Il crivello di Eratostene
By Franco Amato
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La confessione che ascolta tuttavia lo lascia basito: non solo il peccato per cui viene chiesta l’assoluzione non è ancora avvenuto, ma l’uomo dichiara che ucciderà il vescovo di Lucca.
Che fare? Don Mario è vincolato al segreto della confessione e non può consigliarsi con nessuno.
Davvero gli è stato rivelato in anticipo un atroce piano omicida magari perché egli riesca a fermarlo in qualche modo? Una sorta di richiesta in extremis di aiuto da parte di una mente confusa. Oppure gli è stato più semplicemente fatto uno scherzo blasfemo?
Dopo averci riflettuto, aggira il vincolo del sacramento confessandosi a Sua Eminenza che decide di interpellare il questore di Lucca, soprattutto in vista dell’approssimarsi delle celebrazioni del Natale. Il questore, sensibile alle dinamiche sociali e alle sue possibili ricadute, affida pertanto il compito di presenziare, in modo discreto ma attento, alla messa della Vigilia, al commissario Iannone, giovane napoletano trapiantato da alcuni anni in lucchesia.
Nonostante la polizia sia allertata però, il ventiquattro dicembre, l’assassino riesce a entrare nel duomo di Lucca, avvelenare il vino eucaristico e sparire nel nulla, senza lasciare la benché minima traccia.
È l’inizio di un incubo per la città di Lucca, i cui maggiori esponenti religiosi, politici ed economici iniziano a ricevere messaggi di morte firmati c.d.e.
Franco Amato, nel suo stile elegante e brioso, combina uno spartito letterario in cui la musica jazz si unisce all’algoritmo di Eratostene e un ospitale agriturismo fa da contraltare a una residenza per anziani dal nome inquietante.
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Il crivello di Eratostene - Franco Amato
genitori.
2
Un prete, vestito della sua fiducia nell’uomo, una fiducia sincera come la flanella calda del suo abito nero clergyman, passeggiava nervosamente nella navata centrale della chiesa inseguito dall’eco dei suoi passi, braccato da certi dolori gastrici che rendevano poco sopportabile la postura composta nel confessionale. Sbuffava nervosamente con manifesta insofferenza. Un nugolo di fedeli, assiepato lì vicino, seguiva l’ambulare nevrotico di don Mario, visibilmente avvilito dal reflusso gastroesofageo che lo tormentava, ormai sin dal pomeriggio del giorno prima.
Padre? Forse oggi non se la sente?
qualcuno chiese garbatamente con voce appena più che sussurrata, sorprendendo don Mario che, giratosi verso l’altare, cercava risposta in Lui, nel grande Boss. Il dolore c’era evidentemente. Come dissimulare? Non che fosse poi così insopportabile. Non era l’intensità del dolore fisico, era la continuità dello stesso che, senza mollare mai un momento, lo accompagnava costantemente, in ogni dove e senza scampo. Non aveva chiuso occhio tutta la notte. Dall’altare, però, non arrivavano segnali, nessuna indicazione. Sembrava divertirsi, il grande Boss, a metterlo alla prova.
Vediamo come se la cava il buon vecchio don Mario con le confessioni, se gli mando anche un po’ di reflusso gastroesofageo.
A dirla tutta, a don Mario sembrò proprio di vedere un bel sorriso crudele, là verso l’altare. Ma lui mica era Giobbe. Queste prove proprio non le sopportava. Non aveva il physique du role per prove di forza, di resistenza, di dedizione, di fedeltà, di abnegazione. Ma, insomma, che si contentasse anche il grande Boss di com’era fatto lui. Era fatto così, come un uomo normale, senza particolari qualità, ma pur sempre fedele, al punto giusto almeno. E se era fatto così, d’altra parte, con chi poteva lagnarsi, il grande Boss, se non con se stesso? Non poteva certo rivolgersi al solito ufficio reclami ( senta, questo è proprio venuto male), senza cadere nella palese contraddizione di scoprire di avercela con se medesimo. E ancora, se il grande Boss stava facendo autocritica, perché tirarlo in mezzo, perché coinvolgere un povero sacerdote di provincia in tutto questo?
Guardò di sottecchi verso l’altare, convinto di incrociare lo sguardo sornione dell’Altissimo, sorprendendolo con un rapporto così fresco e diretto, così leale e paritario. Ma a cotanta autoreferenziale capacità di dialogare, Lui rispose con un eloquente nulla, tanto che il dolore addominale di don Mario non aumentò né diminuì.
Don Mario si trattenne l’addome, premendo la mano contro il diaframma, poi deglutì e andò verso i parrocchiani, con passo incerto e malcelato fastidio, accompagnato passo passo da un incombente senso del dovere. Don Mario era fatto così: quando si trattava del suo gregge, tutti i dolori tornavano a essere solo suoi. Li ripiegava e li metteva a posto, per riprenderli regolarmente alla fine delle sue incombenze.
E allora forza, sotto a chi tocca, si disse sistemandosi nel suo scomparto nel confessionale. Si distese poggiando la testa indietro sul legno scuro, poi aprì la grata di destra e una voce invisibile, roca e colpevole, disse: Padre, mi perdoni perché ho tanto peccato
.
E cominciò così una sequenza di bassezze umane, di vili storie di persone avvinghiate nel turbine peccaminoso della vita, di tradimenti, di cattiverie, di invidie, di maldicenze e altro, e altro ancora. A ognuna di queste corrispondevano fitte e dolori fisici veri, che si conficcavano nel costato del sacerdote, lame calde che penetravano nella pelle viva. Ogni nuovo dolore si sostituiva progressivamente ai precedenti, annientando per sempre quella stupida gastrite che solo fino a poco fa sembrava così insopportabile. E don Mario combatteva una sua strenua battaglia, conscio dell’immensità della guerra, affibbiando i colpi che poteva: cinque Padre nostro da una parte, sei Ave Maria dall’altra, tre Gloria al Padre che non si sa mai. Un Salve Regina al dì, prima o dopo i pasti, non importa. Che fatica snocciolare le precise ricette salva-anima! Antibiotici preziosi da somministrare con cura, raccomandando l’accortezza di farne un uso moderato. Il bugiardino, d’altra parte, in caratteri piccoli, invisibili ai più, ne indica dosaggi prestabiliti e minaccia effetti collaterali, finanche il male più estremo, l’ateismo, morte definitiva dell’anima.
Certe corde dell’anima vibravano quando l’autunno si divertiva con le foglie degli alberi, tinteggiandole con pennellate che attingevano a tutta la tavolozza dei colori: dal verde più brillante al marrone più scuro, passando per i toni di giallo, di arancio, sorprendendo con il rosso. Sulle Mura della città ingiallivano i platani; nel Giardino Botanico gli aceri viravano al rosso. Foglie secche erano sparpagliate sui selciati, nelle piazze, ai bordi delle strade, sugli spalti delle Mura. Un vento scostante si manifestava in vortici evanescenti, fatti di niente, poco più di stanchi soffi. Il sole si insinuava nelle creste degli alberi, allungando ombre morbide sui sanpietrini di piazza Grande, baluginava indeciso sulla testa dell’arcangelo Michele, sulla facciata gloriosa della chiesa, incoronandolo sempiterno vincitore su un maldestro drago.
Erano le prove generali dell’inverno, che si manifestava con tutto il suo strumentario di spifferi gelidi e luci opaline, riverberi lattiginosi e cieli grigi e incombenti. Lo spettacolo della natura che si ammalava di questa malinconia, che dava la rappresentazione della caducità della vita, andava in scena in tutta la città, senza che ci fosse un biglietto da pagare.
Mancava solo la pioggia, quella fitta e nebulizzata che entra dentro, fino ad annacquare le midolla, inzuppare le anime, inzaccherare i lucchesi che, coraggiosi, si attardavano nelle strette vie cittadine. Il cielo incombeva, indugiando in ampie nuvole soffici e bianche, che viravano allo scuro, al grigio, al torvo. Ma, per adesso, questo equilibrio degli elementi si reggeva in bilico su una dinamica fatta di caos, che lega grandi effetti a cause inconsistenti, un uragano al battito delle ali di una farfalla, un terremoto alla caduta casuale di un sassolino sul versante ripido e versiliese della Pania della Croce, un omicidio all’inquietudine di un uomo.
Un uomo di chiesa occupava responsabilmente il suo posto. Don Mario si carezzava la giacca un po’ troppo ampia, tastando la trama calda del tessuto; raggiunse con i polpastrelli della mano destra il gomito sinistro e indugiò, nell’abbraccio consolatorio di se stesso, sulla consunzione della tessitura dell’abito, anch’esso in procinto di dissolversi.
Don Mario sentiva una fitta proveniente dal piede sinistro, dal suo callo, prodromico avvertimento che il tempo stava per cambiare. Spostò la tenda per scrutare le panche della chiesa e non vide nessuno; mentre seguiva distrattamente le parole di afflizione e pentimento provenienti dallo scomparto accanto, pensò che quella sarebbe stata l’ultima fatica del giorno. Già calibrava mentalmente i dosaggi di Ave Maria e Padre nostro, quando sentì un cigolio nell’altro inginocchiatoio, segno che le fatiche del giorno erano destinate ad allungarsi. Dispensò il preparato galenico, fatto di una sapiente mistura di preghiere composta mentalmente e salutò quel penultimo fedele. Poi sbirciò nuovamente nella penombra della chiesa, per cercare la conferma che quella sarebbe stata davvero l’ultima fatica. Non vide nessuno, e questo lo consolò. Aprì la grata sui nuovi peccati che sarebbero stati raccontati, su quell’ultima ventata gelida di umanità degradata, che cercava in lui una guarigione, ma lo fece con maggiore serenità, sapendo che dopo avrebbe potuto tornare a lamentarsi della sua personale gastrite.
Dimmi, figliolo, cosa hai combinato?
chiese paterno don Mario.
No, padre, non è quello che ho fatto…
disse una voce incolore.
Don Mario guardò la grata in tralice per cercare di riconoscere il buontempone del suo gregge, che cercava di prendersi gioco di lui, ma non vedeva bene, era troppo buio. Era passata più di un’ora e il cielo adesso era scuro e minaccioso. Filtrava dall’esterno una vacua debole luce. Nella chiesa ondeggiavano fiammelle sopra molli ceri consunti.
Padre, chiedo perdono per quel che farò…
Il sacerdote, che già pensava al grande Boss che se la rideva, avendo mandato quest’ultimo scherzo, decise di stare al gioco. E vediamo dove vogliamo arrivare.
E che cos’è, figliolo, che farai?
Padre, ucciderò il vescovo di Lucca perché ha peccato e il suo sangue dilaverà tutte le sue colpe.
Don Mario non seppe come reagire: le sue labbra si piegarono di lato in un’impercettibile amarezza che avrebbe potuto essere scambiata per un sorriso, faticosamente sarcastico, e gli occhi vitrei si svuotarono sentendosi sul bordo di un abisso.
Restò sospeso in un laconico ma?
, attendendo di scoprire dentro di sé una qualche ragionevole reazione che tardava ad arrivare. Scoppiare a ridere, incassare lo scherzo, tentare una dissuasione, fermare sul nascere un piano diabolico e iperbolico? Forse neanche un piano, una minaccia, una semplice minaccia. Nemmeno il tempo di formalizzare un timido percorso logico, che un’ombra scompariva nella navata laterale.
La chiesa era vuota. L’eco complice riverberava lo scalpiccio frettoloso e già il futuro peccatore scompariva dietro la porta.
Tardivamente, ma forse non troppo, don Mario si lanciò nella rincorsa di quell’anima peccatrice, al recupero di quell’incipiente perdizione. Il respiro affannato combatteva con la stola svolazzante, ma quando il parroco ebbe guadagnato l’uscita, il sagrato della chiesa si presentò come un deserto disanimato. Da che parte correre? Dove andare? Chi inseguire? Dove scappare?
E il fiato del prelato, già rotto nel respiro, ricordava la sua salute cagionevole, fatta di piccoli acciacchi. Questi sì che lo tamponavano da presso, non lo mollavano mai. E lui adesso che faceva? Se ne dimenticava? E s’improvvisava in una corsa impossibile all’inseguimento di uno sconosciuto che aveva vaneggiato?
Non si può! Non è previsto! Non esiste la confessione preventiva! Eccheccazzo!
E mentre i suoi acciacchi riprendevano possesso del suo corpo, spossato dalla corsa, con il respiro ancora affannoso, ebbe la consapevolezza che la minaccia-confessione ricevuta da quello sconosciuto era concreta. Il vescovo rischiava grosso. Ma come si metteva con il segreto del confessionale? Come poteva lui riferire ciò che gli era stato detto, senza infrangere quella sacra regola? Il suo segreto professionale poteva essere tradito in una situazione così eccezionale?
Una forte emicrania lo colse all’istante. Sul sagrato della chiesa. Mentre tornavano a tormentarlo i dolori addominali della colite. Non riuscì più a contenersi e i dilemmi di quel semplice prelato si sciolsero in una flatulenza liberatoria, che, se non fosse stato sul sagrato della chiesa, davanti