Sherlock Holmes e la leggenda del licantropo assassino
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Giallo - romanzo breve (109 pagine) - Un macabro caso di uccisioni in cui il rigore scientifico vacilla di fronte alla superstizione...
Quando Sherlock Holmes pare sprofondato in una delle sue crisi di malinconia e niente a Londra sembra più interessarlo, il dottor Watson decide che una vacanza in campagna, nella remota e primitiva regione delle Cotswolds, gli gioverà. Una volta arrivati, però, i due eroi di Baker Street si troveranno a dover risolvere un macabro caso di uccisioni in cui il rigore scientifico vacilla di fronte alla superstizione e all’atavica seduzione del soprannaturale.
Peter K. Andersson è uno storico specializzato sui temi dell'Inghilterra vittoriana. Ha pubblicato molteplici lavori sulla vita e la cultura popolare in epoca vittoriana. È nato e vive in Svezia.
Questo racconto è uscito originariamente nel 2015 nella sua antologia intitolata The Sensible Necktie and other stories of Sherlock Holmes ed edita da MX Publishing.
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Sherlock Holmes e la leggenda del licantropo assassino - Peter K. Andersson
a cura di Luigi Pachì
Peter K. Andersson
Sherlock Holmes e la leggenda del licantropo assassino
ROMANZO BREVE
Traduzione di Luca Sartori
ISBN 9788825412338
© 2015 Peter K. Andersson
Titolo originale: The Adventure of the Cotswolds Werewolf
Edizione ebook © 2020 Delos Digital srl
Piazza Bonomelli 6/4 20139 Milano
Versione: 1.0
Curatore Luigi Pachì
Traduzione di Luca Sartori
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Grazie, da parte di Delos Digital, dell'autore del libro e di tutti coloro che vi hanno lavorato.
Indice
Copertina
Il libro
L'autore
Sherlock Holmes e la leggenda del licantropo assassino
I. Un tranquillo angolo d’Inghilterra
II. I passatempi del reverendo
III. Il richiamo dell’airone stellato
IV. Un interludio grottesco
V. L’uomo della selva
VI. I segreti di un vecchio pastore
VII. Il racconto di uno Slaughter
VIII. La cacciata del lupo
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L'autore
Peter K. Andersson è uno storico specializzato sui temi dell'Inghilterra vittoriana. Ha pubblicato molteplici lavori sulla vita e la cultura popolare in epoca vittoriana. È nato e vive in Svezia.
Questo racconto è uscito originariamente nel 2015 nella sua antologia intitolata The Sensible Necktie and other stories of Sherlock Holmes ed edita da MX Publishing.
Dallo stesso autore
Peter K. Andersson, L'avventura della cravatta adeguata Sherlockiana ISBN: 9788825400953 Peter K. Andersson, Il banco di nebbia Sherlockiana ISBN: 9788825401004 Peter K. Andersson, Sherlock Holmes e l'avventura della cornacchia gracchiante Sherlockiana ISBN: 9788825401080 Peter K. Andersson, Sherlock Holmes e il mistero del pub Sherlockiana ISBN: 9788825401677 Peter K. Andersson, Sherlock Holmes e l'avventura della Piramide di Tooting Sherlockiana ISBN: 9788825401752 Peter K. Andersson, Sherlock Holmes e l'avventura degli scarponi rubati Sherlockiana ISBN: 9788825401820 Peter K. Andersson, Sherlock Holmes e l'incredibile esperienza del professor Parkins Sherlockiana ISBN: 9788825404654 Peter K. Andersson, Sherlock Holmes e l'avventura della scatola vuota Sherlockiana ISBN: 9788825404760 Peter K. Andersson, Sherlock Holmes e l'avventura del monocolo migratore Sherlockiana ISBN: 9788825404821
I. Un tranquillo angolo d’Inghilterra
All’inizio dell’autunno del 189.. io e il mio amico Sherlock Holmes decidemmo di trascorrere una settimana di riposo in un albergo nel cuore delle Cotswolds. Era un venerdì quando partimmo dalla stazione di Paddington con i bagagli sistemati ordinatamente sui portapacchi di uno scompartimento di prima classe e il sole pigro di settembre che avvolgeva gli edifici in arenaria rossa dei sobborghi di Londra nei suoi raggi tremolanti. Avevo atteso quel viaggio con non poca trepidazione dopo che nei giorni immediatamente precedenti ero stato testimone di come il mio amico fosse sprofondato nell’abisso di una noia indefinibile. Era la conseguenza della mancanza di stimoli intellettuali, come al solito, benché in quell’occasione la noia e l’apatia di carattere episodico che gli erano abituali avessero presto ceduto il passo a un prolungato attacco di angoscia e depressione. La sola cura che mi fosse venuta in mente era cercare rifugio in campagna. Avevo tuttavia la convinzione segreta che fosse una soluzione fin troppo convenzionale per un problema non convenzionale.
Holmes non aprì bocca per tutto il viaggio. Evitava il mio sguardo, come faceva da giorni, e passava il tempo assorto in meditazione e nello studio di un volume dalla copertina in panno nero che aveva acquistato qualche settimana prima, ma che si era rifiutato di farmi vedere da vicino. Aveva acconsentito al viaggio con una certa riluttanza, naturalmente, e poiché io stesso non ero del tutto sicuro dell’efficacia di quella terapia ero stato inizialmente frenato dall’indecisione, ma poi avevo pensato che non c’era ragione di mostrarmi esitante e così mi ero fatto valere fino al giorno in cui Holmes, rannicchiato sulla sua poltrona, non aveva capitolato con un sospiro. – Be’, se proprio devo starmene in panciolle, un posto vale l’altro.
Quelle erano state le uniche parole che gli erano uscite di bocca nei giorni di mutismo immediatamente precedenti l’inizio del nostro viaggio.
Man mano che ci lasciavamo Londra alle spalle e il paesaggio industrializzato della Valle del Tamigi svaniva lentamente, la verzura della campagna circostante diveniva sempre più intensa e mi ricordava il tempo che era trascorso dall’ultima volta che mi ero concesso una boccata d’aria pura in campagna. La vista delle verdi colline così belle sembrava aver tirato su il morale anche a Holmes, che alla fine richiuse il libro e si mise a contemplare il panorama dopo aver lasciato scivolare il volume in una tasca laterale della sua giacca Norfolk. Io ne fui deliziato, ovviamente, ma mi trattenni dal fare commenti perché lui non se ne rendesse conto.
Nel tardo pomeriggio arrivammo a Moreton-in-Marsh, nel cuore delle Cotswolds. La minuscola stazione era poco più di una capanna con delle tettoie ai lati dei binari. I marciapiedi erano popolati da una piccola folla di ferrovieri, facchini, tuttofare e un paio di cavalli da traino in attesa di rendersi utili. Una volta scesi dal treno venimmo avvicinati da un giovane vetturino il cui occhio acuto aveva senza dubbio individuato i due clienti più generosi che ci fossero da quelle parti. Non c’era ragione di rifiutare i suoi servigi e così lo seguimmo fino al cavallo con calesse parcheggiato sul lato opposto del marciapiede. La meta del nostro viaggio era un piccolo villaggio sperduto chiamato Upper Slaughter sulla cui amenità mi aveva più che rassicurato un mio collega, consigliandomi di soggiornare nella piccola locanda del paese, l’unica che ci fosse, un posto pittoresco chiamato Rosa Canina. Il vetturino ci fece scendere davanti alla facciata impagliata e con la coda dell’occhio notai che Holmes smontò dal calesse con un’aria di chi mostrava un certo scetticismo o presagiva qualcosa di brutto.
La locanda si trovava proprio al centro del villaggio, lungo un tratto di strada ghiaiosa sulla quale si affacciavano due file di casette d’altri tempi. Pochi metri più in là c’era un crocevia, e la strada che partiva da lì s’inerpicava su un pendio la cui sommità era abbellita da una piccola ma solida chiesetta medievale.
– Allora che ne pensa? – chiesi a Holmes.
– Penso… – sospirò aggrottando le sopracciglia – …penso che pioverà.
Alzai lo sguardo verso il cielo e mi resi conto che non ci voleva un genio per prevederlo. Il cielo non prometteva nulla di buono. Prendemmo i bagagli scaricati in strada dal gentilissimo vetturino e ci precipitammo dentro. Mi ci vollero alcuni istanti perché gli occhi si abituassero all’oscurità che ci avvolgeva. Eravamo arrivati in una piccola anticamera con le pareti rivestite da pannelli in quercia dove l’unica fonte luminosa era una lampada a petrolio che stava su un tavolinetto in un angolo. Fu come entrare in una tomba. Dalla porta aperta irruppe il rimbombo di un tuono e cominciò subito a piovere. Il buio nella stanza diventò ancora più buio allorché una figura che si muoveva silenziosa nell’ombra richiuse la porta alle nostre spalle e ci si parò davanti all’improvviso reggendo una candela dal lume tremolante.
– Buon pomeriggio, signori – disse. – Temo che il nostro clima non sia dei più accoglienti.
Era la voce di una vecchia signora, e non appena alzò l’intensità della fiamma con la manopola della lampada potemmo distinguere i suoi lineamenti: uno sguardo gentile incorniciato tra due guance paffute. Quello strano miscuglio di oscurità minacciosa e accoglienza cortese mi lasciò talmente spaesato che non seppi cosa rispondere.
– Siete gli ospiti che vengono da Londra, immagino – disse.
Holmes mi scoccò un’occhiata di sbieco per nominarmi silenziosamente portavoce di entrambi.
– Siamo noi – risposi con un tono molto meno entusiasta. – Sono il dottor John Watson, e questo è il signor Sherlock Holmes.
– Ah bene, i due signori di città. Benvenuti alla Rosa Canina. Sono la signora Faversham, proprietaria nonché responsabile di questo posto.
Non è necessario che mi dilunghi a trascrivere i convenevoli che seguirono, anche perché Holmes, come d’abitudine, si limitò a fare qualche stentata battuta di circostanza. Delle volte poteva essere socievole e cordiale, ma per lo più, soprattutto negli ultimi tempi, aborriva la superficialità delle chiacchiere vuote. Mi aveva spiegato le sue ragioni un’infinità di volte, e io le comprendevo, almeno fino a un certo punto, ma in cuor mio sentivo che quel suo modo di fare poteva apparire arrogante agli occhi della gente semplice abituata alle piccolezze della vita quotidiana.
– Non possiamo passare la vita a disquisire di questioni filosofiche o a mostrare la nostra conoscenza enciclopedica – gli dicevo spesso. – Dobbiamo pensare anche a vivere! E inoltre le persone semplici, che alla fin fine sono la stragrande maggioranza dell’umanità, si godono la vita senza sofismi o filosofemi.
Ma era una discussione che andava avanti da un’eternità. Di conseguenza, non sapevo tacere in situazioni del genere, né fare a meno di provare un certo fastidio per l’arroganza e l’impazienza di Holmes, ma in quell’occasione feci uno sforzo enorme e non dissi nulla, ricordando a me stesso che eravamo all’inizio di un lento processo di guarigione. La signora Faversham ci accompagnò nelle nostre stanze dopo averci indicato dove si trovavano un accogliente salottino e la sala da pranzo ai due lati dell’atrio buio in cui eravamo entrati. Non appena la signora Faversham fece per porgergli la chiave, Holmes gliela strappò di mano liquidandola con un brusco Grazie, signora Faversham!
e si affrettò a rifugiarsi nella camera richiudendosi la porta alle spalle. Io mugugnai delle scuse alla povera donna un po’ scioccata dicendole che il amico aveva un brutto carattere e mi ritirai nella mia stanza.
Supponevo di aver dato per scontato che quella sera avrei rivisto Holmes a cena, ma quando lui non si presentò al tavolo tutto mi sembrò fin troppo chiaro. L’avrei più rivisto nei pochi giorni seguenti? Avrebbe mangiato? Avrebbe lasciato la sua stanza? Se ne sarebbe andato senza tornare? Le preoccupazioni si accumulavano una sull’altra e sentii tutto il loro peso sulle spalle. Mi dissi che stavolta avrei dovuto soltanto pensare a rilassarmi. E così mi sforzai di non pensare a Holmes. È un uomo adulto, pensai, e può benissimo badare a sé stesso. Non ero del tutto convinto che fosse la verità.
Quando scesi per la cena arrivai in sala da pranzo dopo aver attraversato una serie di salottini bui pieni zeppi di mobili bizzarri, tappeti di pelle di pecora e teste di animali imbalsamate che non dovevano essere stati spolverati da tanto tempo. L’unico suono in un silenzio quasi spettrale veniva da una vecchia pendola che ticchettava con un rumore così forte da sembrare quello di un macchinario industriale, e poi c’era la pioggia che batteva sui vetri delle finestre. Avevano appena cominciato a servire la cena. La signora Faversham era seduta a capotavola attorniata da una pittoresca combriccola di uomini e donne di una certa età. Mi furono presentati come il colonnello Draycot, militare in pensione, il signor Bevis Tipsy, artista dilettante, e Florence Gilchrist, una vedova del posto. Neanch’io ero più nel fiore degli anni, ma di fronte a loro mi sentii di nuovo un fanciullino. Cominciammo a cenare senza perdere altro tempo e iniziai così a conoscere meglio i miei commensali, acquisendo una graduale confidenza con i pacati ma noiosi pettegolezzi del paese. Ebbi l’impressione che quel tranquillo