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La colpa di esser minoranza
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La colpa di esser minoranza

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La colpa di esser minoranza è una raccolta di tragedie e crimini contro l’umanità, alcuni poco noti e volutamente dimenticati. Tragedie sbiadite, sfuocate, confuse nella mente, perse nella nebbia del tempo. Lette con attenzione e senza pregiudizi risultano attorcigliate tra loro come fili di lana in una maglia; un’unica grande tragedia umana: quella della guerra, della violenza, della crudeltà e dell’odio razziale. E su tutte un unico comune denominatore: chi versa il sangue, indipendentemente dal luogo o dal momento storico, dal credo politico o dal colore della pelle, ieri come oggi, è sempre chi si trova dalla parte ‘sbagliata’ della strada, per la sola ed unica ‘colpa di esser minoranza’.
LanguageItaliano
Release dateMay 25, 2020
ISBN9788833466002
La colpa di esser minoranza

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    La colpa di esser minoranza - Rinaldo Battaglia

    La colpa di esser minoranza

    di Rinaldo Battaglia

    Direttore di Redazione: Jason R. Forbus

    Progetto grafico e impaginazione di Sara Calmosi

    ISBN 9788833466002

    Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, Gaeta 2020©

    Saggistica – Storia

    www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com

    È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.

    Rinaldo Battaglia

    La colpa di esser minoranza

    La storia raccontata al filò, nel tempo del coronavirus

    AliRibelli

    Dedicato a tutti i bambini del mondo che non hanno mai

    potuto testimoniare la loro sofferenza. Se non a Dio.

    Sommario

    1. Il gioco della vergogna

    2. Il silenzio degli innocenti

    3. Il Rosario del Duce

    4. I bambini di Rab

    5. Siamo uomini o criminali?

    6. Profondo rosso

    7. La strada che conduce al pozzo

    8. Il giorno dell’addio

    9. Dove i sogni vanno a morire

    10. Il viale del tramonto

    11. Le oche di Goering e i topi di Hudal

    12. Africa take away

    Nota dell’autore

    Il libro che andate ora a leggere non è la continuazione del mio precedente Come fogli di carta igienica. È un qualcosa di più, la ricerca di un mio salto di qualità. Spero riuscito.

    Non vi è più la guida di una storia reale, tramite la quale veicolo l’attenzione sulla tragedia degli IMI, gli internati militari italiani, tragedia sempre troppo poco conosciuta e sempre troppo nascosta al mondo.

    La colpa di esser minoranza è invece un collage di tragedie, alcune delle quali poco note.

    Partendo soprattutto dal crimine delle FOIBE sul Carso, ma non solo.

    Tragedie spesso non legate tra loro ad una prima analisi, talvolta con fattori territoriali e temporali totalmente diversi, se non opposti.

    Tragedie sbiadite, sfuocate, confuse nella mente, perse nella nebbia fitta che esiste in ogni stagione.

    Ma sono anche tragedie che, se analizzate in profondità e senza paraocchi, risultano attorcigliate tra loro come fili di lana in una maglia.

    Talmente attorcigliate e strette da farne un’unica grande tragedia umana.

    Quella della guerra, della violenza, degli esodi, della crudeltà, dell’odio razziale. E su tutte un unico comune denominatore: chi versa il sangue, indipendentemente dal luogo o dal momento storico, dal credo politico o dal colore della pelle, ieri come oggi, resta sempre chi si trova – e quasi sempre a sua insaputa – dalla parte sbagliata della strada, per la sola ed unica colpa di esser minoranza.

    Rinaldo

    Ci sedemmo dalla parte del torto

    visto che tutti gli altri posti erano occupati.

    Bertolt Brecht

    1. Il gioco della vergogna

    Quand’ero piccolo mi piaceva, coi miei coetanei, perdere ore col gioco dell’oca. Gioco vecchio come il cucco, estremamente semplice, dove chi vince deve solo ringraziare la dea bendata.

    Sono i dadi, soltanto i dadi, a dirti se vinci o se perdi. Peraltro è una coppia di dadi e quindi la fortuna qui vale il doppio. Non c’entrano nulla le capacità personali, la volontà della mente, l’impegno costante o la fatica delle braccia.

    Solo il destino. Nulla di più.

    Anni dopo capirai che la vita non è sempre così e la tua presenza talvolta può modificare le carte o i dadi che hai avuto in sorte, o almeno questa è la speranza che ognuno deve possedere per andare avanti, quando le carte o i dadi sono contro.

    Ma il gioco dell’oca ti insegna anche che nel tuo percorso verso il traguardo, per andare avanti, a volte devi tornare indietro, a volte addirittura al punto di partenza, a volte solo di alcune caselle, a volte rimarrai fermo per alcuni turni e vedrai gli altri sfrecciare davanti e superarti.

    Se non ricordo male la mappa del gioco gira a spirale in senso antiorario e la cosa mi ha sempre incuriosito. Chi lo inventò forse voleva proprio far capire la difficoltà nell’avanzare, in lotta perenne anche col fattore tempo, che talvolta occorre usare meglio, qualora ti ritrovassi retrocesso al punto di prima.

    E magari, ora, con occhi e sensibilità diversi.

    Se mi guardo attorno oggi, oggi che da secoli ho smesso di divertirmi col gioco dell’oca, oggi che i miei amici d’infanzia chissà dove saranno finiti, e analizzo le tappe della vita come le caselle della carta ove correvano le pedine, resto alquanto allibito. E non parlo della mia vita personale – questa è cosa mia; parlo del nostro vivere comune, del nostro paese, del nostro oggi da lasciare un domani ai nostri figli, o meglio, ai nipoti.

    Sarà che superati i 50 anni si realizza più facilmente il fatto che hai più strada dietro che davanti. E qui non è di certo il gioco dell’oca: qui non puoi, per qualche strana magia, ritornare indietro di qualche anno e tanto meno al punto di partenza.

    Ci sono troppe cose che non riesco a capire e se potessi farlo, credo, ci sarebbe solo da vergognarsi. Perché solo la vergogna potrebbe un giorno salvarti dal giudizio altrui, quando qualcuno a te caro (magari un tuo nipote, figlio dei tuoi figli) verrà a chiederti informazioni sul tuo tempo, sugli eventi che hanno caratterizzato gli anni in cui tu hai vissuto.

    E non potrai dirgli: «io non c’ero e se c’ero dormivo». Perché, come diceva un detto antico, «i reati vengono talvolta prescritti. La vergogna no».

    Non so se la parola vergogna derivi davvero dal latino vereor gogna – ossia ‘temo la gogna’ – ma la parola rende bene l’idea di quello che voglio dirvi.

    Vedete, noi siamo un paese davvero strano.

    Winston Churchill diceva in epoca non sospetta (in merito alla nostra partecipazione alla Seconda Guerra Mondiale, prima contro e poi assieme agli Inglesi) che «gli italiani vanno in guerra come se andassero ad una partita di calcio e vanno ad una partita di calcio come se andassero in guerra».

    Noi da sempre ridimensioniamo le cose importanti, basilari, vitali e ingigantiamo le cose futili, banali, marginali, senza valore per gli altri.

    È sempre stato così.

    Soprattutto nel secolo precedente.

    Abbiamo trasformato una marcia di mezzi esaltati, gasati dalle parole fumanti di un congresso di partito a Napoli, in un colpo di Stato (mi sembra di ricordare che Mussolini non fosse presente alla marcia, ma a Milano e solo due giorni dopo venne chiamato a Roma dal Re), abbiamo trasformato il giorno dell’armistizio verso gli Alleati – il giorno, quel famoso 8 settembre, che va ricordato senza il dato dell’anno, essendo una data speciale, da ricordare nei secoli dei secoli – abbiamo trasformato quel giorno che cambiò la storia del nostro paese, condizionando tutti gli anni successivi nel bene e nel male, in una data qualsiasi, una data senza memoria, che nei giornali passa veloce e in tv neanche menzionano.

    Eppure la vecchia Italia lì, quel giorno, tirò le cuoia per sempre e ne nacque un’altra, totalmente diversa. Ma nessuno lo ricorda. Senza l’8 settembre, non ci sarebbe stato il 25 aprile ‘45, il 2 giugno ‘46, la Costituzione che oggi abbiamo e pochi rispettano. Non ci sarebbe questo Stato, così come lo abbiamo, nel bene e nel male. Non ci sarebbe neanche stato il 16 ottobre ‘43 con la vigliacca rettata degli ebrei di Roma, venduti per 30 denari ai nazisti. Uno dei punti più bassi della nostra storia.

    Siamo un paese davvero strano.

    I nostri figli conoscono a perfezione la storia del Campionato di calcio, gli scudetti della Juve, le vittorie della Ferrari o di Valentino Rossi. Ma non vanno indietro nella storia del nostro paese se non di qualche lustro. E non mi riferisco ai millennials. Loro potrebbero essere scusati, anche perché potrebbero alla fine pagare il conto di queste amnesie collettive.

    Sta a noi forse non andare in letargo come gli orsi d’inverno, ma esser svegli e passare poi il testimone con le istruzioni per l’uso in modo più corretto e leale possibile. Già, chi verrà dopo, dovrà convivere con problemi pesantissimi legati al cambiamento climatico (e la nostra generazione qui non è stata esente da colpe), almeno cerchiamo di non peggiorare il loro futuro contesto generale. Il dramma del coronavirus ha mostrato in anticipo i potenziali rischi del futuro. Soprattutto da noi.

    Siamo un paese con poca memoria, volutamente da sempre.

    E se nel secolo scorso la cultura era scarsa o relegata davvero in mano di pochi (pochi uomini, pochi centri di potere, pochi media), oggi, dopo la rivoluzione del web, sono state moltiplicate le possibilità d’informazione e quindi moltiplicate le colpe di chi non si informa. O di chi si informa male e in modo non corretto. Ogni riferimento alle Bestie varie o fabbriche di fake-news è puramente non casuale o non involontario.

    Siamo un paese con poca memoria, volutamente da sempre.

    Ed è grave perché memoria vuol dire passato e se ne abbiamo poca, usata o venduta male, è ancora peggio. Mi ricordo che George Orwell, in 1984, diceva che «chi controlla il passato controlla il futuro e chi controlla il presente controlla il passato».

    Si chiama propaganda, si scrive manipolazione, si legge truffa.

    Abbiamo tutti davanti grandi responsabilità. Forse, mai come nel passato.

    Ma procediamo con calma, come le pedine nel gioco dell’oca.

    Ci sono tante cose della nostra storia, del nostro paese, che mi hanno sempre incuriosito e che non ho mai ben compreso.

    E soprattutto non ne ho mai ben compreso il perché. Il cui prodest, a chi giova, a chi è giovato. E se noi tutti capiamo meglio questo, forse, saremo poi in grado di maturare gli anticorpi che ci serviranno per evitare malattie, magari già avute nel passato, sconfiggere i coronavirus che portano a nuove infezioni, rafforzare con idonee vitamine il nostro corpo, tipicamente fragile.

    Saremo in grado magari di trovare e usare tutte le medicine necessarie per lo scopo, il whatever it takes di recente memoria (Mario Draghi, il 26 luglio 2012, ai tempi della crisi allora finanziaria).

    Saremo in grado con più facilità di far vincere la vita e sconfiggere la morte che già di per sé arriva sempre dopo – anche magari di un solo minuto – ma sempre dopo la vita. Perché la vita vale di più, arriva sempre prima.

    Delle tante parole di Mussolini, una frase (una delle poche in verità) ho sempre considerato veritiera o meritevole di attenzione ed analisi.

    Diceva il Duce: «Io non ho creato il fascismo, l’ho tratto dall’inconscio degli Italiani».

    E qui non parlo di fascismo come movimento politico colpevole della nostra disfatta e della nostra tragedia chiamata Seconda Guerra Mondiale. Parlo di molto di più. Di qualcosa di più profondo, fisico, viscerale, del nostro essere italiani.

    Anni fa, Indro Montanelli che aveva vissuto sotto Mussolini e per Mussolini aveva anche, talvolta molto convintamente, combattuto in Abissinia – tra una madamata e l’altra – scrisse da maestro quale era: «In Italia a fare la dittatura non è tanto il dittatore, quanto la paura degli Italiani e una certa smania di avere un padrone da servire», e proseguiva: «lo diceva anche Mussolini: come si fa a non diventare padroni di un paese di servitori?».

    Un grande eroe e martire come tutti gli eroi, Giovanni Falcone, uno che sapeva ascoltare molto e parlare altrettanto bene, dipinse come Giotto un quadro dell’italiano medio: «Che le cose siano così, non vuol dire che debbano andare così. Solo che, quando c’è da rimboccarsi le maniche e incominciare a cambiare, vi è un prezzo da pagare, ed è allora che la stragrande maggioranza preferisce lamentarsi, piuttosto che fare».

    È il prezzo pagato da Giovanni Falcone il 23 maggio 1992 sappiamo bene qual è stato.

    Un nostro comico, nella mitica figura di Cetto La Qualunque, ancora meglio ci descriveva di recente: «Gli italiani si bevono qualsiasi minchiata, da sempre. Basta promettere l’impossibile e venderlo come garantito».

    Vero? Non so quanto in quest’occasione fosse vestito da comico.

    Un grande intellettuale, Ennio Flaiano, andava anche oltre: «Il Fascismo conviene agli italiani perché è nella loro natura e racchiude le loro aspirazioni, esalta i loro odi, rassicura la loro inferiorità. Il Fascismo è demagogico ma padronale, retorico, xenofobo, odiatore di culture, spregiatore della libertà e della giustizia, oppressore dei deboli».

    Che dire? Tutto falso? Esagerato?

    Non credo del tutto. E non mi riferisco al ventennio fascista, allora altro periodo, altri anni, altra situazione economica, politica, sociale, culturale.

    Io guardo all’oggi.

    Quanta gente vuole l’uomo forte, l’uomo dai pieni poteri?

    Quanta gente vuole un sistema elettorale presidenziale, con molti poteri in poche mani (o meglio poche dita); l’opposto di quello che hanno voluto i padri fondatori della nostra Costituzione, figlia della lotta al fascismo o meglio nata sul fallimento del fascismo?

    Forse perché geneticamente siamo un paese di servitori.

    Sopportiamo bene le angherie altrui e magari non ci interessa neanche capirle a fondo. Pensare costa fatica. Serve impegno e lavoro.

    Forse è un trauma che abbiamo avuto da bambini quando siamo caduti dal seggiolone, quando francesi o spagnoli ci sfruttavano e comandavano.

    «Con la Franza o con la Spagna, ma basta che se magna…»

    Vi ricordate?

    Amiamo di più servire che agire in proprio. Amiamo di più ubbidire sotto ordini altrui che pensare e decidere noi, con la nostra responsabilità. Perché se decidi tu e le scelte fatte risultano sbagliate, la colpa è solo tua, non puoi scaricarla ad altri, al vicino di banco o di scrivania.

    Si chiama responsabilità. Il resto si chiama ginnastica dell’obbedienza parafrasando uno che adoro (Fabrizio De André).

    Spesso i media si chiedono perché in Italia il giornale più amato sia la Gazzetta dello Sport, i programmi più seguiti il Grande Fratello o quelli della D’Urso, pochi vedono (anche perché sono poco trasmessi) i servizi storici di approfondimento. Ci si meraviglia quando Alberto Angela ottiene qualche milione di spettatori su alcuni suoi servizi, esempio quello del 16 ottobre ‘18 sul rastrellamento degli ebrei di Roma.

    C’è da meravigliarsi che ci meravigliamo.

    Siamo un paese strano. Sicuramente giovane (neanche 160 anni) rispetto a paesi leader in Europa e di sicuro ancora fragile strutturalmente.

    Abbiamo superato il fascismo senza un processo di Norimberga, che forse avrebbe messo in luce certi atti abominevoli ed emarginato certe figure logore o accusate di crimini di guerra. Per chi non lo sapesse, ricordo che la neonata ONU nell’immediato dopoguerra ci elencò ben 1700 casi di criminali di guerra che l’Italia avrebbe, tra il 1948 o poco dopo, dovuto giudicare. Di questi 1700, richiesti anche da altri paesi per un loro eventuale processo (parlo di URSS, Grecia, Albania, Jugoslavia, Francia, Etiopia etc.), almeno 100 erano accusati di reati gravissimi. E questi mancati processi, questa mancata pulizia, poi saranno pagati – da altri – a caro prezzo negli anni a seguire.

    Ma probabilmente questo modo di vivere, questo modus operandi, è stato l’àncora di salvezza in momenti bui della nostra vita storica.

    Questo modo menefreghistico (Vi ricordate chi diceva: «Me ne frego?») probabilmente ci ha dato l’antidoto per superare la tragedia della Prima Guerra Mondiale, quando, per esser vincitori sulla carta, perdemmo 1.250.000 persone (650mila soldati e 590mila civili, dicono gli storici) su 36 milioni di Italiani. Ossia 1 ogni 25. E qui non si tengono conto degli innumerevoli morti per la spagnola, la peste manzoniana di quel periodo, il coronavirus del secolo scorso, generata e sviluppata causa la guerra.

    Questo menefreghismo, il saper vivere le proprie tragedie come fossero tragedie degli altri, probabilmente ci ha permesso di sopravvivere all’inferno della Seconda Guerra Mondiale, soprattutto in quelle terre dove si è sparato e ammazzato metro su metro, strada su strada, casa su casa. Ed è stata una guerra civile, italiani contro italiani, camicie nere e nazisti da una parte, partigiani e alleati dall’altra.

    Si è stati davvero bravi a riconciliarsi, in un breve arco di tempo.

    In Francia non è stato così facile e si è potuto fare solo spostando l’attenzione nazionale altrove, ad esempio contro i vietnamiti o gli algerini, e stringendo a sé tutti i francesi sotto un nuovo eroe, Charles De Gaulle.

    In Spagna ci sono voluti 40 anni, in Grecia si è combattuto fino al ‘49. Negli altri paesi (Germania etc.) la pacificazione è stata guidata da altri con l’alibi della guerra fredda e solo dopo la caduta del Muro di Berlino, si può dire, che la Seconda Guerra Mondiale sia finita. 30 anni fa. Forse.

    Su quanto poi, in Italia, questa riconciliazione sia costata, lo stiamo imparando giorno per giorno. E soprattutto a danno di coloro a cui è costata.

    Perché questa vicenda è come il trading in borsa: se uno guadagna vuol dire che dall’altra parte uno ha perso, se da un lato del computer uno ride soddisfatto, tra lo champagne e le olgiattine, dall’altro lato uno ha sperperato i soldi di famiglia e medita il suicidio.

    È il mercato, bellezza… dirà qualcuno, ma non sempre è eticamente e moralmente corretto.

    Servirebbero regole ancora migliori, efficaci e chiare a difesa dei perdenti – o meglio delle parti più deboli.

    Se vogliamo ampliare i discorsi sulla riconciliazione forse l’esempio da clonare, sia nella forma che nell’efficacia del risultato finale, lo si deve a un grande uomo, un grande statista, ma 30/40 anni dopo.

    Mi riferisco a Nelson Mandela e a quello che è riuscito a fare, o meglio a non far fare, dopo la fine dell’apartheid, in Sud Africa nel 1993/94. Con la politica del rainbow nation (politica arcobaleno, multicolore) riuscì a pacificare un paese, da secoli diviso tra soprusi dei bianchi e vittime dei neri. I crimini dei bianchi sarebbero stati condonati e non più perseguibili (da nessuno, da nessuna parte neanche quella lesa) se ogni colpevole si fosse pentito e avesse dichiarato tutto, proprio tutto dei fatti di cui fosse accusato (assassinii, furti, stupri, violenze di ogni tipo). Anzi avrebbe dovuto anticipare le accuse, per non perdere l’occasione offerta, limitata nel tempo.

    Mandela voleva creare una nazione arcobaleno, in pace, prima che col resto del mondo, soprattutto con se stessa. In buona parte ci riuscì, grazie anche alla responsabilità di altri leader del momento, in primis il bianco William De Klerk, uomini politici che furono coraggiosamente capaci di rompere le regole del gioco prima praticato, di rompere totalmente la catena causa-effetto che dai tempi di Caino e Abele ha rovinato il mondo, moltiplicando i crimini come una palla di neve che diventa, centimetro dopo centimetro, alla fine valanga. La valanga del male.

    Come la scelta di Liliana Segre, maestra di vita e sopravvissuta ad Auschwitz. Ha scritto di recente:

    Io avevo scelto la vita quindi non avrei mai potuto uccidere nessuno. Non ho raccolto quella pistola e da quel momento non solo sono stata libera, ma sono diventata donna di pace.

    Solo chi rompe la catena causa-effetto a mio avviso è veramente un uomo politico. Gli altri sono uomini di potere, e come diceva il grande Faber, quanta strada dobbiamo noi fare prima di «diventare così coglioni da non riuscire a capire che non ci sono poteri buoni». E per potere intendeva tutto quello non democratico, ovviamente.

    Questo è il senso di queste pagine: rivedere alcune tragedie, più o meno collegate, più o meno dimenticate e soprattutto nascoste ai più, nascoste senza alcuna vergogna.

    Come in un gioco. Anche se gioco non è.

    Come per i bambini, come per gioco, la domanda unica è sempre la stessa: perché?

    O meglio cui prodest? A chi è giovato? E il ripetersi, adesso, di eventi analoghi, a chi gioverà?

    Spesso la risposta giusta la trovi dietro l’angolo, nel ragionare dalla parte di chi è solitamente nel posto del torto solo perché è minoranza, avendo altri – la maggioranza – già occupato il resto, già scritto la storia e il risultato finale della partita. Forse comprando l’arbitro di turno. Come fosse un gioco.

    Minoranza in tutti i sensi. Minoranza in quanto in pochi, minoranza in quanto non utili alla causa, minoranza in quanto senza voce, minoranza in quanto già perdenti in partenza. Minoranza anche se numericamente si è di più, ma nei fatti non si conta davvero nulla. Minoranza in quanto donne in un mondo di uomini. Minoranza in quanto bambini in un mondo di grandi. Minoranza, insomma. Minoranza.

    E di solito i bambini non sono mai soddisfatti delle risposte ricevute, mai. Essendo bambini, crescendo, avranno davanti una vita per verificarle o modificarle, a loro piacere, se vogliono. E – credetemi – ci sono molte cose che loro dovranno cambiare.

    Ci sono momenti nella vita in cui veramente ti chiedi se sei ubriaco, anche se sai di non aver preso nulla di alcolico. Di balle o panzane ne hai sentite molte e credi di aver già raggiunto il top. Magari certe notizie le hai più volte lette, ma non ne hai ancora ben compreso il senso.

    Nella ricerca che mi ha portato a scrivere Come fogli di carta igienica più volte ho inevitabilmente cozzato forte la testa contro l’armadio della vergogna. Quello diventato famoso ai più dal 1994, dopo che per quasi 50 anni, a Roma – nella sede prestigiosa della Procura Generale Militare, in Via degli Acquasparta, un tempo di proprietà della famiglia Cesi, – era stato messo in un corridoio poco usato, seminascosto, con le ante verso il muro e chiuse a chiave.

    Chissà quante persone lo avranno visto, impolverato e abbandonato.

    Qualcuno magari è andato anche a sbatterci, forse mentre fumava di nascosto una sigaretta o si imboscava con la collega per non lavorare.

    Peraltro vicino vi era appoggiato un grande registro, un quaderno a righe, tipo quello che una volta usavano le nostre maestre a scuola. Perché nella vita le cose, se si fanno, vanno fatte bene e con ordine. Lasciando un segnale di fumo ai posteri, se i posteri cercassero segnali di fumo tra un loro fumo e l’altro.

    Nel registro a penna, in 2.273 voci v’era bene annotato il contenuto, ossia ben 695 fascicoli, che in teoria mezza Italia avrebbe dovuto cercare e studiare, pagina per pagina, riga per riga, parola per parola, dal 1945 in poi.

    In quel registro si parlava delle 2.273 «stragi brutali compiute dai nazisti e dai repubblichini di Salò lungo tutto il territorio del nostro paese», come bene ci riporta Franco Giustolisi¹, storico e grande giornalista che per primo si occupò dell’armadio della vergogna e ne fece il suo motivo di vita dal ‘94 fino alla sua morte, avvenuta nel 2014.

    È come se in un giallo di Camilleri il Commissario Montalbano cercasse il nome del colpevole per mare e monti, senza vedere che questi aveva, prima di fuggire, lasciato bene in vista le proprie impronte digitali. O dimenticato la carta di identità o il bancomat sul luogo del reato.

    Credo che anche il più allocco degli spettatori perderebbe la pazienza.

    Questo è quello che è successo per 50 anni in Italia, ma nessuno, nessuno ha perso la pazienza. Anzi, il fatto è passato tranquillo, con qualche commissione d’inchiesta parlamentare (di quelle che quando vengono istituite sai sin dall’inizio che falliranno) e qualche articolo di giornale (di quelli che pochi leggono e quando qualcuno li legge vengono subito aditati come scandalistici, non degni di attenzione alcuna).

    Perché di quei prima menzionati 695 fascicoli, in ben 415 erano indicati i colpevoli, con tanto di nome, cognome, reato e relative prove.

    Credo che Montalbano si sarebbe dimesso il giorno stesso e avrebbe aperto un chiosco di gelati sulla spiaggia, con un nome falso e una parrucca in testa per non farsi riconoscere dalla clientela.

    Non voglio tediarvi con questi 415 fascicoli, visto che – tutti – li hanno lasciati a riposare in letargo per 50 anni, ma solo per far capire, ai più che non si ricordano, che al numero 1 vi erano i colpevoli dell’Eccidio delle Fosse Ardeatine, con documenti e prove relative: Kappler e Pribke.

    Herber Kappler, il Komandant della Gestapo a Roma, almeno qualche anno di carcere in Italia se l’è fatto, finché la dolce frau Anneliese a ferragosto del 1977 se lo portò tranquillamente a casa. Dapprima chiuso in una valigia per uscire dall’Ospedale militare del Celio a Roma, ove era casualmente stato mandato senza alcun piantone di sorveglianza, con tanto d’ordine scritto di non far entrare nessuno nella sua camera né di affacciarsi al suo interno.

    Casualmente. Poi in una vecchia Fiat 132 rossa, seduto sul sedile posteriore, passando tranquillamente la frontiera con la Germania, come dei semplici nonnetti di ritorno dalle vacanze nel nostro bel paese. Tranquillamente. E in quel tempo non c’era Schengen e i controlli alle frontiere erano molto attenti e motivati dai pericoli del terrorismo (pochi mesi dopo avverrà la Strage di Via Fani).

    Sin dal giorno stesso tutti sapevano che quella fuga era una panzana, una fake-news si direbbe oggi. Nel 1997 il ministro Lattanzi, responsabile dei mancati controlli, e nel 2011 Ekehard Walther – il figlio di frau Annaliese avuto da altro matrimonio – diranno che era tutto stato preparato nei minimi dettagli per liberare Kappler su precisa richiesta tedesca (in Germania i reati e i crimini commessi durante la guerra erano andati in prescrizione). Richiesta accolta dal Governo Italiano (Primo Ministro allora Andreotti nel governo che vedeva il PCI in posizione di non-sfiducia) senza tanti problemi. Anzi, la finta evasione di Kappler coinvolse almeno 10 persone, un aereo privato diretto a Monaco (che però per un’avaria non riuscì a partire), due auto che scortarono la 132, e nella prima era presente lo stesso figlio Walther e un amico vestito da sacerdote. Chi fossero in realtà tutte quelle persone non si seppe mai, e peggio ancora non si seppe il perché di tutta questa messinscena alla James Bond. I vestiti da sacerdote o da monaco, vedremo strada facendo, nella nostra storia non mancheranno mai. Non meravigliatevi, quindi. Ne vedrete ancora. Anche di peggio.

    È il gioco della vergogna. Sarà questo uno dei tanti momenti opachi, nella storia opaca del nostro paese opaco, che andrete a leggere nelle pagine a seguire. Conta poco o nulla, poi, che ad esser protetto e aiutato sia stato un criminale, il carnefice di un eccidio con 335 morti e il responsabile del rastrellamento di 1.259 ebrei di Roma di metà ottobre ‘43, dopo che si era fatto pagare il riscatto in 50 chilogrammi di oro.

    Del prezioso metallo, peraltro, Kappler sicuramente era un fino intenditore tant’è vero che qualche notte prima, tra il 22 ed il 23 settembre, prelevò l’intera riserva aurea della Banca d’Italia, pari a ben 120 tonnellate, spedendola subito in Germania.

    Anche qui esisteva la regola dell’aiutiamoli a casa loro?

    Ma nell’armadio della vergogna v’erano anche documenti su Erich Priebke, il braccio destro di Kappler nelle Fosse Ardeatine, che per 50 anni visse tranquillamente in Argentina, peraltro visitando più volte da turista, zainetto e macchina fotografica al collo, sia Roma che città tedesche (non volle mancare al funerale del suo capo ad esempio, quale uomo pio e devoto, e fare le condoglianze di persona alla vedova Annaliese).

    Se qualcuno avesse aperto quell’armadio, o meglio se qualcuno non l’avesse chiuso, di certo Priebke si sarebbe divertito meno nella sua vita, a totale spregio della minima giustizia umana. Certo, alla fine verrà condannato all’ergastolo, ma sarà nel 1997. Guarda caso dopo la scoperta dell’armadio e grazie a un giornalista americano, Sam Donaldson, che andò a intervistarlo in Argentina, dove si era rifugiato dopo esser scappato dall’Italia nel 1948, con documenti falsi preparati tramite il Vaticano. Caso non unico e non raro. Purtroppo.

    Peraltro, data l’età (aveva oltre 84 anni), la condanna si tramutò subito in semplice detenzione domiciliare.

    E ora capite perché l’armadio aveva le ante rivolte verso il muro.

    Una volta, nella scuola preistorica dei nostri padri, quando si leggeva ancora il libro Cuore, chi in classe disturbava o doveva esser punito veniva messo in un angolo, in castigo, a guardare il muro, sperando che si vergognasse almeno un poco.

    Così è stato per quell’armadio, che vergognandosi di quello che aveva fatto o protetto, preferì farsi mettere con le porte verso il muro, per non farsi ben vedere in faccia da nessuno.

    Ma se deve esser vergogna, che vergogna sia.

    Al fascicolo n. 2 si parla del campo di concentramento di Fossoli, vicino a Carpi, nel modenese. Operativo dal maggio ‘42, dopo l’8 settembre del ‘43 fu gestito dalle S.S., con l’aiuto dei repubblichini di Salò, in maniera molto cruenta (poi nel dopoguerra venne usato anche dagli Alleati che vi imprigionarono ufficiali nazisti, militari di Salò, collaborazionisti vari in attesa di processo).

    Non fu solo un semplice centro raccolta di ebrei e oppositori (anche solo sospettati), molti poi spediti a morire ad Auschwitz e dove pochi si salvarono – tra questi pochi, Primo Levi o Piero Terracina, morto di recente. Fu un vero inferno.

    La gestione del campo, sotto il ten. Titho Karl Friederich e al fido Hans Haage, fu condotta con forte crudeltà, anche per futili motivi. Nel fascicolo si parla di inaudite violenze e morte di almeno 71 persone.

    Nel dopoguerra, finirà tutto in una bolla di sapone. Al momento della ripresa del processo, essendo da allora passati 53 anni, per Titho fu chiesta l’archiviazione e per Haage lo stesso, essendo prima arrivata la morte naturale.

    L’inaudita violenza quindi restò solo tra le pieghe dei libri del processo e la polvere del fascicolo, nascosto nell’armadio per i primi 50 anni.

    Al fascicolo n. 3 si analizza la strage di Torre di Polidoro del 23 settembre del ‘43, famosa anche per il sacrificio che fece il brigadiere dei carabinieri Salvo d’Acquisto. In seguito venne tutto archiviato e il responsabile accertato (il cap. Feiten Hansel) continuò ugualmente a dormire sonni tranquilli senza esser processato.

    Nei fascicoli successivi vengono poi elencate e dettagliate molte altre voci. Alla voce n. 664, ad esempio, vi è un destino analogo del caso precedente, in merito al serg. Held Heinz responsabile dell’eccidio di San Polo D’Enza (Reggio Emilia) con 65 uccisi, del 14 luglio ‘44. Non punito. Tra gli uccisi molti bambini, alcuni anziani che facevano fatica a camminare, una mamma a pochi mesi dal parto. Alcuni prigionieri furono seppelliti vivi in tre fosse comuni, che vennero ricoperte di terra e poi fatte esplodere.

    E si potrebbe continuare in un mosaico di morte e altre date.

    Soprattutto dalla voce n. 1188 quando si parla dell’eccidio di Cefalonia, con i 5/6mila soldati e ufficiali ammazzati per non essersi consegnati ai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre ‘43. Una pagina di coraggio e dignità che venne pagata per 50/60 anni col totale oblio. Come avvenne per le nostre truppe a Kos, Rodi, Lero o Spalato nelle voci successive. Destini maledetti ed eroi dimenticati.

    Altre voci di quei fascicoli sono invece incentrate, a seguire, nei ruoli invertiti ossia sulle stragi ordinate dai generali italiani in Grecia e Jugoslavia durante l’occupazione del ‘41-’43.

    Eccidi che nessun nostro libro di storia nomina, anche qui. Stonerebbero nel film Italiani brava gente che per anni ci hanno venduto e noi abbiamo, con sommo piacere, bevuto. Tutti generali o uomini del fascio, criminali servi di Mussolini, che è ora meglio politicamente non far ricordare. Non sarebbero ora elettoralmente utili.

    Interessante anche la voce n. 1835, quella a carico di Ferruccio Sorlini, capo di una banca di criminali comuni che nel bresciano, nel ‘44, lavorando in combutta coi tedeschi e fascisti fece fuori almeno 16 persone, segnalate quali oppositori a Salò e al Fuhrer, senza alcuna prova. Tutto prescritto.

    Ma il massimo della vergogna e del dolore lo si ingoia dalla voce n. 1937 quando si iniziano le analisi sugli eccidi di Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Fivizzano. Stesso periodo (estate-autunno ‘44), stessa zona (Toscana, Emilia), stessi assassini (la famigerata 16a divisione SS Reichsfuhrer del maggiore Walter Reder – detto il Monco dai contadini toscani, avendo perso braccio in precedenza nella guerra dei Balcani – e dei suoi killer, Max Simon soprattutto), stessi collaboratori (fascisti della zona, alcuni bene individuati).

    Sì, fascisti italiani. Del resto sono stragi nazi-fasciste non solo naziste.

    Le parole hanno sempre un senso come la storia. Ecco perché fanno paura.

    Non fatevi fregare. Non scarichiamo sempre la colpa sul vicino di banco o di scrivania. Troppo comodo o vigliacco, se preferite.

    Solo in quei tre massacri parliamo di almeno 2.000 morti, oltre la metà bambini, il resto donne, vecchi e contadini.

    È un decimo, forse di più, di tutti i morti innocenti che gli storici ascrivono al periodo nero che va in Italia dall’8 settembre ‘43 a fine aprile, primi di maggio del ‘45.

    Franco Giustolisi li quantifica tra i quindici e i ventimila. Quindici/ventimila persone uccise in modo ingiusto, senza processo, solo perché si trovavano al posto sbagliato al momento sbagliato o perché dovevano pagare come rappresaglia. Possiamo tranquillamente censirle tra quelle che pagarono per avere la colpa di esser minoranza.

    Eccidi, massacri, stragi. Crimini orrendi che sarebbero impossibili da spiegare a quelle vittime o ai familiari di quelle vittime. Impossibile, davvero.

    Come sarebbe impossibile poi trovare ragioni per giustificare i mancati o i falsi processi, per dare un po’ di luce e voce a quei morti. Invece nulla.

    Oblio totale e silenzio di tomba.

    Quando sento parlare di Sant’Anna di Stazzema, soprattutto, il mio cuore sobbalza. Sarà perché anch’io sono padre e ho avuto due figlie, bellissime, che fin da piccole mi sono pienamente goduto.

    Sarà perché ho visitato più volte Sant’Anna.

    Sarà perché in quel massacro ci furono 150, forse 200, bambini uccisi.

    Ma credo che non ci siano termini per descrivere l’orrore e trovo vergognoso, ancora oggi, che la gente non parli di Sant’Anna o cerchi giustificazioni insignificanti. Per qualcuno è sempre colpa di altri.

    Lo trovo solo vergognoso. E non ci sono colori politici che tengano qui a Sant’Anna come a Marzabotto, a Basovizza o dove volete. Qui non ci sono anagrafi canine ma solo anagrafi di martiri. Ogni riferimento a qualche attuale leader politico, in campagna elettorale perenne, non è puramente casuale. La storia non è mai stato il suo forte.

    Sanz’esso fora la vergogna meno!

    Ma non ci furono solo bambini morti a Sant’Anna il 12 agosto ‘44. Si parla di 560 persone uccise complessivamente, ma nessun conteggio esatto fu mai eseguito. Al processo di La Spezia, iniziato dopo la scoperta dell’armadio e concluso solo nel 2003 tra rogatorie internazionali, carte introvabili o distrutte, documenti forse rubati e scarsa collaborazione di magistrati locali, si arrivò alla fine a consegnare una sentenza e a certificare come criminali alcuni uomini in carne ed ossa, o almeno – essendo nel frattempo già morti – a identificarli a posteriori come criminali.

    60 anni dopo.

    Mi riferisco ad esempio al generale Max Simon, comandante della Reichsfuhrer nell’operazione di Sant’Anna, subito dopo promosso al comando di un corpo d’armata. Imprigionato dopo la guerra, condannato a morte dagli Inglesi, stranamente poi con sentenza tramutata in ergastolo, e che rimase in carcere per solo pochi anni. Nel 1954 venne graziato in virtù delle forti intercessioni dell’arcivescovo di Colonia, Cardinale Josef Frings, che lo definiva «uomo pio e devoto». In una lettera datata 5 maggio ‘54, il Cardinale insisteva: «Avete liberato Kesserling e lui, Simon, perché no? I delitti di cui è accusato sono avvenuti durante l’inasprimento della guerra partigiana. Ha 54 anni, un figlio di 17 e la sua famiglia vive di assistenza pubblica²».

    Quanta attenzione e cura. Complimenti. Vero cuore cristiano.

    Del resto era stato promosso Cardinale nel ‘46 dal Papa di allora, Pio XII, il papa di Hitler. Max Simon morì libero e tranquillo a Londra nel 1961.

    Era successo anche per un altro collega di Max Simon qualche anno prima.

    Nel 1951, al processo per la strage dell’Abbazia di Farneta (Lucca) ove il 2 settembre ‘44 vennero trucidati 12 frati e 80 civili, il responsabile col. Helmut Looss, uomo di Reder e generale della Gestapo, fu dato per morto e quindi condannato ma non cercato per eseguirne la pena. Era invece vivo e vegeto nella sua città a Brema, dove morì da uomo ancora libero nel 1988.

    E poi pensi ai bambini di Sant’Anna e sei bravo a non andare via di testa.

    Conosco molte storie di quei bambini. Potrei farne un libro intero, ma sono convinto che non riuscirei a completarlo per le troppe pause a cui andrei incontro per il dolore e la rabbia.

    Mi piace però segnalarvene almeno alcune.

    La storia del bambino di Evelina, in particolare.

    Doveva nascere proprio il 12 agosto, era il terzo figlio. All’alba Evelina mandò il marito affinché chiamasse un medico, un’ostetrica o meglio, dato il momento, una levatrice. Qualche ora più tardi, anziché il medico o la levatrice alla porta si presentò un fornaio, da qualche anno in servizio come capitano nelle S.S., all’anagrafe Anton Galler. Quando l’ex fornaio di Amstetten se ne andò assieme ai suoi scagnozzi, dei vicini scampati al massacro trovarono solo una donna seduta su una sedia. Sventrata. Il bambino non era mai nato, era a terra ancora legato alla madre dal cordone ombelicale e aveva un foro in testa.

    Gli avevano sparato prima che nascesse.

    Il padre e i due fratelli del bambino di Evelina non seppero nulla.

    Erano già stati uccisi, poco lontano.

    L’ex fornaio vivrà tranquillo e beato fino alla morte in Spagna, vicino ad Alicante, dove protetti da Franco vi erano anche altri criminali nazisti e nostri generali o gerarchi fascisti, legati al Duce e aiutati dal Vaticano. Morirà a 80 anni, nel 1995.

    Mario, invece, quel giorno maledetto aveva invece sei anni. La mamma Genny era sfollata da Pietrasanta e si era fermata a Sant’Anna, in montagna, in quanto più sicura della costa. Il padre era disperso nella disfatta della Russia, mandato là a morire sul Don per soddisfare la gloria di un criminale megalomane. Non ternerà più.

    Mi permetto di sottolineare le cause della campagna di Russia, perché dalle mie parti ancora oggi qualcuno scrive in post politici (in ricorrenza della disfatta di Nikolajewka, 26 gennaio 2020) che eravamo andati sul Don per esportare «la libertà e la democrazia». Un po’ come gli USA di Bush con la guerra in Iraq sessanta anni dopo.

    Quando Genny, quel giorno, vide arrivare le truppe tedesche, non aveva dubbi su come sarebbe andata a finire e voleva almeno salvare l’unico figlio. E quando assieme ad altre 40 persone, tutte donne coi loro figli, venne chiusa in una stalla, sentendo solo spari e grida, cercò di salvare il piccolo Mario nascondendolo nel sottoscala, dietro la porta, in un piccolo anfratto.

    Quando la porta fu aperta e i tedeschi erano già pronti per sparare su tutti, Genny li anticipò lanciando loro l’unica arma di cui era in possesso: gli zoccoli di legno. I soldati, sorpresi, risposero subito sparando e ammazzando tutti. Poi se ne andarono. Nessuno si muoveva. Il piccolo Mario era solo ferito alla schiena ed era stato coperto dal corpo di altri.

    Fu così che si salvò.

    Per tutta la vita portò sulla schiena quelle cicatrici. Ma quelle da cui non riuscì mai a guarire furono le cicatrici del cuore.

    Sarà presente e con forza al processo di La Spezia e lotterà tutta la vita affinché gli altri, come noi, sapessero di Sant’Anna.

    Alberto il 12 agosto aveva 10 anni. Era sfollato anche lui ed era arrivato a Sant’Anna da pochi mesi. Era un po’ discolo ma molto legato alla mamma, Elena, iperprotettiva come tutte le mamme che si trovano vedove in giovane età, sole con un figlio piccolo da crescere.

    Quel giorno accettò l’offerta del coetaneo Arnaldo di andare col nonno di questi, Pasquale, a funghi nel bosco. La mamma stranamente lo lasciò fare senza opporsi, al contrario di altre volte. Capirà più avanti che quel gesto gli aveva salvato la vita. La mamma anche in quel caso lo aveva protetto, senza farglielo capire. Lontani, i tre sentirono spari, grida, fumi e fuochi sulle case di Sant’Anna. Quando arrivarono era troppo tardi. Molti erano a terra uccisi, la mamma Elena stava morendo, come altre donne e bambini. Andarono a cercare soccorso, anche Alberto. La mamma gli aveva detto di andare con il nonno di Arnaldo a cercare qualcuno, non serviva che restasse lì a farle compagnia. Quando ritornarono, mamma Elena aveva già raggiunto il marito in Cielo. Alberto diventò uomo a 10 anni e da solo, orfano, affrontò la vita.

    Si farà strada, lotterà nel processo di La Spezia. Il figlio, Lorenzo, ne ha tratto un libro di vita che merita d’esser letto, soprattutto da chi non capisce o non vuol capire l’eccidio di Sant’Anna³. Io l’ho fatto e ho pianto. Non lo nascondo. Sebbene da anni io sia iscritto all’Anagrafe Antifascista di Sant’Anna.

    Anna invece aveva solo 20 giorni. L’ultima volta che la mamma Bruna la prese in braccio era mentre la uccidevano, appoggiata sul muro di casa, con le sorelle al fianco. A sparare con la mitragliatrice c’era uno del posto, uno dei 16 italiani che avevano guidato le S.S. a Sant’Anna. Alcuni di loro hanno avuto un nome certo, stando agli atti processuali, molti anni dopo. La mamma, spaventata e incredula, morì subito, Maria e Anna, gravemente ferite, qualche giorno dopo la seguirono in Cielo. La più grande, Cesira, 17 anni si salvò, ferita alle braccia e alle gambe, grazie al corpo della mamma, che le cadde addosso.

    Cesira 60 anni dopo testimonierà al processo. Parlerà anche del piccolo Claudio.

    Claudio aveva 4 anni quel giorno. Era ammalato e in braccio alla mamma Maria. Lei, circondata da altri disperati e sotto le armi dei nazisti e di alcuni fascisti della zona, chiese un po’ di compassione per il piccolo: «Abbiate pietà, è leucemico. Sta per morire». Il tedesco tirò fuori la pistola e sparò prima alla donna e poi al bambino.

    È curioso sapere che in Italia, paese di grandissimi registi e attori, paese di De Sica, Rossellini, Fellini, nessuno abbia mai pensato di girare qualcosa sull’eccidio di Sant’Anna di Stazzema.

    Ci volle un americano, Spike Lee, nel 2008, con un film romanzato (Miracolo a Sant’Anna).

    Curioso, ma poi neanche tanto.

    Perché parlarne? 64 anni dopo… E poi elettoralmente giova?

    Passeresti da comunista, da antinazionalista.

    Si conosce solo l’anagrafe canina di Sant’Anna. Vero?

    Al processo di La Spezia alcuni nazisti, individuati per bene, furono rinviati a giudizio per «violenza pluriaggravata e continuata, con omicidio per aver agito contro anziani, donne e bambini che non prendevano parte alle operazioni militari, agendo con crudeltà e premeditazione».

    60 anni dopo.

    A quel tempo quei militari erano morti in santa pace o tutti troppo vecchi per il carcere. Simon era morto nel ‘61, Galler nel ‘95; nel 2003 Gerhard Sommer aveva 82 anni, Alfred Schoeneberg 82, Werner Bruss 83 e via di questo passo.

    Tra gli italiani era morto anche Aleramo Garibaldi, noto fascista della zona, che guidò i nazisti a Sant’Anna e sparò almeno a 17 persone uccidendole (fu provato). Morì a Narni qualche anno prima.

    Nel 1999 una sua nipote chiese e ottenne che il cognome da sposata di una zia, Garibaldi, inciso sulla lapide che sovrasta l’ossario di Stazzema, venisse cancellato: «Non posso lasciarle questa vergogna addosso».

    La vergogna di avere avuto una zia imparentata con un fascista che aveva contribuito alla strage.

    Anche gli altri nomi accertati avevano da anni abbandonato la zona. Assassini e vigliacchi in fuga nel momento della verità, come qualcun altro, come ladri dopo un colpo andato male. È la storia a dirlo.

    Mario, Alberto, Cesira vorranno ricordare e testimoniare.

    Maria ad esempio no.

    Qualche mese prima, poco lontano, a Tagliacozzo, due bambine di 12 anni erano appena tornate dalle funzioni della domenica pomeriggio, dedicate alla Madonna. Si misero a chiacchierare tra di loro, davanti a casa, sugli scalini, in attesa di andare a cena. Passarono davanti alla casa due pezzi di galera, uno vestito da S.S., il sergente Martin Gupp, l’altro da carabiniere. Ed era un fervente fascista conosciuto in zona, cresciuto nella scuola di Mussolini, il maresciallo Gatti.

    Il nazista estrasse la pistola e sparò alle due bambine.

    Diana morì subito, Maria fu gravemente ferita. Andandosene il maresciallo Gatti commentò: «Così imparano un’altra volta a non rispettare il coprifuoco».

    Grande carabiniere questo. Fedele nei secoli?

    Troveremo strada facendo molti carabinieri vestiti da criminali fascisti. O, se preferite, molti criminali fascisti vestiti da carabinieri.

    Maria non ha più voluto parlare di quel giorno, con nessuno, per sempre.

    Solo 11

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