La Luce Del Cielo: Il Pianeta Dai Due Soli
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La Luce Del Cielo - Daniele Pezzano
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Prologo
La luce di un distante sole alieno si rifletteva pallida, con riflessi dall’ocra all’arancio, sulla superficie un tempo levigata dell’astronave. L’immensa arca dalla forma allungata e vagamente simile a quella di un enorme sigaro, scivolava placidamente nell’assoluto silenzio ai confini esterni dello spazio di quell’ignoto sistema solare, quasi senza fretta e nonostante una lunghezza di poco meno di duecento metri e un’altezza che nella sezione centrale raggiungeva superandoli, i venti, la nave appariva piccola, microscopica se comparata all’immensità che la circondava. Una grande scritta un tempo d’un rosso acceso ma adesso sbiadita e quasi del tutto illeggibile, tentava di mostrare al nulla attorno il nome della nave. Prometheus, come colui che nelle antiche leggende terrestri rubò il fuoco degli Dei per donarlo agli uomini. Nessun segno di attività tuttavia animava le sue torri di osservazione e i suoi boccaporti. Le due grandi piste da cui un giorno sarebbero dovute partire le navi dei coloni giacevano spente, con le loro linee ormai scolorite a solcare appena accennate i suoi fianchi. Come un vascello fantasma uscito da un vecchio romanzo, così la Prometheus avanzava verso un punto solo all’apparenza indefinito innanzi a sé. Da parecchio ormai non c’era più una porzione completamente integra di quell’immenso scafo che un tempo era stato tinto d’un bianco abbacinante ai lati e dello stesso azzurro del cielo della Terra da cui era partita, sul ventre. Proprio le grandi placche lamellari della corazza ventrale vibrarono di colpo per tutta la lunghezza dello scafo. Una vibrazione minima, praticamente impercettibile, qualcosa che di certo nessun essere umano avrebbe potuto percepire coi suoi sensi. Eppure proprio quella minuscola vibrazione era il segno che l’enorme pianeta che si stagliava con la sua immane mole a destra della nave, aveva iniziato a far sentire la sua forza gravitazionale e come un potente vortice che attira a sé i legni che incautamente gli si avvicinano troppo, così ora il gigante stava tentando di ghermire quella inusuale preda. Le strie di gas che ne componevano la densa atmosfera e probabilmente anche tutto il pianeta, vorticavano su loro stesse a folle velocità tinteggiando la superficie di quel corpo celeste da un blu tanto cupo quanto l’oscurità dello spazio circostante, a un indefinito colore violaceo, ma la distanza comunque ragguardevole dalla Prometheus, le faceva apparire immote. Solo la misurazione degli strumenti avrebbe potuto registrare la reale potenza dei venti che le agitavano. Altre vibrazioni si susseguirono una dopo l’altra con sempre maggior forza. Poi, una manciata d’istanti dopo, di colpo, gli enormi motori si accesero e sebbene all’esterno nulla potesse essere udito, nei tetri e bui corridoi interni, il rumore stridente delle strutture che assorbivano la spinta improvvisa, rimbombava lamentoso. Ora le vibrazioni si fecero sempre più violente mentre il sistema di propulsione reagiva a quell’appena accennato, ma potenzialmente mortale, abbraccio. Il pinnacolo della tecnologia terrestre, il miracolo dell’ingegneria e dell’astrofisica, un connubio di scienza e visionario desiderio di esplorazione, così fu descritta la nave dai cronisti terrestri quando partì dal suolo del pianeta diretta verso la sua meta lontana e quel sistema di propulsione stesso era tra tutti, il fiore all’occhiello di quella meraviglia che incarnava in sé il sogno recondito dell’uomo di dominare lo spazio. I motori posteriori e ventrali erano solo una parte di un complesso sistema che abbinato a un emettitore di onde gravitazionali, rendeva la nave capace di viaggiare a una velocità pari alla metà di quella della luce. Vent’anni sarebbe dovuto durare il suo peregrinare nel cosmo, verso una stella distante poco meno di una decina di anni luce attorno alla quale le analisi spettrografiche avevano rilevato un potenziale pianeta abitabile. Duemila coloni vennero imbarcati e posti in un sonno criogenico, duemila prescelti, selezionati tra milioni dalle cinque maggiori nazioni finanziatrici di quel grandioso e per certi versi folle progetto di conquista planetaria. I motori continuarono nel loro silenzioso rombo spegnendosi di botto così come si erano accesi dopo qualche minuto e facendo ripiombare la nave nell’assoluta immobilità da cui era uscita poco prima. La prua puntava ora nuovamente ed ostinatamente, verso quella sua sconosciuta meta, un piccolo pianeta roccioso posto nella fascia abitabile di quel sistema solare. La sua storia, come accennato, iniziò parecchi anni prima, quando grazie all’utilizzo di sistemi sempre più precisi e potenti, si era riusciti a scovare tra le migliaia di stelle visibili dalla Terra, una relativamente vicina e dalle caratteristiche simili a quelle del Sole. L’eccitazione poi crebbe ancor di più quando le analisi spettrografiche rilevarono la presenza di un pianeta potenzialmente abitabile in orbita attorno a quella stessa stella. Quell’eccitazione non era tanto giustificata dal fatto che si trattasse probabilmente di un pianeta abitabile, se ne contavano ormai migliaia, quanto dal fatto che quello era da considerarsi per certo il più vicino e le tecnologie di propulsione ora avrebbero permesso seppur con ingentissimi investimenti, di approntare un tentativo per raggiungerlo. L’opportunità di riuscire a stabilire un avamposto nello spazio e una potenziale valvola di sfogo per l’eccessiva popolazione planetaria fecero il resto, dando il via a questo progetto battezzato Luce del cielo
. Da quanto era in viaggio però? Difficile dirlo ma di sicuro non quelle due decadi preventivate all’epoca della sua partenza. Proprio questo argomento divenne nel tempo il centro di accesi dibattiti accademici: le cronache di coloro i quali si svegliarono e scesero sulla superficie di quel nuovo mondo raccontarono di come i sistemi di navigazione fossero stati gravemente danneggiati e di come fosse quindi impossibile stimare esattamente la durata effettiva del loro viaggio o tanto meno la loro reale posizione. L’unica certezza era che durante quello stesso viaggio fosse accaduto qualcosa, un malfunzionamento dissero alcuni, l’incontro ravvicinato con una fluttuazione gravitazionale azzardarono altri, il passaggio sull’orizzonte degli eventi di un buco nero suggerirono altri ancora, ma la verità era che nessuno seppe spiegare mai esattamente cosa avesse fatto deviare a quel modo e per così tanto tempo, la nave dalla sua rotta originaria. Un’altra cosa certa e su cui tutti nei secoli successivi convennero, era che quel viaggio inaspettato fosse durato centinaia di anni prima che il sistema di navigazione solo parzialmente funzionante, riuscisse a trovare un altro pianeta abitabile su cui far sbarcare il suo carico umano. Ciò che accadde dopo rimase sui libri di storia di questa nuova umanità: la prima colonia, l’esplosione demografica, le lotte, il direttorio, le forze di difesa planetaria, la presa di potere di Taddeus Boergen, la fine di un’era e l’inizio di una nuova; l’era di un impero planetario, con l’istituzione di una sua nobiltà che per diritto di nascita amministrò dapprima proprio quel piccolo pianeta roccioso posto nella fascia abitabile di un sole sconosciuto ora chiamato col nome di Boergen II. Col tempo poi, altri pianeti furono colonizzati: Lætis
, Vera Spes
, Minos
, Hibernus
e Pericle
così li battezzarono i discendenti di quei primi coloni, con nomi che in qualche modo rimandassero alle leggende della loro madre Terra, ma pian piano, quegli stessi persero il loro significato originario mentre la lingua parlata si evolveva distaccandosi sempre più dalle sue origini. Dov’era la Terra? Gli studi sulla posizione di quel settore di spazio rilevarono che la madre Terra era distante, irraggiungibilmente distante da loro, perduta per sempre, forse...
Minos
Erano già trascorsi cinque secoli dal contatto e poco più di quindici dalla caduta del primo Direttorio. Il termine contatto fu coniato dagli storici imperiali, per identificare il momento in cui la flotta del casato Yamashino aveva raggiunto l’orbita di Xantus, il più promettente tra tutti i pianeti fino ad allora colonizzati. Gli esploratori si erano preparati a tutto salvo che a incontrare altri esseri tecnologicamente avanzati. Nessuno seppe mai stabilire con certezza chi fu a dare l’ordine di aprire il fuoco ma proprio quel preciso momento divenne l’inizio di un conflitto fatto di scontri talvolta violenti e continui, altre volte sporadici e lievi che contraddistinsero l’umanità da allora in poi. Col tempo si coniò una parola specifica che pian piano entrò nel lessico comune, per indicare questo stato di strisciante guerra a oltranza. Karskirian che voleva dire qualcosa di simile a lontana guerra dei cieli
. Con quel termine le generazioni future ne sottolinearono in modo sempre più marcato, sia la sua distanza che il suo perdurare. Sulle battaglie, sugli eroi e sugli episodi che nei secoli costellarono questo conflitto come le stelle nel firmamento, furono composte ballate, odi e poesie che a tutt’oggi risuonano nelle corti dei nobili e in tutto l’impero.
Minos fu il terzo pianeta a essere stato colonizzato. Quando venne rilevato dalle sonde si gridò al miracolo per essere riusciti a scovare un pianeta abitabile in un sistema binario. Minos infatti tracciava pigramente la sua orbita attorno alla seconda delle due nane gialle che come impegnate in una vorticosa danza, ruotavano l’una dinanzi all’altra in una perpetua giravolta sul loro centro di massa. Per circa metà del tempo necessario alla rivoluzione attorno alla sua stella, l’altro sole non era visibile mentre durante l’altra, il giorno di Minos si allungava di quasi tre ore per la contemporanea presenza di tutti e due gli astri. L’estate di Minos, così era chiamato comunemente quel periodo dell’anno, e aveva reso quel pianeta famoso presso tutta la nobiltà imperiale rendendolo meta di autentici pellegrinaggi d'intere corti verso le sue spiagge e le sue montagne; ma quel tempo era finito. Minos era infatti anche particolarmente vicino a una nutrita fascia di asteroidi e non era trascorso che poco più di un secolo da quando proprio uno di questi, precipitò sul suolo del pianeta devastandolo. Quella data viene tutt’oggi ricordata come Afparalltag, il giorno dell’impatto
.
Il regno del casato Khoer venne quasi del tutto cancellato. L’atmosfera si fece talmente rarefatta e pregna di gas tossici da costringere i pochi sopravvissuti a trovare rifugio nelle profondità del sottosuolo. Le radiazioni di quei due soli non più filtrate, bruciarono gran parte di ciò che rimaneva sulla superficie. Gli scienziati del Kirtan, interpellati, stimarono che ci sarebbero voluti migliaia di anni prima che quel poco che si era salvato della flora e della fauna, potesse stabilizzare nuovamente l’ecosistema del pianeta e questo sempre ammesso che proprio quelle nuove e proibitive condizioni, non distruggessero nel frattempo, gli scampoli ancora intonsi di quel mondo. I primi anni nei rifugi furono un autentico inferno per i sopravvissuti. Poi col tempo, furono proprio quegli stessi rifugi che fondendosi gli uni con gli altri e ampliandosi con l’aumentare della popolazione e delle sue esigenze, si tramutarono in un’enorme tentacolare città sotterranea. Il clima esterno si fece frattanto via via sempre più freddo. L’atmosfera si andava addensando nuovamente ma, come del resto era stato ampiamente previsto, l’equivalente di un inverno nucleare stava avvolgendo tutta la superficie. Furono individuate porzioni del pianeta relativamente intatte ma l’ipotesi di trasferire la popolazione costretta a vivere nel sottosuolo, laggiù, fu subito scartata: quelle oasi rappresentavano l’assicurazione di una rinascita e non potevano essere in alcun modo contaminate. Ogni speranza pareva essere irrimediabilmente perduta. Il casato Khoer però, nonostante tutto, non era affatto intenzionato a rinunciare a quel mondo che gli era stato affidato dall’imperatore: sarebbe stata un’onta troppo grande. Tuttavia nessuna reale iniziativa venne presa, per lo meno non prima che Sua Eccellenza Heinrich Khoer prendesse il posto del padre Ferdinand. Il nuovo e allora giovanissimo Signore di Minos, ormai trent’anni prima, decise d'ignorare le raccomandazioni della propria famiglia e intraprese un lungo viaggio verso Lætis e Boergen II a implorare l’imperatore e il decano del Kirtan, affinché lo aiutassero a trovare un modo per salvare i propri sudditi. Il casato Khoer ne perse enormemente in termini di prestigio presso gli altri nobili, ma ottenne quanto richiesto: l’impero mobilitò le proprie risorse per erigere quelle che col tempo tutti chiamarono semplicemente " le cupole ". Enormi strutture protettive create su poche, piccole, porzioni ancora sfruttabili della superficie di Minos, parimenti lontane sia dalle oasi di rinascita che dall’oceano vetrificato dall’impatto del meteorite. Gusci protettivi grazie ai quali si riuscì a costruire la grande città planetaria di Karinia o semplicemente città degli angeli come veniva chiamata da coloro, i più, che dovettero invece continuare a vivere nella città sotterranea. L’estate di Minos non esisteva più, il pianeta non era più quel faro di divertimenti ed eccessi amato da tutti i casati nobiliari dell’impero, ma era ancora vivo. Spedizioni scientifiche permanenti furono organizzate dal Kirtan nelle oasi di rinascita, fu creato un sistema di difesa planetaria orbitale, le corporazioni commerciali tornarono a investire fiumi di denaro rimpinguando le casse statali e la sua popolazione si riprese mentre la Karskirian proseguiva lontana, laggiù, da qualche parte nello spazio profondo.
Un Nuovo Giorno
Il quartiere dormitorio di Karinia nel terzo quadrante del settore occidentale della megalopoli, era un incredibile agglomerato urbano fatto di enormi anonimi palazzi costruiti dalle corporazioni per i propri dipendenti. Allo stesso tempo tuttavia, era anche uno dei pochi a poter vantare la presenza di piccoli parchi e zone dove poter trascorrere del tempo a contatto con ciò che era stato preservato della flora locale e per questo motivo nei giorni festivi, proprio quei piccoli spazi verdi erano letteralmente presi d’assalto dai cittadini.
Arura uscì dal portone di una di quelle costruzioni che il primo sole non aveva ancora fatto capolino al di sopra del profilo dei grattacieli del quartiere commerciale. In quel periodo dell’anno il sole gemello non era ancora presente nel cielo di Minos e questo rendeva l’aria particolarmente frizzante. La luce di Castor-alfa, l’astro attorno a cui ruotava il pianeta, filtrando attraverso le dense nubi dell'atmosfera' e l’involucro protettivo delle cupole, tendeva in quelle prime ore del giorno a conferire ad ogni cosa un colore azzurrino. Questa particolarità rendeva, agli occhi della ragazza, l’atmosfera altrimenti grigia di quel quartiere, intrigante, quasi magica a volte.
Arura Yukino aveva compiuto da poco venti anni, un viso minuto, occhi grandi di un turbinoso grigio e capelli ramati tanto lisci e lucenti da aver suscitato le invidie di più di una delle sue colleghe. Non si poteva dire fosse molto alta e questo era un aspetto di sé che l’aveva sempre infastidita, ma aveva un fascino particolare che nonostante tutto, l’aveva resa assai popolare sia tra il personale tecnico che quello operativo della Polizia Corporativa Speciale. Già ad una prima occhiata si sarebbe notato però, come Arura non possedesse affatto, a dispetto del nome, le caratteristiche fisiche della maggior parte dei minosien, gli abitanti del pianeta cioè: non aveva gli occhi a mandorla e nemmeno i capelli neri come la notte. L'unica caratteristica che un minimo le permetteva di non essere subito etichettata come una straniera era il colore chiaro come la Luna della sua pelle; la Luna, il satellite della Terra che nelle favole dei bambini era sempre descritta come una candida dama vestita d’argento.
Proprio questa sua evidente diversità le era costata parecchio negli anni trascorsi nell'orfanotrofio Sette nella città sotterranea. Isolamento, scherni e vessazioni di ogni genere. Un inferno da cui era riuscita a sottrarsi soltanto dopo molto, molto tempo, quando cioè fuggì da quel rifugio che era stato anche la sua unica casa. Gli ultimi anni per lei che adesso si apprestava a fare il suo solito giro di corsa prima di andare al lavoro, erano stati a