravano l'aria calda di fine estate, surriscaldata allo stremo dal mare di fuoco.

    Gli uomini armati non procedevano più cautamente, ormai non sarebbe più servito; il confine di sicurezza, perimetro dell’Anima, era stato espugnato. Dopotutto in guerra non si procedeva in punta di piedi, si piombava con ardore. E così i Templari fecero. Liberi di gridare la loro ira, eruttarono tra la lava come lapilli ardenti.

    Tobias ci aveva visto giusto, l'invasione era stata a carico degli Oscuri, i demoni divoratori di uomini.

    Tra le grida disperate si udirono stonanti le risa malefiche di quegli esseri malvagi che, con squallida ingordigia, dilaniavano colli e toraci, dispensando, tra orride visioni, atroci sofferenze ai poveri dannati. Il numero di Oscuri era incalcolabile; come spore velenose si espandevano invadendo ogni dove, massacrando le loro prede senza alcuna pietà. I Templari scattarono all'azione percorrendo lesti strade lastricate di corpi dilaniati; i malcapitati giacevano senza vita in posizioni agghiaccianti.

    Forse erano giunti troppo tardi. L'irreparabile sembrava ormai esser compiuto. Ma senza perdersi d'animo, i combattenti sguainarono le armi. Colpi secchi e ben mirati a teste e cuori. E così, decine e decine di Oscuri soccomberono, macchiando l’aria con esplosioni di ceneri.

    Non era una guerra, ma la fine del mondo. L’apocalisse era giunta spalancando le porte dell’inferno. I guerrieri della chiesa contarono segugi, striscianti, cento denti, corazzatie perfino i temibili mutanti. Denti aguzzi tranciarono le carni, artigli affilati affondarono le pelli e chele gigantesche mozzarono teste; ma quando i primi di loro cominciarono a cadere schiacciati dell'offensiva, tutta la forza nemica si rivoltò contro i guerrieri dalle croci rosse intagliate negli scudi e impresse sulle armi e, così, pure il bene contò le proprie vittime.

    Durò tutta la notte la battaglia, e persino l'alba si tinse di sangue.

    La nascita

    Luna stringeva forte la pelliccia dell’inseparabile amico. Correvano insieme già da molto tempo. Lei in groppa al destriero dalle zanne lunghe e potenti, lui veloce come un fulmine nero. Dietro di loro, una dozzina di altri lupi dal manto bruno e grigiastro tenevano il passo ululando alla luna; mancavano poche ore e poi l'avrebbero vista illuminare piena il cielo notturno del primo autunno.

    Luna non scorgeva ormai più le luci serene dell’amata casa. Troppo distante dalla sua terra, quella notte, non avrebbe udito impotente le urla strazianti del suo popolo mentre veniva decimato senza pietà.

    Le doglie avevano iniziato a tormentarla già dalle prime ore del mattino, ma ancor più terribile, fu per lei, il dover celare quel supplizio. All'apice del dolore aveva richiamato le sue bestie e, come ordinato dalle Parche, abbandonato il suo popolo e il suo vero amore. A quest’ultimo poté lasciargli solo un sussurrato bacio ed un ultimo doloroso e insopportabile sguardo.

    Lui non sapeva, non conosceva la verità. Come avrebbe potuto sapere che Iris era anche figlia sua? Lei non gliel'aveva detto. Non l'aveva potuto fare, e ora che il destino li aveva separati, la morte non li avrebbe di certo riuniti.

    I lupi smisero di correre, trottarono ansanti raggiungendo una grossa quercia dai lunghi rami a sfiorare la nuda terra. Il loro compito era terminato, ora ci avrebbe pensato la natura a fare il resto.

    Esausta e allo stremo delle forze, la Ninfa si diresse carponi verso il grande tronco liscio e quando la schiena urtò la corteccia, le radici scossero la terra emergendo dalle profondità. S’intrecciarono fra loro e quel letto di rami e soffice muschio fresco fece da morbido giaciglio alla giovane madre. Con determinata forza trattenne le urla, ma esausta, si lasciò andare ad un pianto disperato. Non era tanto il dolore fisico quello che più straziava l’anima, almeno non quanto la pena che albergava nel cuore, fu difatti questa a indurla alla tormentata follia. Quella stessa pena, ne era certa, l'avrebbe uccisa ancor prima di mani nemiche.

    L'albero issò la donna verso braccia verdi e i rami si protesero in avanti formando una fitta cupola di foglie e ramoscelli. Ai piedi della grande quercia, il nervosismo dei lupi accompagnò gli sforzi dell’amata padrona tra ululati e guaiti.

    E quando la compagna del sole raggiunse la massima luminescenza, la natura risplendette d'argento e la pelle di luna, imperlata di sudore, brillò madida di strazio. In un crescendo di urla ed ululati, fu infine un flebile vagito a riportare la silenziosa pace. Il fiore della speranza era finalmente nato. I rami come mani benefiche si allungarono, attorcigliandosi tra loro fino a formare un lavorato lenzuolo di linfa e, delicatamente, accompagnarono la piccola creatura al seno materno; dolce conca di immenso amore.

    «Oh, mia piccola, mia dolce, mio amore più grande... Iris... che faccino delicato. Sei bellissima angelo mio, tutta tuo padre... spero se ne accorga, quel babbeo, quando vedrà tanto splendore» sorrise malinconicamente tra le lacrime. Aveva trovato la gioia più grande e presto se ne sarebbe dovuta separare. La vita le aveva voltato le spalle e, la stessa sadica, avrebbe continuato mostrandosi ingiusta e bastarda fino alla fine.

    La piccola fu avvolta nell’arazzo color smeraldo, lo stesso che giorni prima aveva preannunciato il disgraziato destino di sua madre. Il drappo raffigurava le scene salienti della vita di Luna. Persino la nascita di Iris e la morte della donna erano state narrate dalle crudeli mani delle tre Parche.

    Pianse in silenzio cullando il suo prezioso fagotto.

    Ma troppo lesto fu lo scorrere del tempo e, quando giunse il momento, lo capì. Il vento gelido galoppò fino a lei. Quel soffio freddo voracemente sbranò la terra portando con sé il presagio di morte. Luna adagiò la mano sulla calda corteccia e la natura comprese; questa spinse le braccia nodose fino a raggiungere il basso.

    «Mio caro Alfa, avvicinati.»

    Il grosso lupo nero si fece avanti. Fin da sempre il fidato animale l’aveva accompagnata nel corso della vita tenendola al sicuro, allo stesso modo avrebbe portato in salvo sua figlia. Legò il piccolo fagotto sulla calda groppa pelosa, annodando con maniacale precisione le stringhe della piccola sella.

    «Malia, aiutami.»

    Una lupa dal manto grigiastro trottò sino a lei. Era la più grossa e possente subito dopo Alfa, l'unica che allo stesso tempo avrebbe sorretto il suo peso e corso ad un'andatura adeguata.

    Ma il silenzio della notte accompagnò solo per breve tratto la disperata fuga. Il freddo incalzante divenne sempre più pungente. La profezia si sarebbe avverata la notte stessa.

    Che atroce e amaro boccone da mandar giù, nemmeno una notte avrebbero potuto trascorrere assieme.

    Con un fischio fermò il branco; Alfa era il doppio più veloce rispetto tutti gli altri, con molta probabilità lui sarebbe riuscito a scappare.

    «Certo che ce la farà, le Parche me l'hanno garantito. Iris vivrà» ragionò ad alta voce, con ferma determinazione. «Malia, segui Alfa e bada alla mia piccola. Prenditene cura come se fosse tua. Sfamala se ne avrà bisogno e poi domani mattina recatevi dalla mia amica. Lei è una Templare, saprà prendersi cura di Iris.»

    La lupa guaì nervosa schiacciando le orecchie sul capo; non aveva intenzione di lasciare la sua padrona, né di recarsi da una Templare. I lupi si fidavano solo di lei e di nessun altro.

    «Malia!» l'ammonì «non è il momento di fare storie... ora andate, è un ordine!» tuonò alla fine.

    Le fidate bestie partirono al galoppo senza più voltarsi e, con la malinconia a velare gli occhi, Luna li seguì fino a quando divennero solo dei punti indistinti e si persero nell'oscurità della notte.

    Il cuore, colmo d’angoscia, si lacerò in una lenta agonia.

    I lupi ringhiarono, ora era perfettamente percepibile il sopraggiungere del gelo.

    L'ultima cosa che le iridi di smeraldo videro, fu la faccia triangolare di un mostro mastodontico dalle ali frastagliate e dalla grigia pelle decorata di scaglie appuntite. Sulla testa, corna ricurve di un blu avio svettavano minacciose. Se non avesse incusso tanto timore, la bestia sarebbe potuto apparire addirittura affascinante, ma non fu così per Luna e quegli occhi di ghiaccio la impietrirono. Tuttavia lo smarrimento durò poco. Malgrado i dolori, la stanchezza e la paura, la rabbia la invase; la fanciulla afferrò una radice nodosa e questa, mescolandosi alla roccia e all'energia scaturita dal tocco della Ninfa, si trasformò in una lama dura più dell'acciaio. Anche le Ninfe vantavano doti nascoste; seppur miti creature, all'occorrenza, sapevano sfoderare la forza di impavidi guerrieri.

    E così Luna lo affrontò con un ghigno selvaggio. Asciugò le lacrime ai bordi degli occhi e si guardò attorno. I suoi lupi erano pronti. Digrignarono i denti e con un balzo tutti assieme attaccarono.

    Sede

    Tobias camminava su e giù per la sala ovale in attesa di notizie. Malgrado il desiderio di unirsi alla battaglia, conosceva bene i suoi doveri. Qualcuno avrebbe dovuto occuparsi e proteggere le nuove leve. Dopotutto gli anni non gli avrebbero consentito di muoversi e combattere come avrebbe desiderato. Ma tra tutti gli scenari possibili ed immaginabili, mai si sarebbe aspettato di incontrare proprio lui.

    «Tobias, giusto?» parlò l'estraneo, interrompendo il pensare dell’altro. «Il Templare che fece della sua vita una leggenda; fermami se sbaglio.»

    L'Anziano sguainò la spada, certo che quello dinanzi a lui fosse un Oscuro, un'aura di ghiaccio, seppur poco percepibile, irrigidì l'aria.

    Ma perché presentarsi in Sede da solo? Deve trattarsi sicuramente di un folle pensò Tobias, mantenendosi pronto a qualsiasi evenienza. Nonostante fosse avanti con gli anni, si convinse che anche da solo avrebbe potuto sconfiggerlo. Tuttavia non c'era da preoccuparsi, perché con un solo segnale, una schiera di Templari sarebbe accorsa rafforzando le difese. Si guardò attorno tenendo sotto controllo le porte che davano accesso alla sala ovale.

    «È inutile che fissi le entrate. Nessuno ti salverà, Tobias, la tua vita è giunta al termine. Adesso, senza troppe storie, dimmi dov'è la bambina.»

    L'Anziano corrugò la fronte. Di cosa sta parlando quest'invasato? si chiese, per poi chiedere a sua volta: «a quale bambina ti riferisci?»

    L'altro sogghignò caustico. A quanto pareva l'uomo diceva il vero, non sapeva nulla della neonata. E lui, da sempre, era un esperto nel riconoscere i bugiardi; Tobias non lo era.

    «Tu chi saresti, dannato demone? Sei un folle se pensi di presentarti qui e riuscire ad uscirne vivo.» Saettò la spada tagliando l'aria e questa fischiò accompagnando il poderoso gesto. L'Oscuro fece un passo indietro; tuttavia non retrocedette perché spinto dalla paura, lo fece più per burlarsi di lui e, dall'espressione sul volto, sembrava parecchio divertito.

    «Ehi, ehi, vacci piano nonnino o potresti romperti un femore. Sai che per i vecchietti come te sarebbe una sciagura.»

    «Smettila di dire stronzate e combatti. Ma prima dimmi, a quale dinastia appartieni?» Gli puntò contro la punta della lama, sapeva quanto gli Oscuri si muovessero velocemente, non si sarebbe fatto cogliere di sorpresa.

    «Smettila di fissare quei dannati ingressi, li ho uccisi tutti.» Privo d’armi, l’Oscuro lo sfidò col solo suo sguardo. Non che qualche spada gli sarebbe servita a qualcosa, lui adorava percepire le ossa frantumarsi tra le mani, come pure gioiva nell’avvertire la pelle squarciarsi tra le fauci. «I tuoi adorati figli sono morti» ghignò velenoso «non è così che li chiamate, tutti quei mostriciattoli brufolosi... figli, giusto? Beh non è che io li abbia uccisi proprio tutti. Oggi mi sentivo più clemente del solito, ve ne ho lasciati alcuni. Dopotutto adoro scoprire nuovi talenti e penso che in futuro mi divertirò parecchio nel saggiare i loro miglioramenti.»

    «Figlio di puttana... chi diavolo sei?» sbraitò con occhi iniettati di rabbia.

    «Bene nonnino, ci sei quasi... vedrai che con un piccolo sforzo riuscirai a capirlo senza il mio aiuto. Tanti nomi m’hanno dato durante la mia lunga vita. Diavolo, è uno di questi, se vuoi, anche Satana, Lucifero oppure, se t’aggrada di più, Balzebul, Asmod, demonio...» Roteò in aria la mano, avrebbe potuto continuare all'infinito. «Ma penso che voi Templari preferiate chiamarmi in un altro modo», sorrise velenoso.

    Era davvero il diavolo in persona e quel ghigno accese una lampadina nella mente dell'uomo più anziano, che ora, anche se con l'intento di celarlo, cominciò a temere. Se fosse stato davvero lui, allora sarebbe servito a poco combattere.

    Perché si era scomodato di persona? Cosa c'era di tanto prezioso, lì, da attirare persino il re degli Oscuri? Dunque, la storia che si raccontava non era solo leggenda; quell'essere mitologico tanto potente quanto crudele esisteva per davvero.

    Lo studiò scrupolosamente e solo allora, avendolo dinanzi, capì perché da sempre avesse celato la propria identità. Non era un volto da poter dimenticare facilmente; chiunque l'avesse visto anche solo una volta l'avrebbe riconosciuto fra mille e per sempre.

    «Ebbene vecchio, ci sei arrivato? Non penserai che io stia qui tutta la notte ad attendere che i tuoi stanchi neuroni si sorprendano di poter creare ancora sinapsi.»

    «Beh, dall'età di cui vanti, dovrei essere io a rivolgere a te tali ingiurie.» E stavolta fu Tobias a servirsi del sarcasmo. Si mostrò sfrontato; gli sembrò l’unico modo per affrontare la morte stessa.

    «Bene, dunque, l’hai capito» scoprì i denti bianchissimi. «Tobias, qual è il nome assegnatomi? Dillo, ti prego, è da tempo che non lo sento pronunciare, mi fa sempre uno strano effetto riascoltarlo; è come se mi riportasse indietro a quando ancora ero fanciullo.»

    Il Templare deglutì, consapevole che il volto di quel mostro sarebbe stata l'ultima cosa che avrebbe visto. Il re degli Oscuri non lasciava tracce, né testimoni. Nessuno l'aveva mai visto e nessuno avrebbe raccontato di lui e del suo aspetto, sennò nell’oltretomba.

    «Stevan» sussurrò.

    «Complimenti! Bravissimo!» il demone, divertito, batté le mani in aria come se durante una recita il protagonista avesse pronunciato la sua battuta migliore. «Dato che hai scoperto la mia identità, capirai anche che non potrò lasciarti vivere, vero?»

    «Schifoso mostro» in quelle parole, l'Anziano rigettò tutto il suo disprezzo.

    Tuttavia, la presenza di uno dei più autorevoli Templari, non sembrava per nulla minacciare l’Oscuro, al contrario, Tobias impugnava la spada talmente stretta da non permettere al sangue di fluire, sbiancandogli le nocche.

    «Dato che avremo un po' di tempo per dialogare... perché sì, penso che quel sadico di Alessandro ci metterà un bel po' prima di stancarsi con i tuoi amichetti...» portò l'indice alla bocca pensieroso. «Dimmi, mio caro, cosa sai della Ninfa: Luna Della Rosa? Questa notte avrebbe dovuto dare alla luce una bambina. Ma, ahimè, all'Anima non c’era, quindi lo chiedo a te: sai dirmi dov'è questa neonata?» scandì la domando con odiosa lentezza. «Non ti preoccupare, ti prometto che non è mia intenzione farle del male.»

    «Sì, sicuro! Come non lo è mai stata, vero, squallido demone?» rise sprezzante. Ormai l'idea della morte non incuteva più timore; avrebbe solo voluto combattere e farla finita al più presto.

    «Con questo mi stai dicendo che anche se ti torturassi e, credimi, ne conosco centinai di modi per farlo, tu comunque non mi diresti nulla, ho indovinato?»

    «Complimenti! Bravissimo!» lo imitò Tobias, facendo eco alle parole dette dallo stesso Stevan poco prima.

    «Bene, anzi male. Anche se penso che tu in realtà non sappia davvero nulla di tutto questo. Perciò, non vedo perché sprecare altro tempo.» Con la mano a mezz’aria fece segno al Templare di farsi avanti e l'anziano guerriero non se lo lasciò ripetere due volte.

    Scattò come una furia e, nonostante i suoi capelli bianchi, i problemi d'articolazione che da qualche anno avevano iniziato a dargli noia, Tobias si mostrò degno del grado conquistato.

    L'affronto fu potente e magistralmente portato a termine. E se solo non fosse stato Stevan il suo avversario, forse sarebbe riuscito a sopravvivere; ma la realtà, purtroppo, fu ben diversa.

    L'Oscuro non si mostrò intenzionato ad evitare l'attacco, anzi, l'accolse con gioia, come si accoglierebbe un abbraccio. Si scagliò contro Tobias e, il poveraccio, nemmeno vide quella mano che lesta afferrò il collo costringendolo in una morsa d'acciaio. Quindi, ghignando, lo sollevò di mezzo metro da terra. Inutile combattere, la spada cadde impattando rumorosamente sul freddo marmo.

    «Generale, darò una degna fine all'uomo che è stato, una meritata morte in rispetto al grado che porta.»

    «Fa subito, bastardo» parlò con voce strozzata, mentre gli occhi arsero d'odio.

    «Portate i miei saluti al mio caro padre. Ci rivedremo all'inferno, Templare.»

    Impercettibile fu l'aumento di pressione; e la testa canuta schizzò in aria come il tappo di una bottiglia di champagne.

    Poi, come se niente fosse accaduto, Stevan si guardò attorno ammirando i dipinti sui soffitti e i preziosi arazzi alle pareti. Strappò senza troppe cerimonie la stoffa del mantello nero del Templare per pulirsi le mani e dunque s’incamminò verso l'ingresso.

    Lì, nessuno più sarebbe riuscito ad aiutarlo, avrebbe dovuto cercare altrove le risposte e quella neonata dalla linfa prezioso. La fiamma della speranza... la sua speranza.

    1. RICORDO DI UNA LACRIMA

    Diciannove anni dopo

    Fai pure del tuo peggio per sottrarti a me,

    ma per tutta la vita mi apparterrai:

    vita che non durerà più a lungo del tuo amore,

    perché essa completamente da quell'amore dipende.

    Non devo perciò temere il massimo dei mali,

    dal momento che il minimo di essi mi può causare la fine;

    Esiste per me un più felice stato di questo continuo dipendere dai tuoi umori!

    Tu non puoi torturarmi con la tua incostanza,

    ne va della mia vita col tuo disdegno.

    Oh, quale titolo alla felicità posseggo:

    pago di avere il tuo affetto, contento di dover morire!

    C'è cosa tanto bella che non tema macchia?

    Tu poteresti ingannarmi e io non saperlo.

    WILLIAM SHAKESPEARE, Sonetto 92

    Megan sospirò estasiata. Buttò il libro sul petto e si lasciò cadere sulla schiena. Amava leggere. Così molto spesso coglieva l'occasione di una splendida giornata di sole per correre in spiaggia e divorare un libro, romanzi il più delle volte.

    Invidiava i protagonisti di quelle storie. Le loro vite narravano sentimenti e passioni talmente travolgenti da divenire dolce tormento. Se l'amore così tanto voleva dire soffrire, allora era pronta, avrebbe pianto e sofferto, ma avrebbe anche amato e respirato la tanto agognata felicità.

    Allungò la mano all'esterno facendo scorrere i minuscoli granelli di sabbia fra le dita, adorava quella setosa sensazione di calore sotto la pelle. Era cresciuta su quella spiaggia e mai avrebbe potuto immaginare spettacolo più bello.

    Il sole risplendeva indomito nel punto più alto del cielo e i raggi svelavano l'incanto della sua terra.

    Si puntellò sui gomiti guardandosi attorno; fece vagare lo sguardo verso l'infinito, dove l'azzurro dell'orizzonte si mescolava quasi a confondersi col colore del mare. Dietro di lei, imponenti scogliere colavano a picco nelle acque cristalline del Mediterraneo e una fitta pineta, verdeggiante e ricca di vita, si estendeva oltre la scogliera donando refrigerio ai tanti turisti che d'estate affollavano la bellissima baia di Torre dell'Orso.

    Era abituata ad andare al mare già dai primi giorni d'aprile, ma quell'anno la primavera era stata poco clemente, e solo verso la fine di maggio, il timido e assonnato sole iniziava a risvegliarsi dal lungo letargo e a irradiare, tutto intorno, l'aria col suo calore.

    La ragazza amava la stagione calda, la preferiva di gran lunga al freddo inverno. Detestava quelle lunghe e rigide notti di febbraio, quando le gelide grinfie delle tenebre l'attanagliavano senza darle tregua. A nulla serviva il buffo pigiama felpato e la pesante trapunta di lana; i piedi intirizziti dal freddo continuavano a inondarla di brividi lungo tutto il corpo, costringendola a prolungare la veglia sino all'alba, quando i piccoli e inquietanti rumorini della vecchia casa finivano finalmente di angustiarla.

    Un tempo, quando sua madre era ancora in vita, non avrebbe avuto freddo... né paura.

    Una fitta di nostalgico calore l'attraversò, costringendola a strizzare gli occhi inumiditi dai ricordi di una lacrima.

    Yasmin non c'era più da ormai due anni. L'aveva abbandonata troppo presto, quando ancora gli abbracci erano un genere di prima necessità e le domande più delle risposte. Fu il vento di un piovoso pomeriggio di settembre a portarsela via. Quel pomeriggio sua madre non avrebbe fatto più ritorno a casa.

    Come ogni mattina, Yasmin, aveva accompagnato la figlia a scuola, salutandola con un affettuoso bacio sul nasino, per poi correre a lavoro perennemente in ritardo. Megan trascorse annoiata le cinque ore di lezione come da programma e, al suono della tanto agognata campanella finale, si diresse lungo il corridoio affollato verso l'uscita, assieme all'inseparabile amica d'infanzia: Amanda. Come tutte le volte, attese pazientemente di scorgere la fiancata malconcia della station wagon rosso fiammante di sua madre. Sapeva bene quanto Yasmin non fosse un mostro della puntualità, dunque non si preoccupò nel non vederla arrivare da lì ai venti minuti successivi.

    «Megan, mi dispiace, ma non posso più aspettare. Sai bene che rimarrei se non fosse per i miei... ma li conosci e sai che tragedia inscenerebbero se non filo subito a casa.»

    Quando era agitata Amanda gesticolava nervosamente e, non importava quanti gradi ci fossero, le sue tempie s’imperlavano di minuscole goccioline di sudore costringendo le ciocche lisce della folta chioma dorata ad aderire al volto rotondo. Megan sapeva bene quanto l'amica odiasse quel difetto, quindi fu contenta di interromperla: «Amy, calmati, non è un dramma se per una volta aspetto qui sola.»

    «Se vuoi ti dò un passaggio a casa, avvisa tua madre e...» «No, meglio di no, conosci anche tu mia madre e sai che non controlla mai il cellulare. Le verrebbe un colpo se arrivando non mi trovasse. E poi sarà già per strada, tempo cinque minuti e arriverà.»

    Amanda torturò il labbro inferiore punendolo con i bianchi incisivi perfettamente allineati. «Sei sicura?» le chiese titubante.

    Megan in cambio le rivolse uno scherzoso sguardo di rimprovero, suscitando nell'altra un affettuoso sorriso preoccupato; di quelli che solo le vere amiche regalano.

    «Okay sister, ma ricorda di avvisarmi non appena arrivi a casa» tirò su il cappuccio del bizzarro impermeabile rosa per poi schizzare via sotto la pioggia battente. Corse goffamente fino a raggiungere la piccola utilitaria grigio metallizzato e, aprendo la portiera, si tuffò all'interno finalmente al riparo.

    Megan seguì divertita l’imbarazzante corsetta della piccola amica. Diversamente da lei, Amanda non possedeva gambe slanciate né un busto affusolato; il corpo morbido e formoso misurava appena un metro e sessanta, tuttavia la ragazza era graziosa e ben proporzionata.

    Prima di chiudere lo sportello, fece ondeggiare vigorosamente la mano pallida che andò confondendosi col rosa confetto della manica. Megan ricambiò il saluto e, urlando per far giungere la propria voce attraverso il muro di pioggia, si raccomandò perché l'altra fosse prudente. Ma dal modo in cui l'amica scalò dalla prima alla quarta, imitando uno di quei piloti di Formula Uno e facendo slittare le ruote sull'asfalto bagnato, fu certa che Amanda non l'aveva neppure sentita.

    E così Megan rimase sola e infreddolita sotto il porticato in attesa di sua madre. Infilò una mano nel largo cappotto verde militare estraendo l'iPhone. Un sms era stato inviato a Yasmin solo dieci minuti prima ma, come al solito, risultò inutile.

    «Wow mamma, oggi hai superato te stessa... trenta minuti, record!» esclamò leggermente adirata dopo aver controllato l'ora. «Maledizione, un'altra volta in modalità silenzioso quel dannato cellulare, mi farai diventare matta uno di questi giorni... anzi, sto già parlando da sola; sarò forse sulla buona strada?»

    Il corpo fu scosso da un brivido improvviso. Quella reazione non era dovuta esclusivamente alle folate di vento che di tanto in tanto infuriavano deviando il percorso della pioggia, riuscendo a spruzzare addirittura lei al riparo. Quel brivido, aveva origini ben più profonde. Il cuore, stretto in una morsa d'angoscia, sopportava male quella sensazione che puntualmente portava alla mente i pensieri più macabri, tormentandola ogni qualvolta la madre accumulava ritardo.

    Si strinse forte nell'ampio giaccone cercando d’infondere, non solo calore, soprattutto coraggio e fiducia a se stessa. Anche volendo non si sarebbe potuta spostare da lì, a meno che non desiderasse fare una doccia a cielo aperto. Iniziò così a rimpiangere il passaggio dell'amica.

    Inclinò la testa all'indietro perdendosi per qualche istante tra i compatti strati di nuvole grigiastre gonfie di pioggia. Correvano lente e pesanti sotto lo sforzo incessante delle potenti raffiche di vento. Diede ancora un'occhiata alla strada e quindi al suo telefonino; ma nulla.

    Arricciò il naso disgustata; l'aria tutt'attorno puzzava d'asfalto bagnato e di erba marcia.

    Oltre a lei non era rimasta anima viva nel piazzale antistante la scuola. La strada era completamente deserta. Alle porte dell’autunno, disegnate sulla strada, piatte linee biancastre sbiadite dal tempo, occupavano malinconicamente la visuale dispensando tristezza.

    Ma... cosa... in realtà non sono completamente sola. Quell’auto era da sempre stata lì ma, per distrazione, non ci aveva fatto caso. Ferma, accanto al marciapiede brunito, era parcheggiata la BMW blu elettrico del suo compagno di scuola Jack Bennet. I due non frequentavano la medesima classe, né facevano parte della stessa compagnia, anche se Megan sapeva bene chi fosse; d'altronde, chi non conosceva il ragazzo più bello della scuola?

    Diciotto anni, uno in più di lei, il giovane frequentava l'ultimo anno di liceo. Le loro madri erano unite da una grande amicizia, un sincero legame nato sin dall’arrivo della famiglia Bennet nel Salento. Bruce, il padre di Jack e di Jessica, aveva ricevuto un'imperdibile offerta di lavoro, una proposta talmente convincente da persuaderli nell'abbandonare le spiagge più selvagge della lontana Florida.

    I ragazzi Bennet si erano ben ambientati, mimetizzandosi alla perfezione tra i giovani salentini. Se solo non fosse stato per i chiari colori e alcuni tratti del viso, nessuno avrebbe osato supporre che i due non fossero originari del posto.

    Nonostante l'amicizia tra le madri, non correva uguale simpatia tra i figli. Seppur fin dal primo anno di liceo Megan tentò di entrare nelle grazie dei due ragazzi, riuscì ad ottenne solo scarsi risultati. La causa non fu solo da ricercare nella timida condotta perseguita da Megan, ma, il fattore determinante della loro mai compiuta amicizia, fu proprio il carattere schivo e distante dei fratelli Bennet che evitarono fin dall’inizio la ragazza come chi tenta di evitare un appestato. Così Megan finì per tramutare il platonico sentimento, nei confronti di jack, in tenace antipatia.

    Nonostante ciò, quando lo vide scendere dall'auto, le gambe le tremarono. Tentò in tutti modi di rendersi invisibile, cosa che risultò decisamente impossibile, data la completa assenza di esseri viventi nel giro di chilometri. Perché il ragazzo fosse ancora lì le sfuggiva. Oramai l’ingresso del liceo era chiuso già da un pezzo. Con la coda dell'occhio seguì i suoi movimenti. Camminava verso di lei. Passo lento ma deciso, la mano destra reggeva un grosso ombrello blu, l'altra era nella tasca anteriore dei jeans chiari che fasciavano alla perfezione lunghe gambe muscolose. A coprire il busto tonico una semplice maglietta bianca a maniche corte. La ragazza corrugò la fronte a quella vista; e brividi di freddo la fecero saltellare sul posto. Certo, era ancora fine estate, ma le temperature erano calate drasticamente in quegli ultimi due giorni. Come può essere a suo agio con quella poca stoffa addosso? Ma i pensieri subirono una forzata virata quando si accorse che il ragazzo era diretto proprio verso di lei, e a quel punto non poté più evitare il suo sguardo.

    Deglutì nervosamente. Maledizione Megan, perché ti rendi così ridicola? Avrà dimenticato qualcosa a scuola, quando si accorgerà che le porte sono chiuse tornerà indietro prese un respiro profondo. Ora stai calma, sorridi e saluta amichevolmente, come faresti con chiunque altro. Stampò sul volto un finto sorriso a mo’ di clown e gli angoli della bocca si impennarono tremolando vistosamente. Malgrado la cotta le fosse passata ormai da tempo, quegli occhi di un azzurro profondo non avevano smesso di inibirla. Incapace di assumere un’espressione anche solo apparentemente naturale, decise di troncare lo scontro visivo, così riafferrò il cellulare dalla tasca e lo schermo s’illuminò mostrandole l'ora.

    «Trentasette minuti, trentasette minuti di ritardo... eh, ma questa me la paghi...»

    La ragazza farfugliava tra sé e sé quando lui la raggiunse.

    «Scusa, cosa hai detto? Parlavi con me per caso?» «No, figurati, in realtà parlavo col mio cellulare...» e, accorgendosi solo in un secondo momento dell'assurdità della cosa, si sbracciò freneticamente tentando di rimediare, «cioè, non è che parlavo al cellulare, ma parlavo tra me e me con il telefono in mano» tentò di chiarire. Strinse forte i pugni nelle tasche scorgendo lo sguardo confuso di lui.

    Bravissima Megan, non potevi renderti più ridicola di così, ora penserà che sei anche pazza.

    A Jack lei non piaceva, ne era certa, aveva tentato per troppo tempo, insieme ad Amanda, di decifrare a chi fossero indirizzati gli sguardi dell'affascinante ragazzo americano, e l’epilogo di quello spionare non aveva rivelato nulla di entusiasmante.

    Il ragazzo le sorrise, ma l'espressione celò qualcosa di strano. Una scia di cupa tristezza attraversò le iridi lucenti.

    «Megan... devi seguirmi» sospirò, e nel vano tentativo di ricercare le parole più adatte, aggiunse: «ho ricevuto l'ordine di portarti a casa.»

    La frase e quel dubitabile modo di fare non furono accolti di buon grado dalla giovane, la quale, scioccata ed irritata, riprodusse nella mente le parole appena ascoltate. Addirittura ordinato? Ma chi si crede d'essere questo tipo? Sta pur certo che in macchina con lui non ci salgo nemmeno morta. E quando parlò, la rabbia le conferì la giusta sicurezza: «apprezzo il tuo, seppur discutibile, tentativo di risultare gentile nei miei confronti ma, ti privo subito dell’incombenza» asserì convinta. «Rimarrò qui ad aspettare mia madre. E poi a me chi lo dice che tu sia un tipo affidabile?»

    Questa volta, tra i due, il più imbarazzato risultò essere lui; sembrava aver perso completamente l'uso della parola. Disperato, continuò a torturarsi il volto con la mano e Megan fu stupita di scoprirlo in quello stato.

    «Megan, tua madre...»

    Ad un tratto i pensieri subirono il brusco arresto. Una scomoda sensazione cominciò a seguire un senso logico rendendo tutto più chiaro. Ma allora, come mai nella sua mente una logica a tutto quello non c'era?

    «Sì, appunto, mia madre... la donna che conosci bene sta per arrivare», isterica, ricacciò le parole come fiume in piena. «È in ritardo, lo so, ma non è mai puntuale, te l'assicuro. E stai pur certo che entro cinque minuti la vedremo svoltare l'angolo. E poi, sai come sono fatte le mamme e conosci bene Yasmin, sai quanto possa diventare ansiosa. Non potrei mai farla preoccupare. Sì, sì lo sento, sta arrivando.»

    Jack lasciò cadere a terra l'ombrello afferrandole le mani; quelle mani che per tutto il tempo non avevano smesso di danzare senza sosta fra loro. E lei si ammutolì all'istante. Lo sguardo rammaricato del ragazzo fu più eloquente di mille parole.

    «Megan...» riempì i polmoni con più aria possibile, e Megan lo imitò; inspirò a fondo quel fluido umido e appiccicoso con il presentimento che, quello, fosse l'ultimo.

    Rivoli d'acqua correvano veloci tra le pieghe dell'asfalto. La pioggia aveva cessato di cadere e il silenzio riconquistò nuovamente lo spazio intorno a loro.

    «Megan, tua madre non arriverà.»

    Il silenzio tra i due fu eterno e assordante.

    Ad un silenzio surreale, colmo di dolorosi sospiri, seguì la violenza di un'indomita realtà; quest’ultima la travolse, trascinandola nel vortice della disperazione negli abissi di una disumana angoscia.

    Jack la tenne stretta in un abbraccio per tutto il tempo che fu necessario. Era toccato a lui annunciare la brutale notizia e, all'improvviso, quei due sconosciuti si trovarono a condividere un dolore tanto intimo da denudare l'animo umano.

    Il panico e l'incredulità del momento si tramutarono da subito in noia di vivere. A nulla servirono le grida e i pianti che le dilaniarono l'anima. Oramai divenuta involucro vuoto, foglia appassita, attese inerme sul ramo l'arrivo del vento amico, anelando il suolo ed una lesta fine.

    Da quell’attimo in poi gli istanti trascorsero lenti e distaccati per Megan, la quale si ritrovò a vivere quei giorni più da spettatrice che da protagonista alla tragedia che fu solo sua.

    Difatti la ragazza, oltre la madre, non possedeva nessun parente prossimo. Nessun padre che si occupasse di lei, nessuna sorella che condividesse le stesse pene, né la nonna, morta anch’essa qualche anno prima, lasciando alle due donne la piccola casa di proprietà alla periferia della città. Proprio quella casa che Megan, per un anno, non poté abitare. Era minorenne all'epoca e, subito dopo il funerale, si trovò a rimbalzare da un ufficio a un tribunale; ma la sorte e il buon animo dei Bennet decretarono il verdetto. L'orfanotrofio non sarebbe stata la sua nuova casa.

    Tuttavia a Megan non interessava il proprio destino, sicura che nulla sarebbe cambiato. Né una camera buia e affollata di uno squallido orfanotrofio sarebbe riuscita ad abbattere ancor più il suo tetro umore, né una lussuosa e spaziosa stanza nella lussureggiante villa dei Bennet l'avrebbe consolato. Così trascinò la piccola valigia fino al primo piano della fastosa residenza sulla collina, convinta, in cuor suo, di dover trascorrere quell'anno con rassegnazione assieme a persone che fino a quei giorni si erano mostrate scostanti e arroganti.

    Fino a quei giorni, però. Perché in seguito si dovette ricredere. Fu, infatti, solo grazie all'affetto materno di Kate, la complicità di Bruce, l'amicizia di Jessica e soprattutto grazie a Jack, che Megan cominciò a rifiorire. Dove tutti non riuscirono, il suo nuovo amico ce la fece. Nessuno meglio di lui riuscì a comprenderla e rassicurarla. Jack era presente nelle notti più buie, quando i mostri dell'inconscio tormentavano i suoi sogni e dilaniavano il silenzio dell'anima trascinandola nelle acque più scure. Lui arrivava sempre. L'eroe dalla sfavillante armatura correva in soccorso riportandola a galla.

    Ben presto il legame ad unirli divenne forte e indissolubile.

    Megan vide in Jack il suo migliore amico, il suo confidente e, perché no, anche il padre che non aveva mai avuto. E quel ragazzo, arrogante, meschino, altezzoso e borioso, nato e cresciuto per troppi anni nella fantasia di lei, svanì all'istante; la giovane si stupì di veder nascere una persona del tutto differente, un ragazzo dolce e affettuoso, premuroso e fedele, intelligente e generoso, altruista e per giunta davvero divertente.

    Così, mese dopo mese, non poté fare a meno di amarlo, ma non con passione e desiderio, bensì con un amore puro e innocente, il medesimo spontaneo di un fratello ed una sorella.

    E Jack ricambiò appieno i sentimenti di lei.

    2. LA MIA NUOVA FAMIGLIA

    Megan girò giusto in tempo la testa per vederli arrivare, ma non abbastanza in fretta da riuscire ad evitare la valanga di sabbia e di schizzi d'acqua salata che di lì a poco l'avrebbe investita.

    Col proprio corpo fece scudo all'adorato libro, ma tutto il resto rimase indifeso di fronte all'arrivo di Sean e Jack, che come due invasati, correvano a perdifiato sul bagnasciuga.

    Con la lingua di fuori, Sean, meticcio biondo scuro da mezzo quintale, galoppava senza freni sulla sabbia ardente, seguito a poca distanza dall'atletico ragazzo in pantaloncini rossi. Ad ogni passo i muscoli del corpo si contraevano mettendo in risalto quel fisico asciutto di centonovantadue centimetri scolpito nella roccia e dall'abbronzatura dorata che, contrastando col chiarore dei capelli, rendeva quella visione idillica di rara bellezza. Ma non per Megan, non in quel momento rannicchiata su se stessa.

    Felicissimo di vederla, il cagnolone le piombò addosso riempiendola di baci bavosi e, invadendo quasi completamente il telo chiaro da mare, lo inzuppò colorandolo di marroncino, lo stesso colore della sabbia bagnata.

    «Sean, basta ti prego! Calmati un istante!»

    La ragazza, sdraiata a pancia all'aria, tentò invano di allontanare il bestione.

    «Mi hai battuto un'altra volta ammasso di peli puzzolenti!» Jack sopraggiunse ansante. Piegato in due, faticò non poco nel recuperare il fiato perduto nella pazza corsa. «Ridi, ridi pure... ti piace vincere facile e vantarti con lei, non è vero? Se solo avessi avuto due gambe in più... ma vedrai la prossima volta, non ci sarà scampo per te. Ti farò mangiare la polvere» lo minacciò, senza riscuotere alcun timore. «Ride bene chi ride ultimo, cane infame!»

    «Jack! Finiscila di dire sciocchezze e aiutami, altrimenti te la faccio mangiare io la sabbia.»

    Il giovane sghignazzò, evidentemente non molto preoccupato delle minacce dell'amica.

    «Dai su bello, vieni qui. Questo topo di biblioteca non apprezza i vincitori. Come vedi, ama solo i poeti pazzi e rachitici.» Afferrò il cagnone dal collare e, per forza maggiore, Sean dovette allontanarsi con non poche proteste.

    «Cosa ti dice il cervello Jack?!» Megan era su tutte le furie. «Cos'è che non ti è chiaro nella frase: Oggi non faccio il bagno per non sporcare i capelli?» Imbestialita tastò le lunghe ciocche brunite. «Non potevate scegliere un altro traguardo?»

    Si allungò all'indietro alla ricerca di qualcosa nella colorata borsa a secchiello, che Sean col suo arrivo aveva scaraventato poco distante, ma quando trovò il piccolo specchietto rotondo, un volto riflesso la sconvolse. Irriconoscibili i lunghi capelli castano scuro, per gran parte erano ricoperti da uno strato denso e compatto di una granulosa poltiglia maleodorante e appiccicosa. Un gridolino isterico nacque a quella vista.

    Jack, incapace di trattenersi, le diede le spalle tentando di celare il divertimento; questo suo modo di fare, fece andare ancor più fuori di testa Megan che nel frattempo, con un pettine dai denti larghi, tentava inutilmente e disperatamente di dare una forma decente al capo disordinato.

    «Maledizione! I miei capelli!» sbraitò ancora.

    «E dai Megan! Ora non farne una tragedia, in fondo si tratta di una stupidaggine.»

    «Va al diavolo, Jack!»

    «Mmm...» mugugnò in difficoltà Il ragazzo. «Quanto sei permalosa! Ma non sai che d'estate ogni scherzo vale?»

    «Carnevale!» ululò isterica.

    «Chi è carnevale, dov'è?»

    «No, non c'è nessun carnevale, ma a carnevale ogni scherzo...»

    Jack si girò attorno alla ricerca... di nessuno naturalmente. Dinanzi ad una scena tanto pietosa, Megan decise di lasciar perdere. Si alzò e con energetiche manovre scrollò di dosso il più possibile, per i capelli tuttavia non ci fu nulla da fare, così, servendosi di un elastico nero, li legò stretti in una coda alta.

    Animati da un’energia inestinguibile, due gladiatori si rotolavano nella sabbia, fronteggiandosi in una lotta senza esclusioni di colpi; inorridita, la spettatrice, assistette a quel groviglio di muscoli e peli, faticando non poco nel distinguere la bestia dall'umano. E mentre Jack tentava animosamente di mordere l'orecchio del suo compagno di giochi, l'altro, imbestialito, ringhiava e si dimenava senza però riuscire a trovare scampo da quella morsa ferrea.

    «Si può sapere come fate a trovare tanta energia con questo caldo?» sospirò infelice la fanciulla «e io che desideravo fare bella figura con i tuoi.»

    «Meg, ti conoscono da una vita e ti adorano, lo sai. Quale bella figura dovresti fa... Ahi!» urlò. «Bastardo, mi hai morso!»

    «Ben ti sta, caprone» disse Megan soddisfatta; indaffarata con le mani nella borsa, si spinse in profondità alla ricerca del cellulare disperso chissà dove tra le tante cianfrusaglie.

    Quel giorno sarebbe stata ospite per il pranzo a casa dei Bennet per festeggiare il cinquantesimo compleanno di Bruce. Speranzosa di ricevere aiuto con i preparativi, Kate, la padrona di casa, le aveva fatto promettere di raggiungerla entro mezzogiorno.

    Fu con terrore che la ragazza scoprì quanto potesse essere veloce la lancetta dei minuti nei momenti felici.

    «Finitela, voi due!» strillò e il più velocemente possibile riempì la sacca.

    Le dodici erano passate ormai da un pezzo; aveva maturato un vergognoso ritardo il quale, sommato al proprio aspetto, avrebbe fatto tutt'altro che un'ottima figura. «Tua madre ci ammazzerà se entro dieci minuti non saremo lì.»

    I due, incuranti, continuavano a rotolarsi senza sosta nella sabbia, snobbando lei e la sua preoccupazione.

    A quel punto Megan non ne poté più.

    «Ora basta! Mi sono davvero scocciata!» L'isterico tono di voce fu abbastanza minaccioso da far scattare i due come soldatini che, messi sull'attenti, si prepararono ad eseguire gli ordini del capo.

    «Tu, raccogli le tue cose. E tu, fila qui...», sospirò, «no Jack, non tu, dicevo a Sean.»

    Il meticcio, quando vide la lunga corda blu, le corse incontro scodinzolando felice come una pasqua. Faceva sempre così ogni qualvolta doveva essere portato a spasso, il grosso cagnolone si faceva prendere dall'eccitazione. Il solo fatto di vedere il guinzaglio rendeva la giornata la più bella della sua vita e così ogni giorno lo era.

    «E comunque, per la cronaca, i poeti non sono rachitici né tantomeno pazzi.»

    «E a te chi lo dice, topolino?»

    «Lo dico io e basta.»

    Jack incrociò le braccia sfidandola.

    «Bene, allora fammi qualche esempio di poeta figo e normale.»

    La ragazza, smarrita, cercò di visualizzare qualche volto carino nella propria mente, ma sfortunatamente nessuna immagine la raggiunse. «Ora non me ne viene in mente nessuno, ma sono sicura di aver visto un paio di foto di uomini affascinanti e desiderabili; e comunque, nessuno di loro era pazzo. Pazzo è chi non apprezza ciò che scrivono.»

    Il giovane socchiuse gli occhi fino a farli divenire sottili fessure e quindi chiese: «mi stai dando del pazzo, per caso?»

    Soddisfatta, Megan lo sorpassò impettita con Sean al seguito. «Io? Assolutamente no. Se ti senti tale allora controlla alle tue spalle, magari ti è spuntata la coda.»

    La seguì sorridendo; adorava stuzzicarla, a volte passavano giornate intere a punzecchiarsi in quel modo.

    Raggiunsero il grosso fuoristrada. Sean saltò dietro nel portabagagli ben attrezzato ormai solo per lui, mentre i due si sistemarono sui comodi sedili anteriori e quindi partirono a tutto gas sotto i raggi cocenti del sole pugliese.

    «Smettila di guardare di continuo che ora è. Fai venire l'ansia anche a me che sono un tipo calmo.»

    «E vedrai che ansia quando tua madre saprà di chi è stata la colpa.»

    «Ehi! Non guardare me, la colpa è solo sua. È stata sua l'idea di fare un'ultima corsa. Non era nel programma.» Col pollice destro indicò il retro della vettura, e dallo specchietto Megan lo vide. Il suo cucciolo un po' troppo cresciuto, stava seduto sulle zampe di dietro con la bocca spalancata; appesantito dal caldo, con tanto di lingua di fuori, ma felice come non mai, faceva incetta d'aria fresca che dal finestrino aperto lo investiva appiattendogli le orecchie sul rotondo capo liscio. Così non poté fare a meno di sorridere.

    «Ecco, ogni volta la stessa storia. Ti arrabbi solo con me, mentre lui viene coccolato e sbaciucchiato qualsiasi cosa faccia» Jack inscenò un finto broncio, ma con lo spigolo destro della bocca tremolante, finì per scoppiare a ridere quando, anche lui, scorse la figura comica nello specchietto retrovisore.

    La macchina correva veloce lungo il litorale salentino, costeggiando le vaste pinete antistanti le spiagge dorate di acque turchesi. Tutt'intorno, la natura esplodeva rigogliosa nel verde della macchia mediterranea; compatti cespugli di rosmarino, di salvia e origano coloravano l'aria con profumi speziali.

    Fissando un punto lontano, Megan pensò a quanto le cose fossero cambiate in quell'ultimo anno e mezzo. Tanto era il tempo trascorso dalla morte di sua madre, in quello sfortunato incidente d'auto. Gran parte dei giorni a seguire li aveva vissuti in compagnia dei Bennet, ma da qualche mese, era tornata ad abitare la piccola casa di periferia, nonostante le proteste e le suppliche della sua nuova famiglia. Ferrea nella propria decisione, non ci fu niente e nessuno in grado di farle cambiare idea.

    Fondamentale la presenza dell'amico al suo fianco al varco della porta di casa, quando un'onda di nostalgici ricordi minacciò di travolgerla; prezioso e necessario, il braccio forte di Jack le impedì di crollare a terra sopraffatta dal dolore. Ma non rimase a lungo l'unica occupante della casa. Sean arrivò nella sua vita all'improvviso, proprio come tutti gli eventi susseguitisi in quell'ultimo anno e mezzo.

    Più volte i genitori di Jack avanzarono l'idea di occuparsi di lei anche dopo la fine del liceo e l'abbandono della villa, proponendosi di pagarle gli studi di medicina, strada che tanto aveva fantasticato percorrere, ma che alla morte della madre vide sgretolarsi in mille pezzi.

    Malgrado le continue pressioni, Megan non accettò l'aiuto di denaro dei Bennet; decisa a provvedere da sola al proprio sostentamento, trovò un lavoretto in un piccolo minimarket poco distante da casa, sottraendo così gran parte di ore alla sua vita e all’ambizioso sogno che non si sarebbe mai più realizzato.

    Una sera di dicembre, rincasando dopo il turno serale, aveva percepito una strana e inquietante presenza alle spalle. Aveva corso veloce fino a raggiungere la porta di casa, ma la disagiante sensazione di paura non cessò di tormentarla durante tutta la notte. Ne era sicura, qualcuno l'aveva seguita e spiata fino al mattino. Quella fu l'ultima notte trascorsa in solitudine. Il giorno seguente, assieme a Jack, si recò in canile, convinta che un cane avrebbe reso più sicuro e, soprattutto più allegro, il suo rifugio nelle lunghe notti invernali. E quando vide quegli occhioni tristi, costretti dietro alle sbarre di una minuscola cella affollata, se ne innamorò all'istante. L'infanzia del giovane animale era stata segnata da una tragedia molto simile alla sua. Anche la mamma di Sean era morta sulla strada, abbandonandolo ancora cucciolo, solo e smarrito. Gli occhi di lui raccontavano lo stesso disperato desiderio d'amore. Megan non ebbe dubbi; il loro incontro era stato scritto dal destino. E così da quel giorno furono inseparabili.

    La macchina svoltò a sinistra arrampicandosi lungo una stradina secondaria, e Megan sussultò terrorizzata; l’esagerata esternazione fece trasalire pure Jack.

    «Cosa c'è, chi c'è...», farneticò il giovane, «hai visto qualcosa, qualcuno?» Il ragazzo in allerta, serio come non mai, fece rimbalzare lo sguardo dalla strada a lei, proprio come una pallina in un campo da tennis.

    Tuttavia Megan non rispose, continuò invece a maledire sottovoce chissà cosa facendo morire di paura il povero autista.

    «Allora? La finisci di torturarmi? Vuoi dirmi cosa hai visto?» Iniziavano addirittura a sudargli le mani.

    «Ma nulla! Non ho visto proprio nulla» scrollò la testa. «Anzi, forse sì! Ho visto la mia plateale figuraccia quando mi presenterò al compleanno di tuo padre con questo aspetto, in ritardo e, soprattutto, senza regalo» sospirò afflitta. «Ti prego torna indietro, sarà questione di attimi. So già cosa comprargli; ho visto una cravatta davvero carina in quel negozietto che piace tanto anche a te. La dovevo acquistare l'altro giorno, ma avevo dimenticato il portafoglio a casa, e così...» desolata, portò una mano alla fronte chiudendo gli occhi. «Ma dove ce l'ho la testa in questo periodo?»

    Jack nel frattempo si era lasciato andare ad un sospiro di sollievo, curvandosi come una 'C' sul sedile del guidatore. «Cacchio Meg, per poco non mi facevi venire un infarto.»

    «Wow, piuttosto fifone per uno della tua stazza e per giunta chiuso in un bestione a quattro ruote come questo. Chi mai avrei dovuto vedere di così spaventoso a quest'ora del giorno, Satana? Forse il sole ti ha dato alla testa» lo contemplò senza ricevere alcuna risposta.

    Jack fissava troppo serio la strada di fronte a lui, ma accorgendosi dello sguardo insistente di lei, mutò repentinamente espressione.

    Ora rideva.

    «Stai tranquilla. Per il regalo non preoccuparti. Ci ho già pensato io, e dal modo in cui ha strabuzzato gli occhi questa mattina, sono sicuro gli sia anche piaciuto parecchio» fiero e soddisfatto le strizzò un occhio.

    «E poi a quest'ora quale negozio speravi di trovare aperto?» le mostrò il quadrante del proprio orologio subacqueo.

    «Ma come, ci hai già pensato tu? Quando? E Perché? Non è giusto, Jack!» Infastidita dalla premura non richiesta, incrociò le braccia al petto.

    «E dai Meg, ora non fare così. Ed io che pensavo di fare una cosa giusta.»

    «Non metto in dubbio la tua buona volontà e ti ringrazio, ma avresti potuto chiedermelo o almeno avvisarmi.»

    «Sapevo che non avresti mai accettato.»

    «E mi sembra ovvio! Ho visto i regali che vi scambiate, non ci vorrà molto per capire che il mio contributo è stato irrisorio o addirittura nullo, come in questo caso.»

    «Non è assolutamente vero, in realtà sul bigliettino ho inserito anche il nome di Jessica, quindi regalo in tre, quota divisa per tre.»

    «La vostra quota potrà anche essere divisa per dieci, ma rispetto alle mie possibilità economiche sarà sempre elevata.»

    L'amico stava ridendo, quando voltandosi, si trovò a fronteggiare due occhioni color nocciola spalancati come fanali.

    «Ma uffa, perché devi essere sempre così?!»

    «Così come?» sibilò stizzita; incrociò le braccia al petto e attese una risposta che tardò ad arrivare.

    Il ragazzo, in

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