Storie di quarantena
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Dieci storie (più una) di persone quasi normali alle prese con la solitudine, l'ansia, la sfida e le nuove abitudini portate da una pandemia senza precedenti.
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Book preview
Storie di quarantena - Bruno Casagrande
http://write.streetlib.com
Le scarpe
«Forse dovrei pulirle» pensò, guardando le scarpe infilate sotto il termosifone.
Fece due calcoli a mente: lunedì sarebbero state sei settimane, 42 giorni senza uscire di casa.
L'ultimo giro, in farmacia a fare scorta di Oki e a chiedere se avessero mascherine. Gli risero in faccia.
«E amuchina invece?». Risata numero due.
Quarantadue giorni senza uscire. Quarantadue giorni senza infilare le scarpe. Quarantadue giorni in cui le Doctor Martens care come un mutuo erano ficcate sotto il calorifero ormai spento.
La spesa consegnata a domicilio, vino e birra compresi. E non aveva lasciato passare una cena senza bere qualcosa di alcolico. L'abbonamento a Netflix. E poi Amazon Prime Video, come se non bastassero gli acquisti con cui faceva fruttare l'extra annuale per risparmiare sulle spedizioni. Era arrivata anche Disney Plus. E poi YouTube, le teche Rai. Internet. Perfino PornHub aveva regalato un mese di contenuti premium. Ma, doveva dirlo, quello era stato deludente.
Si era imposto almeno di vestirsi ogni santa mattina. E non solo per le videolezioni con i suoi allievi, che alla fine si risolvevano in chiacchierate. Tipo terapia di gruppo a distanza per quei tredicenni che, dietro l'ansia per l'esame di terza media, nascondevano lo stress per le loro abitudini spazzate via. E lui che riempiva i loro vuoti tralasciando il programma d'italiano e chiacchierando anche di videogiochi, fermandosi a tanto così dall'insegnare loro i trucchi per scaricarli pirata. Ammesso che ne avessero bisogno.
Ogni santa mattina, dopo la doccia e una risistemazione sommaria a barba finto-incolta e capelli, sceglieva una maglietta pulita o una camicia e infilava i calzini e i jeans. Ma mai le scarpe. Bastavano i calzini, o quel paio di orribili antiscivolo arancione con i fantasmi fluorescenti che aveva comprato a un Halloween. Più spesso, le sue vecchie pantofole dell'Inter, con il buco in corrispondenza dell'alluce. Quelle nuove erano già in arrivo: per non perderle di vista, le aveva salvate settimane prima nella lista dei desideri di Amazon. Con il tempo libero extra della quarantena, si era deciso a comprarle.
Gli sembrava di avere un sacco di tempo in più, in effetti. Se n'era accorto il suo divano. Erano le undici di sabato mattina ed erano già (o ancora?) in perfetta simbiosi. I cuscini morbidi sembravano avvolgersi al suo corpo molle e immobile. S'immaginò un futuro distopico in cui il lockdown non finisse mai. Lo avrebbero trovato lì settimane dopo, fagocitato dai cuscini, cresciuti come un magma attorno a lui, come quelle piante rampicanti che si impossessano delle case abbandonate, intrufolandosi tra mattoni e cemento, rendendole il loro habitat. Sì, lo avrebbero trovato così, con il telefono ancora attaccato alla presa di corrente che riproduceva in un loop infinito gli highlights di Inter-Bayern finale di Champions. Almeno sarebbe morto felice, negli occhi i capolavori di Diego Milito.
Pensò a quella sera. Era mai stato più felice di così? Poi ragionò sulla felicità. È nobile provarne di così intensa per qualcosa che non dipende da noi? Che vita insipida è quella in cui la gioia più sconfinata scaturisce dal gol di un centravanti argentino in contropiede? Pensò che avrebbe potuto parlarne con qualcuno. E non aveva nessuno con cui farlo. Il suo telefono riproduceva video, non riceveva messaggi. E le telefonate erano solo quelle della mamma da giù, terrorizzata da quando s'inventarono la prima zona rossa a febbraio. Per lei il Nord era un concetto geograficamente imprecisato. Per lei era come se fosse tutta Codogno.
«Mamma, guarda che sto a duecento chilometri da lì»
«Sì,